L’Angelo che mi ha salvato la vita_Silvia Rosiello, Matera
_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.
Capitolo 1
Soldi, sesso e fama… mondiale
Guardo soddisfatto il pezzo di carta che ho tra le mani: sfondo nero, scritte rosso fuoco a caratteri cubitali. E’ l’invito all’inaugurazione della mia mostra alla “National Gallery” di Londra.
Mi aspetta la solita serata tra cocktail, noiosi scambi di battute con gentleman che apprezzano indiscutibilmente le mie opere, belle ragazze e qualche sigaretta. Nulla di eccezionale, almeno per me, ormai ben inserito in questo ristretto, ma accogliente ambiente sociale.
Mi vesto con calma e alle otto e trenta in punto sono davanti all’ingresso della National Gallery sfoggiando il mio gessato Prada e una bellezza mozzafiato al mio fianco: una Porsche Carrera grigio metallizzato che mi porta ovunque. Mi lascio scattare qualche foto dai paparazzi prima di immergermi nell’enorme salone affollato. Subito permetto che un ragazzo prenda il mio cappotto e guidato dalle voci vado alla ricerca di ricci capelli castani, occhi verde acqua, bocca piccola e carnosa, curve sinuose: Emily, mia sorella. Ma una voce mi blocca, “che gran piacere rivederla!” dice un tale con uno spiccato accento francese che riconosco in Lord Hamilton.
Sorrido educatamente e faccio per sottrarmi alla sua presenza, ma… “Volevo parlarle della bellezza della sua opera intitolata la città ambrata”. “Mi dica pure”. Acconsento annoiato “Apprezzo il gioco di luci ed ombre, il modo particolare in cui vuole far emergere il suo contrasto tra bene e male”. Un’altra voce si sovrappone “per non parlare delle meravigliose luci delle case che risaltano in un ambiente cosi tetro quale la foresta che a parer mio è il posto migliore per mettere in risalto le angosce che tormentano il suo animo”. “Ma quali angosce signor Frank? Non bado mai alle emozioni quando dipingo, dipingo solo quel che vedo e che rimane nella mia mente. Da una vita!” dico indignato.
Mi allontano e trovo pace al bancone del bar dove tra le attente attenzioni di una moretta, non del tutto di natura innocente, mi lascio sopraffare dai sapori del cibo e dagli odori dell’alcol “… Vorrei invitare qui al centro della sala il nostro stimato amico Will Stinson”.
Non so a quale punto della serata sento pronunciare il mio nome, ma rimettendomi la camicia nei pantaloni e alzandomi a stento da una delle soffici poltroncine, mi dirigo verso la voce che mi ha chiamato e che riconosco in quella di Adam il proprietario della National Gallery. Orgoglioso di quella standing ovation ringrazio tutti e a fine serata torno nell’hotel dove alloggio, anche se sento di aver dimenticato qualcosa; Ah già, non ho salutato Emily. Alzo le spalle con noncuranza e già immagino il morbido cuscino che mi accoglierà per questa notte. “Scordati di andare a dormire”. La voce sexy ma arrabbiata di Emily mi perfora il cervello, che già colpito da un mix di alcolici, non riesce a reggere suoni troppo forti. La ritrovo seduta sul divano della mia suite con un accappatoio rosa di seta e un bicchiere di champagne tra le mani. “Sei stata qui tutto questo tempo? Non ti ho vista alla mostra” dico fingendomi indignato. Ma lei sa che non ho neanche provato a cercarla. “Sono passata a dare un’occhiata. Nulla di interessante” , afferma provocandomi
“Come scusa?” chiedo stavolta con una punta di vera indignazione”. “Soliti quadri privi di emozioni”. Afferma lei con scioltezza. “Devi smetterla di criticarmi, dovresti essere contenta invece che tutti mi amano, adorano le mi opere”.
“Se a te basta questo”. mi avvicino a lei “Mi fai schifo. E hai bevuto! Si sente a mille miglia! Smettila di organizzare feste dove puoi ridurti ad un uomo privo di principi. Smettila di dipingere quadri di cupi paesaggi, senza emozioni, quadri volgari dove ritrai le notti brave con le tue puttane!” Non riesco più a sopportare tutte queste parole sprezzanti. Le do uno schiaffo in pieno viso. Non dice nulla, mi guarda con odio, poi corre nella sua camera. Non do importanza a ciò, e per più di due mesi continuo a trascorrere serate organizzate nelle varie gallerie d’arte. A Parigi, Berlino, Firenze e Torino. Mi sento in pace con me stesso, e sopporto, pazientemente, le pesanti conversazioni con vari esperti d’arte che provano ammirazione per uno squarcio di città, un solitario bar, due ragazzi nudi, un mio notevolissimo ritratto, il migliore che abbia fatto, e quello che in assoluto preferisco, che si intitola “Attimi di Estasi” e ritrae una donna nuda, dipinta con acquerelli scuri, su uno sfondo nero. Gli unici colori risaltanti, il marrone chiaro dei suoi occhi, il rosso delle sue labbra, il rosa dei capezzoli e dell’inguine. Dopo ogni sera (della quale aspetto solamente di essere elogiato pubblicamente) torno in hotel, a volte solo, a volte accompagnato da stupende ragazze. Ho tutto ciò che mi basta: soldi sesso e fama… mondiale.
Capitolo 2
Dettagli insignificanti.
Corro veloce con la mia porsche, osservando un po’distrattamente il paesaggio. In un primo momento vedo campagne, piccole case isolate, lunghi vigneti. Non so di cosa sono alla ricerca, forse un nuovo spunto per un dipinto. Ho letto su una rivista che, a volte, fa bene cambiare stile di soggetti nei propri quadri, per non annoiare i propri ammiratori, anche se non desidero cambiarlo di molto. Vedo uno spiazzo, mi fermo.
Scendo e percorro un lungo tratto di strada, trovandomi in un bosco. Sono circondato da alti faggi e querce secolari, con chiome ricche di verdi foglioline che non permettono ad un singolo raggio di sole di filtrarvi oltre. Continuo a trovare il soggetto perfetto e improvvisamente mi ritrovo in una radura dominata da un lago dalle acque limpide. Tira un leggero venticello estivo, il cielo blu è costellato da nuvole lattiginose.
Dall’altra riva del lago, intravedo un gruppo di turisti intenti a scattare fotografie e a dar da mangiare ai pesciolini. Mi siedo sull’erba accanto a un tronco orizzontale usato evidentemente come panchina, prendo il mio quaderno d’appunti e mi guardo attorno. Disegno il paesaggio che mi circonda ma dopo un attimo getto il foglio per terra. Disegno allora un fiore, un papavero che spicca tra mille margherite, ma ancora getto il foglio. Provo a ritrarre un bambino, ma neanche definisco i contorni. Mi blocco chiedendomi cosa ci faccio in un posto che non significa nulla. Dovrei essere in un motel, in un osteria.
