L’armadio_Paolo Calabrò, Napoli
_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.
a Mimma,
perchè ce la mette tutta,
ma proprio tutta
Avevo forse sette anni la prima volta che vidi l’armadio. Fu quando mia nonna raccolse la palla di pezza con cui giocavo nel corridoio dicendo: <<Hai giocato un poco? Adesso basta>> e la portò via, come se fossimo sempre stati diaccordo che le cose sarebbero andate così. Ricordo che la seguii fino alla soglia della sua camera – a noi bambini non era permesso andare oltre quella soglia, era una regola della casa, anche se lì l’unico bambino ero io – e da quel punto, prima che lei richiudesse la porta sui suoi misteri – perché mia nonna di cose misteriose ne faceva tante fra quelle pareti, o almeno così immaginavo notando che quella era l’unica porta della casa quasi sempre chiusa – vidi un mobile alto, stretto ma robusto, con una sola anta. Mi sembrava che non ci fosse mai stato prima.
Quella scena si ripeteva tutte le sere. Quando pensavo che fosse giunto l’orario (non sapevo stabilirlo con precisione) andavo da lei e le chiedevo il permesso di giocare con il mio pallone di pezza. E allora lei nelliarco di tempo che andava dalle sette e mezza alle otto (cioé dall’ora in cui finiva di recitare il rosario all’ora in cui sarebbe iniziato il telegiornale) sceglieva dieci minuti in cui mi concedeva di giocare.
Senza perdere un istante cominciavo a scalmanarmi, a correre per il corridoio avanti e indietro, dribblando ipotetici avversari e mettendo la palla in rete da ciascun lato del campo. Per tutto quel tempo mia nonna stava dietro la seconda linea di porta, con l’orologio alla mano. Non mostrava interesse o entusiasmo per come mi divertivo, né semplicemente mi guardava; stava lì, evidentemente, soltanto per ricordarmi che presto sarebbe finito tutto, che “ogni bel gioco dura poco”, come amava ripetermi ad ogni occasione, che i dieci minuti passavano in fretta e che non avrebbe concesso proroghe. Era, infatti, infallibile: scaduto il tempo mi chiedeva la palla, e io, docile, a malincuore, gliela davo. Sentivo di non avere i mezzi per combattere quell’ingiustizia così educata e formale. Come, d’altro canto, sentivo che l’usurpazione era talmente palese che non c’erano argomenti per contrastarla, se non tautologie o principi elementari di buon senso. Ma a quell’epoca io non conoscevo né l’una né l’altra parola. Ogni tanto le dicevo qualcosa del tipo <<però poco fa la palla la tenevo io>> nella maniera sconclusionata tipica dei bambini, che vorrebbero dire tante cose (<<la palla era mia, la gestivo io e non c’erano orari, tanto meno quelli che tu hai imposto senza una discussione, senza neanche un motivo, valido o meno, arrogandoti un diritto che non sta né in cielo né in terra, senza preoccuparti di quello che tuo nipote ne pensa e senza capire che lui non si comporterebbe mai così con te>>) e finiscono per non dirne nessuna, ma non perché speravo di ottenerne veramente qualcosa, forse più per una sorta di rivendicazione, come per darle ad intendere che io non avevo dimenticato che lei poteva fare tutto ciò solo perché era la nonna. Chissà quanto tempo andò avanti quella mia partita “a tappe”.
