I racconti del Premio letterario Energheia

L’amore non si merita, Antonietta D’Amico_Bagheria(PA)

Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani

Ormai è così che riconosco i miei quaderni. Sì, so che solitamente li si distingue in base al colore o alla tipica copertina delle elementari, su cui ogni mamma scriveva il nome della materia in questione (scelta presa obbligatoriamente la sera prima dell’inizio del nuovo anno scolastico in mezzo alle urla e ai rimproveri), ma credo che il mio metodo, almeno per quanto mi riguarda, sia altrettanto efficace. La verità? Ho la mania di appuntarmi qualunque frase mi colpisca, che mi venga detta in prima persona o meno e, fra le migliaia di citazioni che ho raccolto in questi anni, scelgo quelle che mi caratterizzano maggiormente, le quali, a loro volta, contraddistinguono i miei quaderni di scuola. Devo ammetterlo, ogni anno la cernita si fa sempre più difficile…
Prima ora del lunedì mattina: avevo preso il quaderno giusto, una frase in latino può essere scritta solo sul quaderno di latino, no?
Che la lezione abbia inizio: ‘’Buongiorno ragazzi, come state?’’. Evidentemente la professoressa non ha ancora capito che verrà sempre investita da un’ondata di “male’’ e/o “malissimo’’ come risposta, ma, forse, porre questo interrogativo è diventato un vero e proprio cerimoniale. Stranamente contenta, sembra nascondere qualcosa o, meglio, cerca di mantenere un segreto che sembra volerci svelare il prima possibile;
si possono udire degli impercettibili ‘’noooooo Seneca nooooo’’ all’arrivo del temutissimo foglio sui banchi, tuttavia, tutti iniziano a leggere e a svolgere la cosiddetta versione di prova in vista di quella della settimana prossima, da cui dipendono le sorti di molti.
“Gallione, fratello mio, tutti aspiriamo alla felicità, ma quanto a conoscerne la via, brancoliamo come nelle tenebre. È infatti così difficile raggiungerla che più ci affanniamo a cercarla più ce ne allontaniamo, se prendiamo una strada sbagliata; e se questa, poi, conduce addirittura in una direzione contraria, la velocità con cui procediamo rende sempre più distante la nostra meta’’- finisce di leggere Simone, chiamato costantemente a condividere per primo la sua sempre impeccabile traduzione, il quale, benché affascinato dalle materie umanistiche, ha scelto di frequentare il liceo scientifico per infastidire i suoi genitori, per cui a soli otto anni aveva già imparato a memoria l’alfabeto greco, rivelatosi, ahimè, inesorabilmente inutile. Ciò detto, veniamo a conoscenza di quello che la professoressa Marino agognava tanto comunicarci: dopo aver confessato la sua predilezione assoluta per Seneca, ci assegna un tema da consegnarle la settimana seguente: “Cos’è per te la felicità? Come la vivi? Con chi la condividi? Credi di meritarla oppure no?’’. Molto compiaciuta per essere finalmente riuscita a trovare un collegamento interdisciplinare fra le sue materie, esce dalla classe come se avesse appena esordito davanti al grande pubblico con il suo capolavoro. Mi aveva spiazzata e, a dire il vero, non comprendevo appieno il suo entusiasmo. Quella sera, rintanatami in camera mia, mentre tentavo di buttar giù una bozza, più che altro un vero e proprio flusso di coscienza, mia sorella bussò alla porta e decisi di chiederle consiglio, dato che aveva imparato a conoscere la mia
fragilità a sue spese e sapeva bene cosa stessi passando. ‘’Sabri, credi che sia l’amore, in ogni sua forma, a rendere felici le persone, giusto?” le domandai, dopo averle accennato della traccia assegnatami. “Sai, Gaia, pensi di conoscere l’amore, ma non è affatto così, sei terribilmente propensa a nasconderti e sei ancora attaccata a un passato fatto di sbagli e di dolore; ricordi la sera in cui sei tornata a casa in lacrime per colpa sua? Stai rimettendo insieme i pezzi, sei ancora giovane, giovanissima e hai un mondo dentro. Tu sei il sole, Gaia’’. Passai la notte a rimuginare, continuò a frullarmi in mente quel “sei il sole’’, mi chiesi se si meritasse di essere annotato, ne dubitavo: il sole è il centro di tutto, ogni pianeta, ogni corpo celeste ruota attorno a esso; nonostante questo, rimanere esposti ai raggi solari è rischioso, la vicinanza del sole preclude la vita e, per di più, è impossibile guardarlo senza perdere la vista. Cosa voleva dire?