Come può un singolo fiore, o il sole, o una nuvola essere dipinta e piacere? Sono dettagli insignificanti. Non avrei dovuto farmi contagiare da una stupida rivista.
Mi alzo, fumo una sigaretta e ritorno al volante della mia compagna. E’ ormai il tramonto, decido di tornare carico nella mia suite a Roma e prendo dal cruscotto la mia scorta di whisky. Alzo al massimo il volume e in tutto l’abitacolo si diffondono le note degli Aereosmith che coprono sontuosamente, la povertà dei suoni della natura.
Capitolo 3
Anche i ricchi piangono.
Due luci mi accecano, un clacson risuona stordendomi. Il buio della notte ricopre tutto; l’ultima cosa che vedo è il pallore della luna. Apro gli occhi. Non vedo nulla. Sto dormendo?
Dove sono? “Will… Will mi senti?” una voce mi chiama.
Tendo le braccia verso non so cosa. “Will.”. sussurra ancora quella voce in lacrime. “Emily.”. Dico in un soffio. Sento che mi abbraccia. “Non vedo.. nulla… cosa diavolo..?” Ad un tratto ricordo, ero in viaggio con la mia porsche quando ad un tratto… No. Questo deve essere uno scherzo di cattivo gusto.
“Dimmi che non sono diventato cieco” chiedo impassibile.
La sento piangere. Ѐ un si. Ricado all’indietro sul cuscino.
Mi sento perso, completamente. “Emily.”. sussurro. Mi prende le mani, promette di non lasciarmi solo. Mi consola dicendo che andrà tutto bene. Le chiedo come sia potuto succedere e pazientemente, come se stesse parlando ad un bambino, ripete ciò che i dottori le hanno detto. Ho subito un trauma cranico che ha compromesso le mie percezioni visive.
Non sarò più in grado di vedere.
“Sono finito. La mia carriera è finita. La mia vita è finita. Datemi una sigaretta” dico velocemente quasi in preda al panico.
“Non si può fumare qui, Will” dice dolcemente Emily.
“Ci deve essere un modo, per ricominciare a vedere”.
“Nessuno Will”.
Inizio a dire una sequela di bestemmie e mia sorella cerca di placare la mia ira. “Fammi parlare con un dottore”, le dico ancora cercando disperatamente qualcosa a cui aggrapparmi.
Emily mi prende ancora la mano: “Non servirebbe Will. Secondo loro puoi tornare a casa appena ti sentirai un po’meglio”.
“Cosa vuol dire? Come posso sentirmi meglio se sono diventato cieco?”, grido: “Vattene via”, le dico. Ma dopo un istante sento qualcosa di liquido scendere dai miei occhi. Saranno forse…? No, non ho mai pianto in vita mia. Eppure qualcosa scivola lungo le guance, fino alle labbra. Sento una mano poggiarsi delicatamente sul mio viso bagnato. La stringo fortecome per paura che mi lasci solo.
“Emily… perdonami” dico con un soffio di voce.
“Tranquillo Will… sono abituata” dice, mentre la sua voce mi sembrava sorridere insieme al viso che non posso più vedere.
“Non lasciarmi, ti prego”, sento dirmi queste parole, ma non so chi stia parlando in realtà. Io non ho mai avuto bisogno di nessuno.
“Non lo farò Will… te lo prometto. Insieme, possiamo ricominciare”.
Capitolo 4
Non vedo più nulla.
Sento la sveglia suonare. Mi alzo, apro gli occhi e… non vedo nulla. Non sono ancora abituato a questo nuovo me, eppure, ormai, sono passati due mesi da quando ho cambiato completamente vita… e visuale. Non vedo più nulla, ma ho affinato gli altri sensi; riesco ad ascoltare meglio i mille rumori che mi circondano, a sentire la superfice liscia o ruvida degli oggetti sparsi per casa, dentro la quale ormai so muovermi alla perfezione. E’ una casa semplice, con poche stanze. Ci vivo con mia sorella che, nonostante l’abbia trattata malissimo durante tutti questi anni, adesso non mi lascia solo un minuto, al contrario di quelli che credevo fossero miei amici. Appena hanno saputo la terribile notizia hanno smesso anche di telefonarmi.
“Cosa ti aspettavi, Will? Non sono certo persone abituate a fare i baby sitter. Sono come eri tu fino a poco fa, pensano soltanto al divertimento e a morire nelle loro stupide convinzioni. Secondo te lo sanno loro cosa si prova ad essere ciechi? No che non lo sanno!”
“Sono solo, allora”.
“Lo eri anche prima ma non te ne sei mai accorto”.
Semplici parole che mi hanno ferito, perché sono la descrizione della vera realtà. Adesso che non vedo più nulla mi accorgo di moltissime cose che prima mi sfuggivano, sento che qualcosa dentro me sta cambiando. Sono confuso e a volte reagisco bestemmiando tutto e tutti, altri giorni rimango a letto e lascio che le lacrime scorrano. Adesso che non vedo più nulla, adoro fermarmi ad ascoltare ogni voce con le sue sfumature, ad assaporare le prelibatezze che Emily cucina, seguendo le ricette di nostra madre, a sentire ed apprezzare i profumi. Ma adoro soprattutto immaginare. Immaginare attraverso una voce sentita, i gesti compiuti, gli sguardi scambiati, le parole non dette. Immaginare la vita degli altri, le loro emozioni, i loro pensieri. E’ ormai il mio passatempo preferito. Di solito resto affacciato al balcone della mia camera,che dà su un parco giochi bellissimo. Emily dice che ci sono le altalene e gli scivoli, un bar ed un edicola. Dice che c’è un muro oltre il quale si vede tutta Roma, e che di notte è stupenda.
“Ci sono tante piccole lucciole che colorano il buio della notte”: l’ha descritta cosi. A volte Emily mi porta a fare un giro, ma ho una terribile paura. Non mi sento sicuro, per niente. Lei dice che è normale, come lo è sentirsi un po’ confusi. “Chi non sarebbe confuso, triste, e incazzato per la sorte che la vita gli ha riservato? Lo sarebbero tutti, se a 36 anni avessero perso la vista”. Emily è cosi, a volte pungente, a volte dolce e comprensiva. Una sera mi ha portato al mare.
Dopo i primi momenti di terrore, mi sono rilassato e mi sono lasciato guidare dalle sue mani. Ero a piedi scalzi, a contatto con i granelli di sabbia freddi e mi sono sentito stranamente felice. E cosi, mentre lei mi descriveva tutto ciò che c’era intorno a noi, io immaginavo.