Ricordo però che un giorno tentai a mia volta un sequestro, ovvero mi rifiutai di restituire la palla allo scadere dei dieci minuti. Mi accovacciai, con le ginocchia a terra, e misi la palla tra le gambe. Poi la guardai, inizialmente senza dire niente. <<La tengo io>> dissi poi, in risposta alla consueta richiesta. Passò qualche istante di silenzio. Io cercavo di pensare ad altro, mi aspettavo un finimondo. Lei mi fissava con quello sguardo gelido e tagliente, senza muovere un solo muscolo, con la pazienza di un rettile, e sembrava dirmi “Ti prenderò. Sai che ti ho in pugno, che non potrai sfuggirmi. Prendi pure tempo. Non oserai dirmi una sola parola di più.” <<Ho sbagliato a fidarmi di te, allora>> mi disse, <<non avrei dovuto dartela>>. Non ebbi tempo, in quel momento, per riflettere sul fatto che non si trattava di fiducia, ma di un ricatto volto ad asservirmi alla sua volontà, un poi come quando un padre dice alla figlia che la desidera vergine fino al matrimonio, altrimenti perderà la fiducia in lei, senza capire che la sua richiesta potrebbe essere sbagliata a monte e che la figlia potrebbe andarsene con chi le pare, senza per questo essere indegna di quella fiducia; capii che avevo perso quando mi voltò le spalle e rientrò in camera sua. Ora avevo quello che desideravo ma non potevo servirmene. Mi addormentai quella sera sperando che lei arrivasse di notte a rubare il pallone, per tornare a nasconderselo e a razionarmelo. Sarebbe stata la sua ennesima prepotenza, ma non avrei insistito su quel punto. Piuttosto, l’equilibrio precedente sarebbe stato ristabilito, ed io sarei tornato in diritto di giocare con la palla nei dieci minuti. Ma questo non avvenne. Quando, una volta sveglio, vidi la palla immobile al suo posto, avrei voluto richiudere gli occhi e fingere con me stesso di stare ancora dormendo. Ma poco dopo mi convinsi che la cosa non poteva andare avanti, forse sarebbe stato meglio andare dalla nonna e consegnarle il mio giocattolo, chiedendole scusa per il mio sbaglio e promettendole che non sarebbe più accaduto. Ma avvertivo enormi resistenze. Un senso innato di giustizia mi impediva di prestarmi a quella grossolana presa di posizione da parte di un potere che si era auto-proclamato. Non seppi decidermi ad attuare una soluzione. Tuttavia, nei giorni che seguirono dovette esserci una spiegazione tra me e lei, perché ricordo che per qualche tempo fui io a conservare il pallone e a trarlo fuori nei dieci minuti in cui la nonna me ne dava il permesso. Ma durò poco. Non resistetti a quell’umiliazione, a quella violenza camuffata da compromesso, e una sera le diedi il pallone per sempre. Non glielo chiesi più. Ma la seguii fino alla porta della sua camera, per dare l’addio al mio amico. Quella volta, mi sembrò che l’armadio fosse diventato un poi più grande.
Con mia nonna non cierano discussioni. Lei parlava e dava la sua insindacabile opinione, e quando non eri d’accordo era solo perché non riuscivi a capire niente, o perché eri un arrogante e volevi avere sempre ragione. Parlava fino a che non si scocciava, dopodiché ti zittiva dicendo che non ci poteva essere dialogo fra lei e un ragazzino. Quando si vedeva in difficoltà, magari in un discorso con un adulto, citava sempre come sua ultima parola un proverbio famoso, come se quella fosse la verità innegabile ed assoluta, al di là della quale non c’era più niente di cui discutere. I proverbi e tutta la saggezza popolare erano il suo Credo. Credeva in Dio ma era superstiziosa, non nel modo convenzionale, ma in un certo suo modo per cui preferiva rimanere a casa se aveva fatto un brutto sogno, oppure credeva che i sentimenti di un uomo risiedessero nel cuore, tanto che una volta disse che era sfavorevole al trapianto cardiaco, perché dovendo poi parlare con la tale persona avrebbe avuto la sensazione di avere a che fare con un babbuino.
Non avrebbe permesso che i suoi figli si sposassero di Martedì o di Venerdì, ma se le avessi chiesto perché, ti avrebbe cacciato via in malo modo, maledicendo il tuo voler sempre e per forza voler discutere su tutto. Ma, dal canto suo, non aveva una fede particolare in questa o quell’asserzione. Avrebbe usato indifferentemente un proverbio o il suo opposto (tipo “chi non risica non rosica” e “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”) pur di riuscire a spuntarla – sempre a modo suo, cioé senza lasciare possibilità di replica – in una discussione, e di conservarsi nell’idea che lei aveva ragione, che come si vedeva gli anziani la sanno molto più lunga dei giovani. Ma non perdeva occasione per mostrare quanto le sue abitudini e le convinzioni di cui andava tanto fiera fossero antiquate ed irrazionali. Un giorno che mia madre mi aveva proibito di partecipare a una festa perché ero stato maleducato con lei, visto che desideravo tanto andarci, mi disse: <<Bacia i piedi a tua madre e lei ti darà il permesso di uscire>> lasciandomi intendere così che la punizione non dipendeva dal fatto che avessi commesso qualcosa di sbagliato e che pertanto andassi corretto, ma che mia madre aveva dunque preso come un affronto personale il mio errore, e che bisognava accattivarsela con quell’atto di sottomissione. Se mia madre non avesse smentito energicamente quella possibilità di redenzione mi sarei formato credendo che l’educazione E un arbitrio da parte dei genitori.
