L’Africa nuova è un banco di scuola
di Renato Kizito Sesana
Ian ha poco più di diciassette anni, al primo contatto è timido, taciturno, riservato, al punto da poter apparire scontroso. Eppure quando è fra i suoi compagni a Kivuli emerge subito come un leader. Non si fa notare, non si mette in mostra, ma in un gruppo di coetanei Ian diventa presto un punto di riferimento. Da quando è arrivato a Kivuli ed ha ripreso la scuola, non sola ha bruciato le tappe recuperando quasi tutti gli anni perduti e riuscendo così a finire la classe ottava lo scorso novembre, ma nella scuola pubblica che ha frequentato è sempre stato capoclasse, e negli ultimi due anni rappresentante di istituto. Agli esami ha avuto risultati molto alti e ha ottenuto una borsa di studio stanziata da Equità Bank in una delle scuole pubbliche più esclusive del paese. Il primo giorno di scuola, a gennaio, è stato nominato capoclasse.
Catherine Odono, ventuno anni, anche lei proveniente dalla strada, letteralmente da una vita randagia, in una miseria umiliante che ne avrebbe potuto fare un’eterna vittima, è invece una ragazza della Casa di Anita, determinata a diventare sempre più indipendente. Sta già frequentando il primo anno di università, e basta parlare con le pochi minuti per capire di essere alla presenza di una forza capace di superare ogni ostacolo.
Moses Chimwanga, ventitré anni, ha un carattere completamente diverso dagli altri due. È solare, è difficile sorprenderlo senza che sorrida. La sua storia è stata pubblicata lo scorso novembre sul quotidiano inglese The Guardian con il titolo From street child to college boy con una foto, ovviamente con un sorriso smagliante, nel cortile del Mthunzi Centre. Per il suo carattere vivace la sua carriera scolastica non è stata così lineare come quella di Catherine e di Ian, ma cel’ha fatta. I tempi in cui viveva in strada facendo di tutto pur di riuscire a procurarsi un po’ di alcol da bere o di jenkem (solvente per vernici) da sniffare sono un ricordo vivido ma superato.
Tre belle storie, tre perone straordinarie che ci convincono che il sostegno che abbiamo dato loro e che continuiamo a offrire con passione e amore a tanti altri bambini di strada, a Nairobi come a Lusaka, è ampiamente ripagato.
Ma non possiamo evitare qualche riflessione. Innanzitutto misurare il successo di un’educazione alla vita, come quella che noi intendiamo offrire, col solo metro dei risultati scolastici sarebbe sbagliato. Ci sono tanti ragazzi che sono passati dalle nostre case e che non hanno avuto grandi successi accademici o che, a causa della loro storia e dei loro limiti personali, hanno smesso di studiare alla fine della scuola dell’obbligo. Ora sono meccanici, sarte, segretarie, falegnami, camerieri e cuochi che si guadagnano la vita onestamente e dignitosamente.
Non ci piace la mentalità prevalente in Kenya, dove i giornali pubblicano con grande risalto i risultati scolastici della classe ottava e della dodicesima (rispettivamente ultima classe della scuola primaria e ultima classe della secondaria). Per diversi giorni in prima pagina ci sono le foto dei ragazzi più bravi e la classifica delle scuole che hanno avuto gli studenti migliori. Per le scuole è motivo di vanto – e soprattutto di guadagno, visto che quasi sempre si tratta di istituti privati – essere nei primi posti in questa clsassica. Nei giorni successivi non mancano mai, sempre riportati con evidenza, i casi di studenti che si suicidano perché non sono passati o non hanno avuto i risultati che si aspettavano. È un’educazione pensata e vissuta come strettamente funzionale a un tipo di società che esalta la competizione e il successo. Gli esami sono test scritti, uguali per tutti a livello nazionale, col risultato di confondere spesso educazione con memorizzazione. Se agli insegnanti, alle scuole e ai genitori interessa solo che gli studenti passino gli esami con voti alti, non c’è una vera educazione alla vita, destinata all’intera persona umana.
La Carta Africana sui Diritti e il Benessere dei Bambini (1999) è una lunga lista di speranze disattese. Ma è un buon punto di partenza per vedere quali dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema educativo statale. Le prime righe dell’articolo 11 affermano che “ogni bambino ha diritto all’istruzione. L’educazione del fanciullo deve avere come finalità: la promozione e lo sviluppo della personalità del minore, dei suoi talenti e capacità fisiche e mentali, in tutto il loro potenziale; promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Troppo facile constatare che invece in Kenya, in Zambia, in Sudan, là dove siamo presenti, il sistema educativo è ben lontano dal raggiungere tutti i bambini, e che quando li raggiunge non li educa, non li abitua a ragionare con la propria testa e a sviluppare uno spirito critico, a scegliere i valori che daranno forma alla loro vita: semplicemente li indottrina, o li ammaestra.
Gli esclusi, i marginalizzati, non hanno bisogno di un sistema educativo che li confermi nella certezza del loro senso di inferiorità e li convinca delle loro inadeguatezze. Hanno bisogno di una mano amica che offra loro la possibilità di educarsi, di e-ducere da se stessi le potenzialità della loro persona. Non scopriremo mai abbastanza quanto bene possa fare e quanto Vangelo possa annunciare una mano tesa a un bambino in difficoltà.