“Ti voglio bene sorellina” le dissi poi, ad un certo punto.
Era la prima volta, in assoluto, che pronunciavo queste parole “Ti voglio bene, perché sei accanto a me, non mi hai lasciato solo. Perché mi stai facendo diventare un altro, migliore forse”.
Lei mi si avvicinò e mi stampò un bacio sulla guancia sussurrando che anche lei me ne voleva. Poi continuammo a camminare, a parlare delle nostre vite, a confessarci segreti sepolti dal tempo che scorre. E lo capii quella sera forse quale era davvero il valore della vita.
Capitolo 5
Per poter recuperare la mia libertà.
“Ho deciso di costringere me stesso a spezzare questo nodo dorato dell’ambizione, per poter recuperare la mia libertà”.
Disse tempo fa qualcuno.
Mi sveglio pensando all’assurdità di questa frase, eppure so che mi calza a pennello. Nella mia vita c’è stato un prima, fatto di vera e pura ambizione, tentazione ad arrivare ai vertici della società per farmi amare da tutti, voglia di possedere il mondo attraverso la materialità delle cose che in realtà non hanno alcun prezzo. E c’è stato un dopo. Un dopo che sto ancora vivendo, fatto di un nulla che potrebbe essere tutto, della mia immaginazione che mi conduce oltre la realtà, a vedere cose che non avevo mai visto. C’è un dopo che mi confonde, cambia la mia personalità, mi fa pensare che forse per guardare il mondo non servono gli occhi ma il cuore.
“Per poter recuperare la mia libertà…”, sussurro pensieroso, cercando il significato nascosto di questa parte della frase, ma per ora non ho nulla in mente.
Dopo la colazione rimango solo a casa. Emily va a lavorare tutte le mattine ed io passo il tempo a sentire ciò che succede fuori dalle quattro mura di casa. Vorrei uscire, andare nel parco di fronte ma ho paura che mi possa succedere qualcosa. Ma spinto dai raggi del sole che sento sulla pelle, dai rumori che movimentano la città, vado in camera, mi vesto e dopo un attimo sono alle prese con la mia prima uscita da solo. So che ci sono venti gradini che mi porteranno al portone principale.
Li scendo poggiandomi al corrimano. Superato il primo ostacolo, apro il portone e mi sento sommergere dal mondo intero: voci che si sovrappongono, un clacson di auto, una moto che sgomma, il profumo del pane appena sfornato, il fruscio del vento. So che devo attraversare la strada e mi troverò direttamente nel parco, una grande distesa di verde, dove giocano i bambini, dove gli anziani soli portano a passeggio i cagnolini, dove gli innamorati si scambiano promesse d’amore, dove turisti fotografano scorci di Roma, la Città Eterna. Cosa darei per vederla un’ultima volta. Sono completamente bloccato, nel panico. Non ho neanche con me il bastone che Emily mi ha premurosamente comprato, poiché troppo orgoglioso per portarlo. Sento l’ansia chiudermi lo stomaco.
“Signore, ha bisogno di una mano?”
Una voce di donna che evidentemente mi ha visto bloccato sul marciapiede come un idiota è venuta a soccorrermi.
“Io… io vorrei andare nel parco. Ma sono cieco” affermo incerto della risposta.
“Non si preoccupi, l’aiuto io” dice la donna che poco dopo mi prende per mano e mi porta dall’altra parte della strada. “Ecco, si sieda qui” mi aiuta a sedermi su una panchina.
“Grazie”, dico sconcertato.
“Le serve qualcosa signore?” chiede gentilmente con una voce calda.
“Sto bene cosi, grazie”, le rispondo, snervato dall’idea di non poterla vedere, di non poter osservare a chi appartiene quella voce cosi dolce, generosa. Mi saluta e va via. Rimango per un’eternità a pensare a quel gesto pieno d’affetto e commosso sento che sto per scoppiare in lacrime ma mi trattengo. Mi distraggo sentendo un bimbo che chiede insistentemente al padre di comprargli un gelato: “La prossima volta, adesso dobbiamo scappare a casa” fa lui, freddo. E so che lo sta trascinando. Poi sento un ragazzo chiamare gridando l’amico che gli dice di aspettare, sento un signore cercare il suo cane e improvvisamente desidero averne uno, cosi non mi sentirò tanto solo quando Emily non c’è.
Mentre immagino il mio cane ideale, grosso da poterlo abbracciare ma non aggressivo, sento qualcosa tra le gambe. Mi abbasso e tra le mani so di avere qualcosa di liscio e rotondo: un pallone.
“Signore, signore, mi può ridare il pallone?” Una voce lamentosa si avvicina.
E’ un bambino, lo so per certo. Tendole braccia in avanti dicendo di prenderla. Sento le mani del bambino a contatto con le mie; sono teneramente piccole. Appena prende la palla riabbasso le braccia, ma sento che il bimbo mi è rimasto davanti.
“Signore, ma lei non vede?” chiede con tutta l’innocenza dei suoi anni.
“No, non vedo” gli dico secco, ma poi pentendomi di essere stato troppo duro aggiungo più dolcemente “Ci sono dei vantaggi però sai?”.
“Quali signore?”
“Posso immaginare come gira il mondo”.
“Come fa ad immaginare le cose se non le ha mai viste signore?” chiede ancora e sento che si siede accanto a me.
Mi volto dalla sua parte “Non sono sempre stato cieco, lo sono diventato da poco”. “Ohh… e non è triste signore?”
“Oh, a volte” gli dico rendendomi conto che nessuno mi aveva fatto mai una domanda cosi a bruciapelo, neanche Emily.
“Come si chiama, signore?”
“Will, il mio nome è Will”, gli dico, ricordando quante volte l’ho sentito pronunciare durante le inaugurazioni delle mie mostre.
“Io sono Giosuè” dice sorridendo e mi prende la mano, come per presentarsi.
“Quanti anni hai piccolo?”
“Dieci, Will” poi, come se fossi il suo migliore amico, inizia a parlarmi di quanto sia bello giocare a pallone e senza che gli chieda niente mi descrive tutto quello che vede nel parco.
“Giosuè, dove sei?” qualcuno lo sta chiamando.
“E’ la mia mamma” dice.
“Va da lei, non farla preoccupare” gli dico premuroso. Ma la donna è già di fronte a noi.
“Giosuè, mi hai fatto preoccupare!” dice con un tono sollevato e sento che l’abbraccia. La voce è la stessa, la stessa della donna che mi ha aiutato ad attraversare la strada. “Scusi se mio figlio l’ha importunata”.
Le dico che per me è stato un piacere.