La mattina seguente, suonata la campanella della terza ora, Simone si alzò e si diresse verso la Marino in fretta e furia per portarle il foglio su cui aveva già terminato il compito su Seneca. “Ma è possibile che abbia già finito?!’’ pensai.
Uscita da scuola, ancora nervosa perché Simone, a differenza mia, aveva chiare le idee su cosa fosse la felicità, mi accorsi che Beatrice mi aveva inviato un messaggio, invitandomi a dormire da lei.
Beatrice? Una delle mie amiche più care, compagne di classe alle scuole elementari e medie; nel corso dell’estate prima dell’inizio delle superiori sfortunatamente si era trasferita in città, cosa che ci fece allontanare un po’; ora che l’Esame di Stato incombeva, però, era venuta a trovarmi più spesso. Credo che lo stesse facendo per scappare dalla sua realtà infernale, come biasimarla? Anche io avrei cercato un appiglio, un posto dove sentirmi a casa, dopo aver subito un trauma come il suo: la mia migliore amica di sempre, con cui passavo i pomeriggi a giocare con le bambole e a scorrazzare nel giardino di casa di papà, circa un anno prima era stata vittima di violenza durante una serata in discoteca finita in tragedia. Quando ne venni a conoscenza, rimasi sconvolta e corsi da lei e, da allora, una volta a settimana, studiamo insieme e, alternandoci, dormiamo l’una a casa dell’altra, proprio come ai vecchi tempi. Quella settimana l’avrei invitata a casa mia, sebbene dovessi necessariamente scrivere quel dannatissimo tema.
Il sole sta per tramontare, mi impongo di sedermi e di accantonare ogni timore: sapevo, infatti, che ciò che mi frenava dal comporre qualcosa era semplicemente la mia incommensurabile paura di ammettere la verità, prima che alla Marino, a me stessa.
“Socrate diceva che ti ama solo chi ama la tua anima e che non è forse vero che colui che ama il tuo corpo, quando cessa il suo fiorire, se ne va? Ma chi mai potrà amare la mia? È una domanda che mi tormenta, mi affligge perennemente e, per quanto provino a convincermi che la realtà non sia questa, io e soltanto io sono a conoscenza del dolore che provo, di come la felicità per me non abbia forma né colore. Tutto ciò che è sano appassisce vicino a me e al mio dolore, non si può colmare il vuoto che provo, mi sento inadatta, sbagliata, fuori luogo, chi mai potrebbe riuscire a farmi cambiare mentalità? Ho qualcosa di rotto dentro, che non può essere aggiustato, scappo ogni volta che la sola idea di felicità tenta di insinuarsi nella mia vita, perché?’’.
Non sono mai stata tanto brava a trovare le parole giuste, soprattutto nel dare un nome alle mie emozioni. Mi dicono spesso che magari è per questo che amo tanto attaccarmi alle citazioni, perché consistono in un vero e proprio punto di partenza. Effettivamente sono soddisfatta, sono riuscita davvero a tirar fuori, anche solo in parte, ciò che intrinsecamente mi disturba? Quasi non ci credo.
Odio il mercoledì e no, non lo dico perché è l’unico giorno della settimana in cui (fortunatamente) abbiamo storia dell’arte e, più di ogni altra cosa, non lo dico perché detesto ascoltare per ben due ore la professoressa tessere ininterrottamente lodi nei riguardi di Simone, ragazzo dalle mille qualità e, benché impegnatissimo, mai, e dico mai, impreparato (parole sue, riporto testualmente). Non mi spiego davvero come faccia questo ragazzo a diciotto anni a suonare il pianoforte, giocare a calcio ad alti livelli, dare lezioni private ai ragazzini “che ne hanno più bisogno’’, a detta sua, e a studiare senza implodere o impazzire. La mia invidia? Smisurata a dir poco. In ogni caso, è questa la mirabolante giornata che mi attende, che lo voglia o no…
Di solito a ricreazione giro per i corridoi insieme alle mie compagne, che non sono sicura di poter definire amiche, dal momento che, sì, ridiamo, scherziamo e ci comportiamo da tali, ma esclusivamente a scuola, non fuori; oggi, invece, non ne ho proprio voglia, quindi metto le cuffiette. Immagino cosa la gente pensi di me in questi momenti: mi vedono come decido di pormi o concretamente qualcuno riesce a scorgere la vera Gaia?
