La verità, vi prego, sulla morte di Pasolini_2^parte
Può essere d’aiuto vedere l’intervista che Pelosi ha rilasciato nel 2006 al blog di Beppe Grillo (www.beppegrillo.it) in cui egli afferma di non sapere che nell’auto di Pasolini quella notte c’erano tre milioni di lire portati per pagare in contanti i fratelli Borsellino, in cambio della restituzione delle bobine del film Salò. Film rubato in precedenza dallo stabilimento cinematografico Technicolor, sempre a Roma. In quella intervista Pelosi dichiara: «Seppi in seguito che Pasolini aveva tre o quattro milioni sotto un tappetino della macchina, e nessuno li toccò, perciò… non si parla né di trappole, né di rapine, né di furti e né di niente.» Il giornalista allora gli chiede: «Perciò conferma che fu un delitto premeditato?», e Pelosi risponde: «No! Non usiamo questi cosi, questi paroloni… il mio pensiero è che questi volevano dare addosso al comunista o al gay non lo so. Secondo me! Non so se secondo il caro amico Giuseppe Lo Bianco [si riferisce all’autore del libro Profondo nero ndr] non so quanto dava fastidio questo personaggio.» Ed è abbastanza strano che nel 2006 Pelosi non sapesse dei soldi (i soldi, di solito, non si dimenticano mai!) per poi scriverlo (o ricordarlo) nel libro nel 2011. «Alzò il tappetino dove stavo seduto e mi fece vedere un mucchio di soldi da cento e da cinquantamila lire tutti legati con delle fascette di carta, tolse due banconote da cinquantamila lire e mi disse: “Mettile in tasca”. Ma io non volli accettarle; mi sentivo in colpa perché sapevo che qualche soldo me lo avrebbe dato il Bracioletta. Glielo dissi. Si mise a ridere e aggiunse: “Mi pare giusto. È per questo che sei preoccupato?». Nonostante queste incongruenze, Pelosi scrive: «Ci sono voluti trent’anni per prendere il coraggio a due mani e rivelare pubblicamente di non essere stato l’assassino di Pasolini e di essermi accusato dell’omicidio solamente perché sotto minaccia. Nel 2005, infatti, nel corso della trasmissione Ombre sul Giallo di Franca Leosini, ho riferito di essere stato aggredito da tre persone che parlavano con accento siciliano, che mipicchiarono e che uccisero Pasolini. Era solo l’inizio di una verità. Una verità, purtroppo, ancora filtrata dalla paura. […] Pino Pelosi si è trovato coinvolto in una storia più grande di lui, non in grado di capire minimamente cosa stesse accadendo. Ero troppo piccolo, troppo ingenuo per capire quale fosse la portata di quello che sarebbe successo. Pino Pelosi non è e non vuole apparire come vittima del sistema, ma ha finito per essere stato usato dal sistema. Pino Pelosi era un “ladro di motorini”. Era quello che sapeva fare, ma non sarebbe mai stato capace di fare del male a nessuno.»
Quest’autodifesa è legittima quanto umana, eppure egli nel rivelare la verità produce un tratto di contraddizione che a poche pagine torna evidente da sue spontanee dichiarazioni. «Decisi di rilasciare un’intervista in televisione alla giornalista Franca Leosini, rivelando una grande parte della verità inerente l’omicidio di Pasolini. Senza dare troppi particolari, feci i nomi dei fratelli Borsellino e indicai la presenza di altri tre adulti sulla scena del delitto. Descrissi la dinamica dei fatti, diedi i connotati di uno degli uomini, ossia di quello che mi tenne fermo e mi colpì al volto. Per paura di aver detto troppo e di finire male per mano di quelle persone, magari ancora viva o facente parte di un’organizzazione malavitosa, diedi una falsa pista dichiarando che gli aggressori parlavano in dialetto siciliano o calabrese e che la Fiat 1500 era targata CT.» Insomma, Pelosi ha il desiderio di scrollarsi di dosso la fama di assassino, di dire la verità, ma parla contraddicendosi, motivando la cosa perché ha paura. Una paura che si è affievolita con il trascorrere del tempo, ma che potrebbe ancora essergli dannosa per le cose che può dichiarare. Pelosi dice che furono due le auto presenti la notte dell’omicidio, che tre furono gli aggressori del poeta e che i fratelli Borsellino (soprannominati Bracioletta e Labbrone) parteciparono come astanti. Pelosi ricostruisce anche la dinamica dell’estorsione che, di fatto, è il movente che porta alla morte dello scrittore, che, però, nell’intervista al blog di Grillo sembra escludere. Pasolini viene ricattato dai Borsellino perché desidera riavere indietro le bobine di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultimo film-denuncia del poeta, mentre Pelosi dichiara di essere stato usato come “esca” dai fratelli Borsellino, i quali, a loro volta, rispondevano agli ordini di un certo Sergio Placidi, (uno spacciatore di droga della Roma bene), in quanto nel quartiere di Casal Bruciato si era diffusa la voce che Pelosi era diventato “frequentatore” assiduo del poeta. A questo punto i Borsellino (oggi entrambi deceduti) hanno pensato di tirare in ballo l’amico. In questo modo Pelosi ha fatto da tramite, pur essendo ignaro delle intenzioni reali dei Borsellino di aggredire Pasolini oppure di ucciderlo attraverso una ritorsione politica, il cui piano rimarrebbe ancora sconosciuto. Certamente questi elementi sono favorevoli ad una riapertura delle indagini sul delitto dello scrittore, e non è nemmeno nostra intenzione diffidare totalmente da Pelosi.