“Allora, ciao Will”, dice ancora Giosuè e prima di scomparire, mi lascia qualcosa che non mi sarei mai aspettato: un bacio, tenero e soffice che accarezza la mia guancia.
Qualche istante dopo Emily, tornata prima del previsto dal lavoro, è tra le mie braccia, preoccupatissima. Le chiedo scusa, la stringo forte per farle passare l’agitazione e le racconto dell’incontro con Giosuè. Poi le parlo di quella frase, mi chiede cosa intendo per “Poter recuperare la mia libertà”.
“Non so sorellina, credo che quel gesto d’affetto, quelle parole dette da un bambino e quel semplice bacio, mi abbiano lasciato si sorpreso, ma mi hanno fatto capire che forse il mio cuore era intrappolato tra le cose materiali della vita. Non riuscivo più a vedere nulla, neanche la bellezza di un fiore. Alcol e ambizione sono una base potente per la distruzione di un uomo, o per la sua decadenza verso i principi sbagliati. Prima di essere cieco, non vedevo. Adesso… ci vedo o, almeno, immagino”.
Capitolo 6
Nuovo è sempre meglio.
Ancora una volta gli Aereosmith mi danno il buongiorno e sulle note di “Sunshine” mi preparo per andare al parco seguendo il rituale di ogni mattina: colazione con caffè e cornetto alla nutella, che Emily mi lascia sul tavolo, doccia relax di almeno mezz’ora, vestiti casual, i rayban dai contorni azzurri e bastone bianco che mi fa da guida per scendere verso i gradini che mi porteranno nel mio piccolo mondo: il parco del Gianicolo, dove ogni giorno incontro Giosuè. A poco a poco sto conoscendo tutte le sue passioni, dal calcio al nuoto, al restare tutto il giorno spaparanzato a guardare i cartoni animati.
Ma ho conosciuto anche la sua allegria nel descrivermi ogni giorno come è vestito e chi passeggia nel parco, e la sua tristezza nel raccontarmi di come il suo papà l’ha lasciato tra le righe di una favola.
“Mi raccontava del guerriero più forte e potente del mondo, poi mi ha detto che dal mattino seguente sarei dovuto diventare l’ometto di casa… e quando mi sono svegliato la mamma mi ha detto che se ne era andato perché a lei non le voleva più bene”.
Io mi volsi a lui intenerito e gli chiesi se vedeva ancora il papà.
“Ogni tanto” disse prima di dimenticare questa parentesi.
Attraverso la strada e raggiungo la panchina, che mi hanno detto è di un verde chiaro, e resto in attesa di Giosuè. Soltanto dopo pochi istanti ecco la sua vocina tenera che mi dà il buongiorno, schioccandomi un bacio sulla guancia.
“Ciao Giosuè” lo saluto anche io.
Come al solito inizia a parlarmi di ciò che ha fatto la sera precedente. Poi all’improvviso cambia argomento: “Will ma tu che lavoro facevi prima di diventare
cieco?”
La domanda mi spiazza completamente. “Io… io.” balbetto, quasi non ricordo di essere stato uno dei pittori più famosi del mondo. “Ero un pittore”, affermo poco dopo
“Cosa dipingevi?”
“Oh, di tutto” gli dico, evitando di andare troppo nei particolari.
In un attimo la mia mente ritorna al tempo prima dell’incidente… quando ero un altro. “Will ti senti bene?”
“Sì perché?” chiedo intimorito che possa aver notato la mia agitazione.
Dice che sono pallido, si alza e dopo due minuti mi da qualcosa. “Bevi, è acqua”, mi dice.
“Scusa, forse non dovevo, sicuramente ti fa star male non poter più dipingere”.
“Ma no, stai tranquillo, finora non ci avevo neanche più pensato” gli dico.
Rimaniamo in silenzio per un’infinità.
“Eri un pittore famoso?”
“Si, molto. Facevo mostre nelle più belle città di Italia”.
“E adesso perché non ti cercano? E perché nessuno sa che sei famoso e non ti chiedono l’autografo?”
Giosuè inizia a sparare una serie di domande a raffica alle quali non so rispondere. Sono ormai più di due mesi che nessuno si fa vivo con me. Possibile che nessuno si sia chiesto che fine abbia fatto Will Stinson?
“Davvero non lo so…” gli dico. Questa conversazione mi sta stancando. Invento una scusa e torno a casa.
Quando Emily ritorna mi ritrova depresso e agitato. Da uno sguardo al posacenere e nel suo tono di voce sento che è contrariata.
“Will… problemi?”
“Ovvio che si! Non ci vedo”, le urlo.
“Sei stato tutto il giorno in casa?”
“No, sono stato al parco”.
“Hai incontrato Giosuè”, afferma.
Ormai sa che ogni volta che ritorno dagli incontri con il mio piccolo amico si smuove qualcosa dentro. A volte sono contento, altre rilassato perché attraverso semplici discorsi riesco sempre a capire qualcosa in più.
Le racconto della conversazione e posandomi un braccio attorno alle spalle tenta di consolarmi.
Poi di colpo si ritrae e dice “Will, devo dirti una cosa che avrei dovuto dirti mesi fa”. Il mio silenzio la invita a proseguire… “la notizia dell’incidente è uscita su tutti i giornali, l’ospedale e poi la suite dell’albergo furono assediati dai giornalisti che volevano parlarti. Ma grazie a delle guardie del corpo che chiamai sono riuscita ad allontanare tutti. Ho fatto in modo che non ascoltassi il telegiornale. Volevo che ti allontanassi da tutti coloro che non ho mai amato, da quel mondo che ti ha reso cieco. Volevo proteggerti…”
“Basta cosi! Vattene”. Le dico, ma sentendo che resta immobile esco dalla stanza e vado sul balcone a fumare.
“Will ti prego, ascolta. L’ho fatto per il tuo bene”.
“Mi hai rovinato la vita. Tu non puoi neanche immaginare come sono stato in quel periodo. Credevo che il mondo intero si fosse dimenticato di me”.
“Cosa importa ora?”
“Importa! Perché avrei potuto continuare a dipingere”.
“Ah, sì? E come, se non ci vedi?”. Mi urla queste parole che sono come una lama appuntita.
“Avrei potuto farmi aiutare”.
“Will. Adesso tutto ciò non importa più. Hai una nuova vita”.
“E se rivolessi quella di prima?”
“Will dovresti essere contento. Tu non sei più quello di una volta e anche se venissero a cercarti non ti riconoscerebbero perché adesso non ti interessano più alcol soldi sesso”.
