La strada dei bulloni di ruggine_Franco Cadenasso
_Franco la chiamava così, quella che poi una strada non lo era neppure. Poco lontano dal gruppo di case sparse ai lati della ferrovia si apriva un breve tratto in terra battuta, una sorta di arida spianata. Qui c’erano alcune basse costruzioni in metallo che ospitavano delle officine meccaniche, specializzate nella riparazione di camion e furgoni.
Franco ci passava quasi ogni giorno, dopo essere tornato a casa da scuola e aver pranzato di fretta, per raggiungere i suoi coetanei al campetto su cui venivano disputate interminabili e chiassose partite di calcio.
Gli piaceva sentire l’odore di ferro e di grasso, gli sbuffi dei motori che facevano capricci, i vapori della nafta e della benzina. Era affascinato dalla magia sprigionata dalle mani dei meccanici, che con qualche giro di chiave inglese sapevano mettere ordine in quel mondo misterioso nascosto sotto il cofano. E poi c’erano le pozzanghere unte che inzuppavano la terra e avevano gli stessi colori dell’arcobaleno. E un po’ dovunque resti di ormai inutili ferraglie e tanti, tanti bulloni che si erano arresi all’inevitabile corrosione. Da lì era nato il nome di quella strada, la strada dei bulloni di ruggine, appunto.
Quel giorno le officine erano chiuse, era domenica. Qualche mezzo in avaria aspettava pazientemente il giorno dopo, come un malato in attesa della cura che lo possa rimettere in piedi. Era primavera inoltrata e, sotto il sole già caldo, Franco trotterellava felice, leggero come il peso dei suoi anni sereni.
È ancora domenica ed è primavera. Le scarpe impolverate strisciano un po’ sulla terra battuta, il corpo grava da un lato sulla punta consumata del bastone. Ora è tutto desolatamente diverso e solo il bisogno di nostalgia ricompone l’antico scenario, ricollocandovi i pezzi mancanti presi dal bagaglio dei ricordi.
Il bastone incespica, la punta scivola su un rottame che affiora, come un morto che abbia risalito la terra per mettere il teschio alla luce.
Non ci sono carcasse di furgoni o di camion, solo piccoli dossi di polvere rossa, ferro ammorbato dall’aria, tombe approssimate e senza lapidi.
Franco si era fermato di fronte alla cosa che più di ogni altra in quel luogo lo incuriosiva. Era una vecchia casetta in pietra, a un piano e senza finestre, in cui non si era mai visto entrare nessuno, e da cui nessuno era mai uscito. Una porticina verde, più bassa dell’altezza di un uomo, era ben chiusa e Franco aveva spesso provato inutilmente a forzarla. Dalla fessura tra la porta e il gradino entravano e uscivano sinuose lucertole: fortunate loro, che potevano profanare l’arcano sito, che tanto stuzzicava la sua fantasia.
Dal campo si udirono le voci dei ragazzi e l’inconfondibile tonfo del pallone tormentato dai calci. Franco gettò ancora uno sguardo alla casetta, poi raggiunse di corsa i compagni.
Le scarpe impolverate poggiano insicure sul gradino. Il bastone si alza tremante verso i contorni della porta, la punta accarezza le soffici e intricate ragnatele, che vi si avvolgono, si lasciano rapire, con eccessiva e quasi ruffiana docilità. Quella porta è l’unica cosa rimasta uguale a se stessa per tanto tempo, ostinatamente chiusa.
La punta del bastone preme, picchietta qua e là, senza logica, con un pizzico di rabbia, ora.
Forse bastava bussare o attendere che fosse il momento di farlo. Sospirando sui cardini, l’antica porta lentamente si dischiude.