Il caso, quindi, merita ancora tanta attenzione, anche se scoraggia sapere che tante prove sono andate perdute, che tanta verità è stata insabbiata. Le parole di Pelosi non sono comunque vane, e non spetta di certo ad un critico allarmare o diffidare, ma spetta alla magistratura capire cosa c’è dietro il delitto Pasolini. Riaprire il caso è un atto dovuto a Pasolini, al suo “sacrificio” in termini meta-letterari. Tant’è che Walter Veltroni nel2010 hatanto caldeggiato che si riaprissero le indagini, scrivendo un’accorata lettera all’attenzione al Ministro della Giustizia Angelino Alfano e al suo Guardasigilli, che ha ottenuto la riapertura del caso. Per cui ad essere determinante in questa vicenda, oltre alle dichiarazioni di Pelosi, che nel libro sono giornalisticamente interessanti anche se corrispondono al tentativo, legittimo, dell’autore di scagionarsi definitivamente dall’ignominia, dal marchio di assassino, sono maggiormente i nuovi strumenti di investigazione della polizia scientifica. Questi, utilizzati secondo le giuste opzioni, potrebbero sollecitare riflessioni ed analisi ancora più profonde, determinare ulteriori risultati delle tracce ematiche evidentissime sulla camicia del poeta, quanto sugli abiti che Pelosi indossava la sera del delitto.
Il libro, dunque, non è importante perché è scritto da Pino Pelosi (il che in questa Italia scoraggiata può suscitare anche facili irritazioni, ulteriore antipatia o diffidenza, e come sostiene anche Walter Veltroni «Ha detto molte verità il ragazzo [riferendosi a Pelosi ndr] e, dunque, forse nessuna verità. Mi domando che interesse avesse, in quel momento, a riaprire una vicenda per la quale aveva già scontato la pena. Ma non conta.[iii]»), ma perché insieme alle altre dichiarazioni di altri testimoni dell’omicidio quanto di soggetti che hanno captato la presenza di personaggi loschi, quali Sergio Placidi e Antonio Pinna (quest’ultimo appartenente al Clan dei Marsigliesi, portò l’auto di Pasolini da un meccanico per fare riparare la carrozzeria), contribuisce alla costruzione del puzzle tutto italiano della verità di un delitto su cui, a detta di Pelosi e non solo sua, il sipario non calerà mai definitivamente.
[i] Vedi «Morire per le idee (vita letteraria di P.P. Pasolini)» di R. Carnero, Bompiani, 2010.
[ii] «Mangia mi suggerì [avvocato nominato dalla famiglia Pelosi ndr] di accollarmi l’omicidio e di mantenere questa linea, sostenendo a spada tratta che sul luogo del delitto ci fossi solamente io. […] Mi fece incontrare Franca Maria Trapani, giornalista della rivista “Gente”, e mi fece intervistare dentro il suo studio in cambio di un pagamento di tre milioni di lire. Mantenni la stessa versione. Mi disse che c’erano alcune foto fatte dalla Scientifica relative al sormontamento del corpo da far sparire ma che a questo ci avrebbe pensato qualcun altro. Io raccontai ogni cosa a Mangia. Gli dissi che non ero stato io ad ammazzare Pasolini; che non ero stato neppure io a montargli sopra con la macchina, ma lui mi disse di stare tranquillo e che sarebbe stato meglio per tutti mantenere quella versione. Doveva ridursi tutto ad un fatto isolato strettamente legato a me e a Pasolini. Impostò la difesa sulla “colpevolezza senza complicità”, diversamente da quanto avevano iniziato a fare gli Spaltro. […] Io non ero in condizione di accusare nessuno, ma certo è che si preferì non disturbare i “colletti bianchi” che “forse” qualcosa di interessante avrebbero saputo raccontare…» (P. Pelosi, Io so… come hanno ucciso Pasolini, ed. Vertigo, 2011)
[iii] Ibidem