“E tu cosa ne sai?” le rispondo, snervato dall’idea che mi conosce meglio di me. “Will lo vedo, lo sento. Ti sono accanto tutti giorni e finora l’unica cosa che mi hai chiesto non è – trovami una donna da pagare – ma – non è che mi accompagneresti a comprare il dvd dei power rangers per Giosuè?”
In effetti Emily ha ragione. Non dovrei avere alcun rimpianto e ormai nella mia vita esiste solamente lui; vivo dei nostri incontri ed ogni giorno aspetto che arrivino le dieci solo per poter ascoltare la sua voce. “Devo farmi perdonare” sussurro.
Così il giorno seguente aspetto che arrivi.
“Ciao Will. Ti disturbo, per caso?” mi chiede timoroso Giosuè.
“Affatto”, gli dico sorridendo.
Lo invito a sedersi e gli porgo il pacco regalo. Lo prende, lo apre e…
“Bellissimoo, dove l’hai trovato? Ѐ l’ultimo modello”.
Grida di gioia e dice che deve assolutamente mostrarlo agli amici. Io sorrido pensando a quanto ci voglia poco per fare contento un bambino. Poi sono io che inizio a raccontargli della mia giornata. Segue poi un attimo di silenzio prima di un “Facciamo un gioco?”, che mi sbalordisce.
“Ma io non posso fare nulla…” gli dico afflitto.
“Invece si! Non devi neanche alzarti… mi devi solo dire quale è la cosa più bella del mondo”.
Faccio una faccia contrariata che non posso vedere.
“Per te qual è?”
Gli chiedo sapendo che mi elencherà almeno mille cose.
“Come prima cosa la mia mamma, poi tu… perché mi sembra che sei un fratello maggiore per me. Ogni giorno aspetto solo di vederti. Mi piace parlare con te, i miei amici non mi ascoltano mai, vogliono solo giocare. Sei il primo a cui ho parlato del mio papà”.
Non riesco a dire nulla, sono commosso. Vorrei piangere dalla gioia che la voce di Giosuè mi dona ogni giorno.
“Anche per me sono due. La prima sei tu perché mi hai reso un uomo migliore, la seconda… bè… è dipingere. Mischiare i colori per ottenere nuove sfumature, usando un colore per ogni emozione”.
“Perché non provi a disegnare qualcosa? Ti aiuto io!” dice ancora Giosuè.
Nego fermamente, ma dopo un paio di giorni mi ritrovo con un blocchetto ed una matita in mano.
“Alloraaa… cosa vorresti disegnare?” dice Giosuè tutto contento.
“Ma la tua mamma non dice nulla che mi rompi sempre”.
Non finisco neanche la frase che Nora, la mamma di Giosuè viene a sedersi accanto a noi. Ormai anche lei fa parte dei nostri incontri. Ѐ una donna molto intelligente; spesso ci lascia soli ma so che rimane sempre nei paraggi per controllare la situazione. A volte approfitta che Giosuè è con me per fare la spesa dall’altro lato della strada.
“Si muore di caldo stamattina e Giosuè non ha fatto altro che riempirmi la testa con questa storia che dovete disegnare insieme! Non vedo l’ora che inizi la scuola”.
“Ma mamma, poi non potremo più venire nel parco!” si lamenta Giosuè ed io sorrido divertito.
Qualche instante dopo arriva anche Emily che inizia allegramente a chiacchierare con Nora. Giosuè è in attesa che io disegni qualcosa. Ma mi vergogno troppo, mi trema persino la mano.
“Vado a giocare a pallone, quando torno voglio trovare un disegno per me” dice Giosuè con un tono autoritario che la sua voce da bambino ridicolizza.
Ad un certo punto sento che la mano non trema più. E automaticamente, ricordando i tratti del viso di Emily disegno il suo sguardo, il suo naso e le sue labbra.
“Nora, da questo a Giosuè” strappo il foglio e mi alzo quasi scappando.
Arriva sera io ed Emily decidiamo di rimanere stesi sul letto.
“Non sei più arrabbiato con me Will?”
“Non ci riuscirei neanche volendo. Anzi dovrei ringraziarti. Hai ragione tu, quella vita non faceva più per me. E se neanche una delle tante persone che abitualmente venivano alle mie mostre si è fatta viva vuol dire che a loro interessava altro di me”. “A me interessa la tua felicità fratellino” rimaniamo un po’in silenzio.
“Anche a me interessa che tu sia felice sorellina”.
Ancora silenzio prima di un’altra domanda: “Allora.. rimpianti della tua vita passata?” chiede Emily.
“Solo uno. Rivoglio la mia vista per guardarti negli occhi”.
“Sei capace di farlo anche senza la vista. Oggi mi hai fatto un bellissimo ritratto”. “Non era nulla di particolare, non posso neanche definire i dettagli”.
“Mi piace proprio perché è semplice ed indefinito” ancora silenzio. Un silenzio di quelli calmi che ti lasciano a riflettere. E prima di addormentarmi penso solo a tre cose: la bellezza della personalità di Emily, l’allegria di Giosuè e ad una nuova regola da seguire, per imparare cose nuove e forse conoscermi di più: nuovo è sempre meglio.
Capitolo 7
Lacrime sospese al vento.
Sono le dieci in punto. Giosuè è davanti a me ed è completamente sbalordito. Lo percepisco dai suoi “Wow”. “E bellissimo!”. “Ma come fai?”. Sta guardando i miei disegni.
Stamattina presto sono venuto nel parco. Non c’era ancora gente e si sentiva la leggera brezza del vento. Il sole non era ancora sorto ma appena i suoi raggi sono sbucati li ho sentiti riscaldarmi la pelle. E cosi ispirato ho disegnato tutto ciò che qualche tempo fa mi sembrava insignificante: il sole con delle sfumature particolari di rosso arancio e giallo, un fiore in bianco e nero e un lampione che illumina una panchina sempre in bianco e nero.
“Hai qualche segreto per riuscire a dipingere senza vedere?”
“Mhm… in realtà no. Uso solamente i colori con le scritte per ciechi e tanta tanta immaginazione”.
“Sei bravissimo, dovrebbero vederli tutti i tuoi disegni. Anzi perché non mi fai vedere qualche dipinto di quelli che facevi?”
“No… io preferirei che tu non li vedessi. Sono vuoti”
“Che vuol dire?”
“Hai presente quando disegni? Devi metterci passione, altrimenti il disegno viene male. Diciamo che io disegnavo senza passione”.
“Ma se i tuoi disegni venivano male, come mai eri famoso?”
“Avevo talento… credo. Dipingevo con talento e i miei quadri riuscivano bene. Ma erano quadri cupi, volgari… perciò non voglio che tu li veda”.
“Perché dipingevi quadri cupi e volgari? E perché non hai mai dipinto il sole, le nuvole, il mare? Oppure quei quadri con mille colori?”