Ma per lei tutto era un arbitrio. Entrava nella mia stanza e mi chiedeva – più precisamente m’ingiungeva, visto che se non ero d’accordo si scatenava un inferno, e cominciava a dire che ero uno scostumato, che ai suoi tempi non si sarebbe vista una cosa del genere, che solo mia madre poteva darmi l’agio di comportarmi così, e andava via sbattendo la porta, urlando a mezza voce, e se tendevo l’orecchio dopo un quarto d’ora la sentivo ancora parlare da sola del fatto che prima o poi si sarebbe vendicata, che in qualche modo mi avrebbe fatto capire quanto sbagliavo – di spegnere il televisore perché le dava fastidio, come se fosse un buon motivo, anzi, il motivo migliore del mondo, dicendomi: <<Non ti sembra di aver visto già abbastanza televisione?>>, senza badare al fatto che magari avevo appena acceso. E si poteva star certi che dopo cinque minuti esatti sarebbe tornata esigendo che si spegnesse il televisore, come se qualcuno glielo avesse promesso. Ed io, tornando a quella misera fetta di cartoni animati, sentivo nascere dentro di me un rancore, una voglia astratta di fargliela pagare, di mostrarle in maniera inconfutabile e sacrosanta che avevo ragione io. Chissà come, da un momento all’altro, mi tornò in mente l’immagine dell’armadio. Avevo la sensazione che s’ingigantisse nella mia testa, come se fosse una cosa che aveva il potere di espandersi e rimpicciolirsi. Mi sembrava che, rispetto a quella sera in cui l’avevo visto per la prima volta, fosse molto più grande. Ora aveva ben quattro ante, e dei piedi più solidi, ma era anche più imponente, più massiccio, come se la sua sostanza avesse acquisito spessore ed un immobile vigore, ed anche più sontuoso, come se avesse preso coscienza della sua acquisita grandezza. Avevo davanti agli occhi la camera di mia nonna, la più grande della casa, ma ora ridotta di molto, visto lo spazio che occupava l’armadio. In un attimo pensai che allora era quello il mio modo di rifarmi, di entrare con prepotenza nella sua vita e piantarmi proprio lì dove non mi era permesso – la sua camera – e così farle sentire che io non dimenticavo niente, che piano piano il mio armadio l’avrebbe costretta ad uscire fuori dalla sua stessa stanza. Proprio allora lei entrò e, senza che dicesse niente, scattai dal divano ed andai a spegnere il televisore. Poi, come se le mie parole fossero la continuazione di quel gesto, le dissi: <<Portami nella tua stanza a vedere l’armadio>>. Mi sembrò che fosse stata colpita dalle mie parole, per un istante ebbi la sensazione che mi temesse, che avesse paura di me. Mi rispose semplicemente: <<Nella mia stanza non c’è nessun armadio>>. E stava per richiudere la porta quando insistetti: <<Ma sì, il tuo armadio, l’altra volta c’era, fammelo vedere, solo un momento…>>. Mi ripeté che non c’erano armadi nella sua stanza ed andò via senza aggiungere nulla. Ma quella volta capii di aver colpito nel segno.
L’armadio era la mia vera arma, la mia difesa contro di lei. Per una volta, presi coraggio e mi avviai verso la sua stanza, deciso a tutti i costi a violare l’ordine di non entrarvi mai. E quando aprii la porta vidi di fronte a me, su tutta la lunghezza della parete, un armadio enorme, bello come quello che avevo immaginato, e per un attimo, non so da cosa, mi sentii rassicurato. Andai verso quelle ante lucide di legno scuro che mi attiravano, girai la chiave e ne aprii una: dentro c’era uno specchio più grande di me nel quale mi vidi tutto, dalla testa ai piedi. Ma quando mi guardai in faccia feci quasi un salto all’indietro. Chiusi in un attimo lianta che avevo aperto e me ne allontanai a passi rigidi e silenziosi, come in un filmino al rallentatore. Così, all’improvviso, mentre chiudevo la porta di quella camera che avrei preferito non avere mai aperto, compresi che quella smorfia orribile sul mio volto l’aveva causata una cosa che covavo dentro da chissà quanto tempo. E compresi anche che l’armadio era grande quanto il mio odio. Più crescevo e piùmi rendevo conto che prima o poi uno di noi due – io o la nonna – avrebbe dovuto andarsene da quella casa. E allora calcolavo quanto mi restava per diventare maggiorenne ed andare via, ed era sempre troppo. D’altro canto pensavo a quanto tempo poteva restare a lei da vivere. Una volta lessi su un giornale che le donne vivono mediamente cinque anni più degli uomini. E pensando automaticamente, come per un riflesso condizionato, che mio nonno ci aveva lasciati più di dieci anni prima, conclusi che presto le cose sarebbero cambiate.
