L'angolo dello scrittore

La vecchia

racconto di Giorgio Fontana www.giorgiofontana.com

 

Laggiù abita Dio, diceva la vecchia, e noi a prenderla in giro e ridere con tutti i denti.
Avremo avuto otto, nove anni: era estate. Vivevamo per strada, a balzi fra le mura rotte e i parcheggi e i vetri delle zone a nord della Centrale. Io stavo coi pantaloni corti tutto il giorno e non pensavo quasi a niente. Milano era ancora solo il mio quartiere, un crocicchio di strade e bar di vecchi, dove la città si dirada come un’onda sulla sabbia. Giocavo a pallone sopra l’asfalto bollente, accanto al palazzo, quattro zaini come pali. I miei litigavano e di lì a poco si sarebbero separati. Ma io ancora non ci pensavo. Non pensavo a niente.
Vicino al nostro campo stava quella vecchia. Sedeva tutto il tempo su uno sgabello di plastica verde, con un fazzolettone sulle spalle. Non sapevo neanche dove vivesse di preciso. Stava sempre lì, tutto il giorno, con le mani che le tremavano. Nel quartiere dicevano che era pazza.
Laggiù abita Dio, gridava lei ogni tanto, ed era la sola cosa che diceva. Indicava una vecchia fabbrica abbandonata. I piani bassi della fabbrica. Laggiù, laggiù, diceva.
E basta!, urlava Stefano, tenendo la palla ferma sotto il piede. Noi ridevamo.
Mio padre non voleva che parlassi con lei, per nessun motivo. Credo ne avesse come paura. Un giorno scese con quei suoi pantaloni sformati, la camicia a quadri un po’ aperta. Le passò davanti e la fulminò con gli occhi.
Dio abita laggiù, piagnucolò lei.
Vaffanculo, rispose mio padre, e andò a gettare l’immondizia.
Io ero sdraiato sull’erba secca del giardino, sotto l’unico albero, da solo. Credo fu lì che per la prima volta odiai davvero mio padre. Non so perché. Ho questo ricordo, netto. Avevo avuto tante altre occasioni per imparare a odiare, ma non ci avevo ancora fatto caso. Ora invece era fatta. Ero anch’io nel giro.
Per il resto giocavo a pallone e non pensavo a niente. Stefano mi passava a chiamare all’una e mezza, che avevo ancora la pasta nel gozzo, e scendevamo a fare uno contro uno finché non arrivavano gli altri.
E allora giocavamo e la vecchia ci guardava, come sempre, tutto uguale un giorno dietro l’altro di quell’anno, di quell’estate, ore sudate che il tempo infilava come perle di plastica.
Laggiù abita Dio, laggiù, gridava, e indicava la fabbrica dismessa. Le prime volte ci voltavamo a guardare quell’edificio grigionero, coi vetri rotti, dove mio fratello andava ogni tanto la notte coi suoi amici, a fare non so cosa. Poi non ci badammo neanche più. Faceva da contrappunto alle nostre, di grida, ed era tutto.
Il tramonto arrivava più in fretta di quanto pensi. Enorme e viola come uno spettro. Mio padre tornava dai suoi giri in bicicletta, pedalando storto, ubriaco. Noi facevamo la fila alla fontanella e giocavamo a spruzzarci.
Laggiù abita Dio, diceva ancora la vecchia, imperterrita.
Una volta Marco le chiese perché Dio avrebbe dovuto vivere in un posto così brutto. Poteva starsene in Duomo, no? Noi ridemmo tutti, un suono vuoto.
No, Dio deve umiliarsi, umiliarsi, rispose la vecchia piangendo. Deve umiliarsi per amarci!
Nessuno di noi ci capì niente. Fu l’unica volta che le parlammo. Da una finestra sentii la voce stanca di mia madre che mi chiamava. La notte avrebbe inghiottito il quartiere, la seggiola, la vecchia e il suo Dio che viveva nella fabbrica. Ogni tanto, prima di addormentarmi, mi veniva ancora in mente. Ora penso che lei aveva almeno qualcosa di bello per cui piangere.
Ma a quel tempo il sonno mi prendeva al volo, nonostante l’afa e le zanzare, stanco com’ero del giorno. Mi giravo sul fianco e chiudevo gli occhi, mentre di là mio padre gridava.