“Giuro che non lo so, Giosuè, e adesso me ne pento”.
“Ti posso aiutare io se vuoi! Mi piace disegnare. E so per certo che insieme saremo formidabili! Te lo immagini Will? Che divento anche io famoso, non vado più a scuola, mi compro tutto quello che voglio…”
Giosuè continua a fantasticare per tutto il resto della giornata e quando Nora si presenta per riportarlo a casa si aggrappa forte al mio braccio dicendo di non volersene andare via. Inizia a piangere e quando gli dico di smetterla perché sicuramente potremo vederci il giorno seguente lui afferma che il giorno dopo non tornerà.
“Perché?” gli chiedo iniziando ad avere uno strano presentimento.
“Devo partire”, dice, ma gli trema la voce e capisco che sta mentendo.
“Giosuè, vieni qui” dico tendendogli le mani.
Le afferra e me le stringe forte, poi mi libero dalla stretta e gli accarezzo il viso come a volergli asciugare le lacrime. Poi gli scompiglio i capelli che come mi ha detto sono ricci e castani.
“Piccolo, ci vediamo domani. Dobbiamo vederci per forza domani. Tra meno di una settimana fai undici anni, diventi grande. Pronto per frequentare le scuole medie! Dobbiamo organizzare la festa” gli dico per incoraggiarlo e dai respiri sembra che si sia calmato”.
Poi mi abbraccia forte ed io sento come una stretta al cuore, i miei occhi stanno per piangere dalla commozione, le mie labbra tremano quando gli schiocco un bacio sulla guancia. E’strano che pianga, chiedo spiegazioni ma Nora scuote le spalle. Riprovo a chiedere a Giosuè cos’ha ma dice che non è nulla.
Mentre siamo l’uno nelle braccia dell’altro ci sussurriamo nello stesso momento: “Ti voglio bene”.
E sorridiamo per la coincidenza.
Ѐ già sera ed Emily mi porta al mare. Andiamo in un posto tranquillo per goderci questa che è una delle ultime sere d’estate.
Tra poco Giosuè ricomincerà la scuola ed io dovrò far pur qualcosa per non essere troppo di peso ad Emily.
Emily mi descrive il paesaggio: il cielo, di un blu scuro è ricoperto di stelle luccicanti e la luna rossa dona il suo riflesso al mare calmo anch’esso dello stesso colore del cielo. Siamo in una zona che è adibita a spiaggia libera ma non c’è nessuno e c’è un silenzio irreale. La sabbia è chiarissima ed è fresca a quest’ora, perciò ne approfitto per togliere le scarpe e lasciare liberi i piedi. Ci sediamo quasi a riva ed Emily mi mette un braccio attorno alle spalle.
Le racconto della mia giornata, lei fa lo stesso ma sa che sono distratto.
“Pensi a Giosùè?” chiede retoricamente.
Annuisco e le dico che mi sembra tutto cosi strano.
“Ho un brutto presentimento Emily… come se dovesse succedergli qualcosa. Sento che qualcosa sta cambiando nell’aria”.
“Will, smettila con queste dannate paranoie. Va tutto bene e sicuramente ora dormirà e starà facendo tanti bei sogni”.
Mi tranquillizzo per un po’ma quella notte non riesco a dormire. Faccio strani incubi, di bambini che volano sulle altalene, del mare che diventa nero, sempre di più; figure indistinte che mi vorticano attorno e mi gridano perdente, di un cuore di ghiaccio che si spezza. Mi risveglio con il cuscino bagnato di lacrime. Lacrime sospese al vento che non so come siano scese a rigarmi il viso.
Capitolo 8
Solo silenzio dall’altro capo del filo.
Sono le undici e Giosuè non c’è. Forse oggi non viene veramente, chissà perché. Non ho neanche un suo recapito per poterlo rintracciare. Sembra che al parco manchi qualcosa perciò torno a casa a non fare niente. Si sarà ammalato? Naah, l’avrei saputo. Forse si è stancato di me e ieri mi ha voluto dare un addio? Naah, non avrebbe pianto e non mi avrebbe detto ti voglio bene. Avrà trovato un parco più bello dove giocare? Naah, neanche ci giocava a pallone. Lo portava per bellezza o lo prestava ai suoi amici mentre parlava con me. Allora cosa? mi chiedo… Cosa è successo?
Appena Emily ritorna dal lavoro le chiedo di trovare il numero di Nora sull’elenco e Emily pazientemente mi accontenta, ma non risponde nessuno. Più volte riprovo ma dall’altra parte del filo nessuna risposta.
Mi dice di stare calmo, forse sono partiti veramente.
“Tra neanche una settimana inizia la scuola”, dico, ma Emily non sa cosa rispondere. Dice solo di aspettare qualche giorno.
Continuo a tornare nel parco, ormai sono cinque giorni che non sento la presenza del mio piccolo amico. Inizia a mancarmi. Mi mancano tutte le sue fantasie e tutte le sue minuziose descrizioni della gente nel parco, che ancora una volta sembra vuoto senza lui.
Sono stanco di aspettare, di non avere sue notizie, perciò provo a richiamare più volte Nora.
Nessuna risposta, solo silenzio dall’altro capo del filo.
Capitolo 9
Domenica undici settembre.
E’ domenica 11 settembre. L’ultimo giorno prima che la scuola inizi. Ma anche il giorno del compleanno di Giosùe.
Vado al parco, spero, anzi sono convinto di trovarlo lì.
Ma arrivate le undici Giosuè non arriva. Rimango ancora in attesa, con un pacco regalo al mio fianco. Emily mi ha aiutato a scegliere un blocchetto per disegnare, perché so che Giosuè ha preso un po’da me questa passione. Magari insieme possiamo diventare famosi. Sorrido e continuò a fantasticare quando all’improvviso sento una presenza al mio fianco.
“Will… “, è Nora.
“Noraa! Sei tu vero? Dov’eri finita? Dove eravate finiti? Vai a chiamare Giosuè, devo dargli il regalo!” dico tutto eccitato.
“Senti Will… io… devo parlarti”, Nora mi dice queste parole con un fil di voce ed un mare di lacrime.
“Nora, cosa… cosa è successo? Stai piangendo?” non riesce neanche a rispondere ma la sento piangere.
Si siede al mio fianco e le prendo le mani per farle forza.
“Stava… stava… rincorrendo quello stupido pallone… un attimo mi sono distratta e lui non c’era più. Una macchina l’ha trascinato con se per un po’e quando sono corsa da lui… lui era circondato da una pozza di sangue… era tutto rosso, in viso, sulle braccia, sulle gambe…”
“Ti prego… dimmi che è solo un brutto sogno”.