È scesa la sera, guardo la luna, mi ha sempre affascinata il suo rendersi visibile solo da una prospettiva. La faccia nascosta, come siamo soliti chiamarla, ha un terreno maggiormente accidentato e ricco di crateri, chissà, probabilmente quella che in gergo è conosciuta come “rotazione sincrona’’ è un escamotage della luna per impedire all’uomo di scoprire la sua parte peggiore. Non saprei, mi rilassa ammirarla a prescindere dall’attribuzione di connotati umani. Ispirata, comincio a scrivere anche stavolta.
“Perché sono terrorizzata dalla possibile idealizzazione di qualcosa che alla fine mi deluderà, perché temo di non meritare nulla, di non esserne all’altezza, di non riuscire a sopportare una sofferenza così grande nel momento in cui tutto giunge al termine? Non riesco, non voglio e non accetto di essere instabile, di sentirmi sull’orlo del precipizio, di percepire che per farmi crollare basti solamente una parola, ecco, odio essere consapevole di poter essere distrutta tanto facilmente. Non sono chi credo di essere e fa male, ma non posso avere tutto, non sono nulla di speciale, sono rimasta la bambina in cerca di attenzioni e di conforto che sono sempre stata.’’
Sono stanca, esausta, di sentirmi dire ‘’ce la farai’’, ‘’non te lo meritavi’’ o ancora ‘’ne uscirai più forte di prima’’. Io non avevo bisogno di essere “più forte’’, avevo solo bisogno di… beh, lasciamo stare. Stare seduta qui sul dondolo in giardino mi fa pensare a quando stavo qui con le sue mani fra i capelli, alla sua voce calma e alle sue braccia, in cui mi sentivo al sicuro… sembrano passate centinaia di anni.
Suppongo di aver dormito fuori per un po’, che papà o Sabrina mi abbiano trascinata non so come fino in camera: è una sensazione strana, risvegliarsi nel proprio letto pur sapendo di essersi addormentati altrove, tipico dei bambini che si rifiutano di andare a dormire, convinti di riuscire a vincere il sonno e finire l’imperdibile puntata del proprio
cartone del cuore, i quali puntualmente, dopo mezz’ora al massimo, sono già a crogiolarsi nel mondo dei sogni.
In ogni caso, seppur nostalgica dei sei anni, vengo svegliata da mia sorella che, in preda al panico e urlante, mi avverte gentilmente di non dover mai più utilizzare il suo balsamo senza il suo permesso (ci terrei a precisare che ha ben ventiquattro anni!).
Avviatasi in tal modo la giornata, arrivo in ritardo a scuola e, ancora fuori dalla classe, riconosco immediatamente la voce di Simone intento nel dimostrare a tutti, in primis al professore, di meritare, ancora una volta, una valutazione eccellente.
Ha davvero delle capacità eccezionali, non credo gli manchi nulla, è completo così, niente da migliorare: non è nemmeno uno di quei ragazzi che, oltre alla scuola e a riuscire in qualsiasi attività decida di intraprendere, ha una vita sociale, perché, seriamente, è miliardi di volte più popolare di me anche in città, non mi spiego come mai. Oggi la professoressa Marino è assente e io, una delle pochissime diciassettenni rimaste in classe, non posso uscire prima come gli altri, di conseguenza mi metto in uno dei banchi in fondo con l’obiettivo di appisolarmi fino al suono della campanella.
Sono sommersa dai compiti e ho intenzione di dare meno adito alla Gaia procrastinatrice che prende il controllo su di me dal giovedì pomeriggio in poi, anche perché stavolta Beatrice si ferma da me e vorrei non dover passare il poco tempo che abbiamo a disposizione sui libri. Se comincio a studiare presto, finisco di studiare presto, penso, condizione necessaria e sufficiente! Lo studio della matematica dà i suoi frutti, sebbene raggiungere i livelli di Simone sia impossibile. Dunque, decido di leggere per l’ennesima volta il mio libro preferito, “Le Notti Bianche’’ di Dostoevskij, stavolta in inglese, lingua che ultimamente sto cominciando ad apprezzare.
Mi riservo la terza notte, la mia preferita, per l’indomani e prendo dal cassetto della scrivania il foglio su cui continuare il tema: sembra che stia diventando un’abitudine, un rituale e, malgrado non sopporti ammetterlo, un tantino mi piace.