Quel pensiero si avverò poco dopo. Mia nonna stava già a letto da qualche tempo, con una di quelle malattie che non si sa curare e che si cerca di protrarre indefinitamente, ed aveva bisogno che le si spruzzasse in gola, al minimo sintomo di soffocamento, un medicinale che avrebbe estinto la crisi. Era mia madre, in genere, ad occuparsi di questo, così come di tutto il resto; ma quella volta il compito era stato affidato a me, lei era occupata in chissà cosa. Io stavo in piedi sulla soglia, perché da un lato non volevo sedere sul letto matrimoniale di mia nonna, da dove, guardandola, mi sarebbe venuta voglia di dirle mille cose che non avrebbe potuto ascoltare, dall’altro non vedevo l’ora che mia madre tornasse a prendere il mio posto. Era un poi che non pensavo più all’armadio. All’improvviso mia nonna emise un rantolo. Era il segnale. Sarei dovuto correre verso di lei, afferrare lo spray dal comodino e inalarglielo… ma proprio allora, mentre mi slanciavo all’interno della stanza, l’armadio comparve. Era enorme, gigantesco, occupava tutto lo spazio. Non potevo più muovermi. Nel balzo che avevo fatto ero rimasto incastrato nello strettissimo corridoio che c’era fra l’armadio e la parete. Non potevo andare avanti né indietro, e per l’agitazione e la fretta di portare a mia nonna la medicina, cominciai a respirare a fatica, visto che non riuscivo neanche a gonfiare i polmoni fino a esserne soddisfatto, e tutto attorno a me assunse improvvisamente unaria tetra, rarefatta, come un incubo in bianco e nero, dove sentivo l’odore acre della polvere annidata nel legno penetrarmi in fondo all’anima ed il mio respiro pesante, sovrapposto e confuso ai suoi rantoli, rimbombare fra le pareti che mi pressavano, fino a farmi perdere la ragione.
Non so come mi trovò mia madre quando rientrò a fare ciò che io un attimo prima non avevo potuto, so solo che quando riaprii gli occhi lei era là, con la bomboletta in mano, spruzzando fra le lacrime qualcosa che a mia nonna, forse, non sarebbe mai servito.
E’ passato molto tempo. Ora, in quella casa che fu di mia nonna, poi di mia madre, ci vivo io. Da quando fu chiusa – mia madre non volle più che si aprisse forse per un senso di rispetto, o più verosimilmente perché le suscitava troppi brutti ricordi – quella porta nessuno l’ha più aperta. Mia moglie non trasgredì mai questa disposizione, anche se una volta venne a dirmi: <<C’è qualcosa dietro la porta, qualcosa di enorme, perché si riesce a spingerla solo fino a un certo punto>>.
<<E’ chiusa a chiave>> risposi, cercando di non dar peso alla cosa.
<<No, no… per sbaglio mi sono appoggiata alla maniglia perché stavo cadendo e la porta si è spinta in avanti, ma poi c’è stato un urto, un rumore secco, e la porta si è bloccata…>>.
Non risposi a mia moglie. Da quel giorno ho chiuso la porta a chiave, quella chiave ora non esiste più, l’ho fatta fondere. Non so quanto riuscirò ad andare avanti così. C’è qualcosa che mi pesa sul cuore in maniera orribile. Ma forse, più che l’esigenza di sfogarmi con qualcuno, ho bisogno che nessuno mi spinga a dovermene ricordare. Un giorno, in punto di morte, dirò a mia moglie di prendere questi fogli dal cassetto e leggerli. Ma fino ad allora spero che nessuno venga a chiedermi se so qualcosa… dell’armadio.