“No Will… è la realtà”.
“Come è potuto succedere? Dimmelo Nora”.
“Oh Will.. non lo so…”
“Perché non mi hai detto nulla Nora? Dov’è adesso? Voglio vederlo… in qualche modo” dico sull’orlo di una crisi di nervi e pianto.
“Oggi pomeriggio ci saranno i funerali. Alle tre, nella chiesetta vicino casa… Il giorno del suo compleanno Will… ti rendi conto?”
Sono senza parole, sgomento per questa terribile notizia.
“Quando è successo?” chiedo ancora.
“Circa una settimana fa, la sera dell’ultima volta che vi siete visti. Lui lo sapeva, aveva questo presentimento, perciò piangeva Will… forse avrei dovuto dirtelo prima ma non volevo che anche tu soffrissi… i medici avevano detto che sarebbe guarito dal coma… io speravo si salvasse”.
Non riesco a credere neanche ad una parola, non riesco a sopportare l’idea che Giosuè mi sia stato portato via.
Abbraccio Nora tentando di consolarla, ma è difficile, troppo.
Le dico che ci sarò sicuramente ai funerali per non lasciarla sola. Mi ringrazia e dice di dover scappare via per organizzare le ultime cose.
Rimango solo, con questa terribile notizia che aleggia nell’aria. A poco a poco tutti vanno via dal parco e si sente solo silenzio. Neanche un’auto passa a rovinare questo momento che non mi sarei mai aspettato di vivere. Le lacrime scorrono lente sul mio viso, la rabbia e la tristezza mi avvolgono. Sento il mio cuore spezzarsi e vedo tutto buio. Sì, vedo tutto buio perché lui era la mia luce. Piango per un tempo infinito e quando Emily viene a sedersi al mio fianco l’abbraccio forte per un’eternità. Soltanto dopo riesco a trovare un pizzico di coraggio per dirle cosa è successo. Piange anche lei.
Sono le tre, in punto. La chiesa è affollata, lo sento dalla marea di presenze e di bisbigli. Sono sottobraccio ad Emily, insieme percorriamo la navata e raggiungo Nora. Ci abbracciamo forte e durante la lunga cerimonia spesso le metto un braccio attorno alle spalle, come se volessi proteggerla da tutto questo dolore. Odio i funerali, troppe lacrime, troppo dolore. Troppe persone a cui viene strappato via qualcosa di caro e prezioso. Nora è completamente a pezzi. Più volte la sorella la invita a sedersi, a bere un bicchiere d’acqua ma rifiuta categoricamente. Emily fa lo stesso con me, vedendo il mio viso pallido come un cencio e il resto del corpo scosso da brividi. Ma io sono completamente scioccato. Come se non bastasse il prete ricorda quanto era allegro e vivace Giosuè.
Emily in certi momenti con la voce ancora scossa mi descrive cosa succede. Dice che al momento delle condoglianze arriva anche il padre di Giosuè. Lui e Nora si stringono forte, lui le sussurra qualcosa, lei annuisce. Poi lui la bacia a lungo ed insieme escono dalla chiesa.
Ci dirigiamo tutti su una collinetta adibita a cimitero. E lì che lo seppelliranno. Emily mi descrive il posto e tra le lacrime mi dice: “C’è il mare Will, oggi è grigio perla come il cielo. Ci sono dei nuvoloni, forse dopo piove. E noi siamo su una collinetta dalla quale si vede il mare, e c’è un grande albero di pesco. Seppelliranno lì Giosuè. Sotto l’albero… in un mare di persone scomparse”.
Il prete fa un’ultima preghiera che tutti seguono a pronunciare, prima che la bara bianca venga calata giù. Finita la cerimonia rimango solo accanto a Giosuè. Mi siedo accanto alla lapide.
“Ehi campione!” dico mentre le lacrime mi invadono. “Sei cattivo sai? Mi hai lasciato solo proprio oggi… che avremmo dovuto organizzare la tua festa.. ricordi? Tema power rangers, milioni di palloncini colorati, lo spettacolo del teatrino… e per finire la nostra mostra di disegni che tutti avrebbero apprezzato”. Mi blocco sentendomi uno stupido a parlare al vuoto. Vorrei scappare via da lì, ma non trovo neanche la forza di alzarmi. In lontananza sento due voci, Emily e Nora. Evidentemente aspettano me, ma non trovo la forza di fare nulla. “Cosa farò adesso piccolo amico mio? Mi hai lasciato solo, senza la tua allegria… senza te il parco è vuoto lo sai? Non riesco a vedere niente, perché non ci sei tu che mi descrivi ogni cosa… mi manca persino la tua risata, le tue fantasie… Avrei voluto vederti per una volta, un solo attimo… conoscerti dettaglio… per dettaglio”. Continuo a parlare al vuoto e piango, e mi sento sempre più male… con il cuore che si spezza ad ogni ricordo di noi.
Emily viene a prendermi, cerco di ricompormi. Nora è accanto a lei. Ci salutiamo affettuosamente. Dice che parte, va a vivere in una cittadina tranquilla vicino Roma con il marito.
“Sì, abbiamo fatto pace, anzi ci siamo accorti che ci amiamo ancora. Ed io non posso farcela a vivere qui, da sola con la casa piena delle sue cose”.
Cerco di sorridere, di augurarle tutta la felicità che si merita anche se ha appena perso un figlio. Ma l’augurio mi esce distorto, come una frase sarcastica.
“Will… prometto che ci rivediamo” mi dice.
Mi lascia un bacio sulla guancia che ricorda quelli teneri e soffici di Giosuè.
E’ sera, finalmente. Io ed Emily siamo in camera e non diciamo nulla. Ascoltiamo gli Aereosmith. Abbiamo messo walk this way per non deprimerci completamente. Ogni tanto canticchiamo qualche parola.
“Cosa ci hanno scritto sulla tomba?”, chiedo all’improvviso.
“Sei diventato un angelo il giorno del tuo compleanno… resterai sempre nei nostri cuori, campione”, dice Emily con un fil di voce.
Capitolo 10
Ritratto.
“Emily… dove sono i colori?”, chiedo non appena mi sveglio.
“Sul tavolo, al solito posto”.
“No Emily, voglio gli acquerelli”.
“Nella stanza chiusa a chiave”.
“Cosa?”
“Sì, Will, nella stanza chiusa a chiave. Ti ho sempre detto che era uno sgabuzzino ma in realtà è una stanza fatta apposta per te. Speravo che un giorno ricominciassi a dipingere per questo ti ho preso delle cose apposta per te: uno sgabello, e una tela apposta per i ciechi con accanto un tavolino dove ci sono tutti i colori”.