’’Cosa sto cercando? Che tipo di consolazione mi servirebbe? Cosa mi serve per essere felice? Penso a coloro che si reputano ‘’sognatori’’. Un sognatore, prima o poi, si rende conto che ha un obiettivo da perseguire e che nei momenti di angoscia, di sconforto, ciò che deve fare è occuparsi, dedicarsi a quello che ama di più, come se venisse rapito. È sveglio, in quei momenti, e ama. L’amore, infatti, è la chiave che gli è stata consegnata al fine di accedere al mondo reale. È colmo di felicità, nel senso più intrinseco della parola; nonostante ciò, prova una felicità diversa da quella che si percepisce all’interno della sua mente, in cui tutto è già scritto, già deciso, programmato, da se stesso. Quest’idillio, prima o poi, sfortunatamente finisce: tutte le cose, belle o brutte, appassiscono col tempo. Arriva sempre il “mattino”, il momento in cui bruscamente ci si accorge che ciò che lo tiene vivo, ciò che dà senso a tutti i sacrifici, gli è stato strappato via, è scappato, è finito.’’
Mi sento sempre ispirata quando rileggo un libro interamente sottolineato per la quantità immensa di poesia che vi riscontro all’interno.
Venerdì: finalmente, aggiungerei. È stata una settimana intensa, diversa, non riesco a capacitarmene, ma ho aperto il mio cuore a qualcuno, alla carta per essere sinceri, ma lo considero in ogni caso un grande passo: dire qualcosa, o scriverla, la rende reale e ci costringe a fronteggiarla.
La Marino è particolarmente arzilla e mi domando a cosa sia dovuta questa gioia apparentemente ingiustificata, forse devo solo abituarmi al fatto che, seppur inconsciamente, lei sia sempre così.
Ansia, ansia su ansia, tra qualche mese ci sono gli esami e nessuno, compresa lei, si fa scappare l’occasione di ricordarcelo e di terrorizzarci. Finito di interrogare, la professoressa ci chiede: “Ragazzi, ma a che punto siete con il tema?’’
Onte di “A mare, prof!’’ e di “Ancora devo iniziarlo!’’ riempiono la stanza.
Riflettendoci su, se ho comunque scritto qualcosa sul tema della felicità è stato grazie a Sabrina e, sebbene le appartengano atteggiamenti insopportabili, è mia sorella, ha rinunciato alla sua borsa di studio all’estero per rimanermi accanto in questa fase complicata, in cui mi sto tutt’ora leccando le ferite, persino dopo tutto il tempo che è trascorso. Insomma, la ringrazierò offrendole un gelato (anche golosa, se non ingorda) e ricomprandole il balsamo: si dovrà accontentare, anche perché domattina arriverà Beatrice e devo riposarmi.
E, come dimenticarmene, devo continuare a scrivere!
“Io invece? Io mi guardo dentro e mi perdo nel vuoto, mi perdo nell’intricata serie di labirinti di cui è costituita la mia anima. Labirinti in cui io stessa sono rimasta bloccata, inerme, incapace di reagire, di cambiare le cose. L’amore mi salverebbe? Me lo sono domandato più volte. Ma, in fondo, io so cos’è l’amore? Come si fa a conoscerlo se nessuno ti ha mai insegnato come si gestisce, come si vive?’’
Ho quasi finito, spero che la Marino apprezzi l’impegno, innanzitutto.
Beatrice è già a casa mia quando mi sveglio, chiacchiera animatamente con Sabrina, contenta per i pseudo-regali ricevuti. Comunico ad entrambe che quella sera prenderemo parte a una festa straordinaria, organizzata dai genitori di Mia, una delle compagne con cui avevo legato di più, tornati per le feste da Birmingham, dove il padre, uomo facoltoso, risiedeva per affari.
L’ora di andare a prepararsi arriva più velocemente del previsto e, nonostante sia passato un anno dalla sera che ha stravolto la vita della mia amica, ho ancora paura che lei possa sentirsi a disagio, ma non avevo potuto declinare l’invito. Giunte alla festa, vedo Beatrice impallidire e le chiedo come stia, ma rimane impassibile, come ipnotizzata, bloccata, inerme. Mi preoccupo, la faccio sedere e corro in cerca della padrona di casa, fortunatamente intercetto prima Simone: “Sono appena arrivata con una mia amica, ma sembra che abbia avuto un mancamento, non risponde, ti prego corri!’’.