“Emily ti ho mai detto che ti amo?”, dico sorridendo e mi lascio guidare nella stanza. “Se volessi ispirazione c’è la finestra dalla quale si vede uno scorcio di Roma e sul tavolo accanto alla sedia c’è uno stereo.. se hai bisogno di musica”, dice Emily ansiosa della risposta.
La ringrazio e penso che le voglio un mare di bene. Sa sempre indovinare i miei gusti.
Ma oggi non ho bisogno di immaginare il paesaggio o ascoltare la musica. So già cosa voglio disegnare. Lui.
La stanza è immersa nel silenzio. Da fuori arrivano rumori attutiti, o forse sono io che non li sento. Mi siedo sullo sgabello, tendo la mano verso il tavolino e prendo i pennelli. Li accarezzo: sono di setola, riconosco un pennello numero 1( che serve per definire i dettagli) e due pennelli più grossi per lo sfondo. Poi prendo la tavolozza con i colori. Non ho idea di come fare per riconoscerli. Ma poi mi accorgo di sentire mille
profumi diversi. Forse ogni colore ha una sua tinta particolare.
Poche ore dopo sento di aver finito la mia opera. Chiamo Emily incerto del risultato.
Rimane accanto a me senza dire una parola per un istante indefinito prima di dire quasi con una voce scioccata “E’ bellissimo”.
“Dici sul serio?”
“Sì Will… E’il dipinto più bello che abbia mai visto. Il volto del bambino… è… è identico”.
“Ѐ come lo immagino”.
“Ѐ lui Will. Come diavolo hai fatto?”
“Cioè, mi stai dicendo che l’ho disegnato esattamente com’è nella realtà?”
“Sì, Will”. dice ancora Emily scioccata. “E’ bellissima anche l’impostazione del disegno… in una specie di nube celestina… sembra un angelo”.
“Vorrei darlo a Nora”.
“Sei sicuro Will? Non vorresti tenerlo…”
“Non mi servirebbe, immagino com’è venuto e l’immagine di Giosuè mi resterà per sempre nel cuore”.
“Ti cerco il numero”.
Capitolo 11
Angeli caduti.
C’è ancora odore di pioggia nell’aria, sebbene abbia finito di piovere da una mezz’ora buona. Il bastone mi guida verso quello che solo qualche giorno fa era il mio angolo di paradiso attraverso le pozzanghere. Nell’altra mano ho con me la busta
con il quadro da dare a Nora. Rimango in piedi accanto alla panchina che era il luogo dei nostri incontri. La sfioro con una gamba e il solo contatto mi fa male. Il parco dev’essere semideserto perché sento poche voci e rumori.
“Ciao Will”.
Nora è di fronte a me, resto paralizzato non sapendo come comportarmi. Le porgo la busta come se volessi liberarmene più in fretta possibile.
“Oh.. Will ma è… bellissimo, ma soprattutto è identico… come hai fatto? Mio Dio…”, dice anche lei con una voce scioccata e scossa dalle lacrime.
“E’ tuo Nora… Dipingere mi è sembrato l’unico modo per onorare il suo ricordo”. “Sei sicuro di non volerlo tenere?”
“Si, lui è rimasto impresso nel mio cuore, nella mia anima. Non potrò mai dimenticarlo… in fondo è l’angelo che mi ha salvato”. La sento sorridere, asciugarsi le lacrime come per ricomporsi. Ci abbracciamo forte, le accarezzo i lunghi capelli morbidi e lisci, le tocco il viso come per volerne ricordare i tratti. Lei lascia che le mie mani la sfiorino.
Rimaniamo in un silenzio imbarazzante e commovente insieme, ma ancora una volta si intromettono gli Aerosmith nella mia vita. Poco lontano da noi si sentono le note di Fallen Angels:
“There’s a candle burning in the world tonight
For another child who vanished out of sight
And a heart is broken, another prayer in vain
There’s a million tears that fill a sea of pain
Sometimes I stare out my window
My thoughts all drift into space
Sometimes I wonder if there¹s a better place
Where do fallen angels go
I just don’t know
Where do fallen angels go
They keep falling”
“Gli Aerosmith”, sussurro.
“Sai cosa dice?”, Chiede Nora apparentemente distratta:
“Stanotte una candela brucia nel mondo, per un altro
bambino che è sparito dalla vista.
E un cuore è spezzato, un’altra preghiera invano, ci sono
un milione di lacrime che riempiono un mare di dolore. A
volte guardo fuori dalla finestra
Tutti i miei pensieri vagano nello spazio. A volte mi chiedo
se esiste un posto migliore
Dove vanno gli angeli caduti? Non lo so proprio
Dove vanno gli angeli caduti? Continuano a cadere”
“Sembra adatta alla situazione”, dice Nora, impassibile.
“Forse è meglio se andiamo via di qui”, le dico. Anche a me quelle parole feriscono inguaribilmente anche a me.
“Devo prima fare due cose qui con te. Primo… prendi questo, l’ho trovato in camera di Giosuè”, mi lascia nelle mani un foglietto dicendo che rappresenta me e Giosuè che camminiamo felici nel parco mano a mano ed io non sono cieco.
“Ha scritto Ti voglio bene. Evidentemente avrebbe voluto dartelo ma non ha fatto in tempo”.
Sono commosso, non riesco a trattenermi e mi lascio invadere dalle emozioni. Piango
come un bambino.
“Oh Will… mi dispiace. So quanto ci eri affezionato”, dice Nora per consolarmi. “Quale… qual era l’altra cosa che dovevi fare con me?”, chiedo.
“Descriverti il parco… come faceva Giosuè”, dice ridendo e piangendo insieme.
“Parti… che inizio ad immaginare”.
“Oggi forse è più bello del solito. C’e pochissima gente, sia perché è iniziata la scuola sia perché è una brutta giornata… Vicino l’edicola c’è un signore con uno strano cappello che discute con il giornalaio. Forse ha sbagliato a dargli il resto. Mentre vicino il muretto dal quale si vede Roma ci sono dei turisti e una vecchietta non sa scattare la fotografia, per questo il marito si innervosice”.
Nora si interrompe e ride divertita e lo faccio anche io.
“Invece sulle altalene c’è una bimba piccola piccola… avrà due anni massimo… e il suo papà la spinge in alto, fino al cielo…”, continua poi con voce malinconica.
“Di che colore è il cielo oggi?”, chiedo come farebbe un bambino.
“Come gli occhi di Giosuè”, sussurra, e la immagino con il viso rigato di lacrime, lo sguardo triste rivolto al cielo e un sorriso tra il mesto e l’allegro perché, forse, vuol farsi vedere forte dal suo bambino.
“Allora, è grigio perla” dico.
E so di aver azzeccato.