Avevo il terrore di non trovarla dove l’avevo lasciata, ma, per miracolo, non si era spostata. Alla vista di lei, Simone è come paralizzato. A quel punto, perdo le staffe e comincio ad urlare: “Mi volete dire che diamine sta succedendo?’’
“È lui’’
’’Ma lui chi?’’
“Discoteca’’.
Con un sussulto, Beatrice scoppia in lacrime, trema e non so come aiutarla, Simone se la dà a gambe e poiché, gridando in quel modo, avevo attirato gli sguardi di chiunque, vedo correre Mia verso di noi, le racconto ogni cosa con un filo di voce e, indignata, va in cerca dei suoi per chiamare all’istante le forze dell’ordine. Mi sento
incredibilmente in colpa: come facevo ad ammirare un verme del genere, la causa del dolore irreparabile di una delle persone a cui tengo di più? Come, come facevo a crederlo perfetto?
Dopo pochi minuti ecco tornare Mia, scortata dal padre, che ci invita a entrare nella villa. Accompagno la mia amica sul divano mentre gli altri chiamano i soccorsi. Cerco la cucina per prendere un bicchiere d’acqua fresca per me e per lei, intravedo la figura di una donna, suppongo sia la madre della mia compagna. Ancora sconvolta entro comunque nella stanza, sento una voce fin troppo familiare, mi dico che si tratta di una mera conseguenza dello schock appena subito, ma, giratasi per il rumore dei miei passi, riconosco lei: mia madre.
Mia madre: la donna che mi ha abbandonata, che ho continuato a inseguire per anni, che mi ha fatta a pezzi, la persona che più mi ha ferita. L’ultima volta che l’avevo vista era in aeroporto, pronta a imbarcarsi per raggiungere l’Inghilterra; ero riuscita a raggiungerla per tentare, almeno, di fermarla, di farle capire quanto lei contasse nella mia vita nonostante tutto il male che mi avesse fatto. Le dissi, quella sera, che io non avevo ancora finito di amarla, che mi sarebbe mancata. Lei? Lei, per tutta risposta, replicò: “Io non riuscirò mai ad amarti, Gaia’’. E voltò le spalle. Non riuscivo neppure a respirare quando, quella sera, non so come, arrivai a casa e mia sorella mi calmò. Non ricordo nulla di quello che successe dopo. Mio padre è sempre al lavoro, non gliene faccio una colpa, tuttavia, non credo che fino a quel giorno si sia accorto di quanto male stessi. E ora? Me la ritrovavo lì. Che diavolo ci faceva lei lì? Non ho il tempo di battere le palpebre che entra il papà di Mia: ‘’Darling, she’s a friend of Mia’s, it happened something horrible tonight, the party is cancelled, I’m afraid…’’
Corro via. Le lacrime mi rigano il viso. E pensare che stavo cercando di parlare fluentemente l’inglese per lei. Mi sento chiamare. Non mi giro. Beatrice mi afferra il braccio quando le passo davanti. Adesso quella inerme sembro io.
“Chiama Sabrina’”.
Non credo di aver vissuto una giornata più brutta di quella, non ero mai stata così male, mia madre, quella che doveva essere mia madre, ora era la mammina modello di Mia? Lei sarebbe riuscita ad amarla, vero? Cos’avevo di sbagliato, cosa avevo di diverso da lei? Perchè io non meritavo una mamma?
Non sono riuscita a dormire per tre giorni, Bea è rimasta al mio fianco, almeno ho potuto concludere il tema.
’’Per quanto ancora dovrò rincorrere gli altri per ricevere amore, per essere felice? È servito a qualcosa punirmi così? Quello che ho fatto a me stessa non svanirà nel nulla, il tempo sbiadirà gli eventi e i miei ricordi, è vero, ma ciò che mi chiedo e che più ardentemente mi importa è: smetterò mai di essere vittima prima di tutto di me stessa?’’
È di nuovo lunedì: solito latino e solito “come stai”, a cui, stavolta decido di non rispondere. A lezione finita, la professoressa mi prende da parte: ‘’Gaia, voglio dirti solo una cosa, credo tu sappia quanto ami Oriana Fallaci, perciò: Chissà perché amiamo sempre chi non lo merita: quasi che questo fosse l’unico modo per ristabilire l’equilibrio perduto del mondo. È la più antica forma di masochismo, quella di amare chi non sa amare: e la più stupida.”