“L’aspetto del mondo all’interno della roccia”: intervalli di esistenza in una dimensione parallela della letteratura sanscrita.
di Laura Durando
Nella dodicesima lettura della sezione sulla gnosi del Tripurarahasya (‘‘Il Segreto della Dea Tripura’’), testo la cui data incerta di composizione si colloca in un lasso di tempo che va dal X al XVII secolo, viene esposta dal maestro Dattatreya una storia che si intitola: ‘‘L’aspetto del mondo all’interno della roccia’’. L’episodio nasce dall’esigenza di spiegare qual è la causa dell’errore che induce l’uomo a credere nella realtà del mondo. Il magnanimo Dattatreya illustra quanto siano equivoci tutti quei vincoli della percezione che spingono gli esseri umani, indifferentemente dal grado di intelligenza, a identificare il corpo e la materia con il vero. Il mondo appare reale solo in forza di questa credenza e per liberare la coscienza da tale inganno è necessario dissolvere le rappresentazioni mentali che ostinatamente si insinuano nel conosciuto, dando l’impressione di essere effettive.
L’episodio narrato è ambientato in una città santa del Bengala che porta il nome di Sundara ‘‘bella’’. Sushena, il sovrano che la reggeva era amato dal popolo in quanto giusto e saggio. Un giorno egli decise di compiere il sacrificio del cavallo per celebrare Shiva, e i suoi valorosi figli si misero alla testa di una potente armata per scortare il cavallo sacrificale. Essi raggiunsero il fiume Airavati (odierno Irrawaddy) che sfocia in Birmania (Myanmar), sconfiggendo con la forza chi osava ostacolare il vagare del cavallo. Mentre percorrevano quelle lunghe distanze, scorsero l’asceta di stirpe regale di nome Tangana, notissimo per le austerità compiute, ma accecati dall’orgoglio del proprio valore non si fermarono per rendergli i dovuti omaggi. Il figlio dell’asceta, adirato alla vista di un simile oltraggio, si impadronì del cavallo e iniziò a inveire contro i principi. Questi lo accerchiarono, ma inspiegabilmente egli penetrò in una roccia che si trovava di fronte a loro, portando con sé l’animale. I principi esterrefatti, iniziarono a picchiare sul masso con ogni sorta di armi, fino a che il figlio di Tangana non ne uscì fuori con una poderosa armata che sgominò rapidamente i rivali. I principi vennero fatti prigionieri e condotti nella roccia, mentre i sopravvissuti tornarono alla capitale di Sushena per raccontare del ratto del cavallo e della misteriosa sparizione dei principi.
Il re, senza indugiare, cominciò a pensare a una soluzione efficace: inviò quindi alla residenza dell’asceta il proprio fratello cadetto, Mahasena, con la precisa istruzione di propiziarsi l’asceta affinché gli venissero restituiti al più presto i parenti e il cavallo. Mahasena partì e raggiunta quella lontana regione, si prostrò davanti a Tangana e prese a cantare per lui inni di lode per tre giorni consecutivi. Compiaciuto dell’omaggio reso, il figlio del sant’uomo si presentò al cospetto di Mahasena, e gli disse che era pronto a esaudire qualsiasi suo desiderio visto che per Tangana era impossibile conferire con lui e risvegliarsi da quello stato contemplativo che durava ormai da cinque anni e sarebbe proseguito per altri sette. Mahasena gli disse però che desiderava proprio conferire con suo padre e non potendo venir meno alla promessa pronunciata, egli lo esaudì ritraendo in sé le facoltà sensoriali, e con la forza della propria disciplina, abbandonò il proprio corpo per penetrare in quello del padre. Tangana riscosso, grazie ai poteri sovrannaturali conferiti dall’austerità della meditazione, comprese ogni cosa e rimproverò il figlio per aver impedito il sacrificio, essendosi impadronito collericamente del cavallo. Gli ordinò di liberare dalla roccia, con buon animo e immediatamente, i suoi ostaggi.
Umilmente Mahasena chiese spiegazioni su ciò che era accaduto, voleva sapere come potevano essere sopravvissuti i suoi cari all’interno del masso. Così Tangana raccontò la propria storia: monarca universale di un intero continente circondato dall’oceano, disgustato dai rapporti mondani, abdicò in favore dei figli e con la grazia del dio Shiva, partì per la selva. Un giorno mentre praticava l’ascesi, la sua compagna ardente di desiderio volle unirsi a lui, ma di fronte all’inflessibilità della sua concentrazione, ella immaginò di avere realmente un rapporto carnale col marito. L’intensità delle sue brame era tale che il giorno stesso concepì un embrione e diede alla luce il figlio lì presente. La sposa di Tangana allora, aveva svegliato l’asceta, e poggiatogli in grembo il frutto di quella rappresentazione mentale, era svanita, raggiungendo lo spazio supremo del Sé. Egli mosso da compassione crebbe amorevolmente il bambino, fino a quando, saputo che il padre era stato sovrano non volle anch’egli diventare re. Istruito sull’ascesi, ottenne i massimi poteri sovrannaturali e fu in grado, valendosi della forza del pensiero, di costruire magicamente un universo all’interno di quella roccia, dove ora regnava su di un continente circondato dall’oceano.
Ascoltata con meraviglia ogni sua parola, Mahasena volle vedere di persona il mondo dentro la roccia; il maestro acconsentì e dopo aver chiesto al figlio di provvedere egli stesso al viaggio in quella terra altra, sprofondò nuovamente nello stato contemplativo. L’ostacolo del superamento della materia solida di cui era composta la roccia fu superato grazie all’intervento del figlio dell’asceta che entrò nel corpo fisico di Mahasena per estrarne il corpo mentale. Infatti, chi era digiuno di pratiche ascetiche non era in grado di abbandonare la propria fisicità e muoversi con il corpo sottile: requisito necessario per affrontare il trapasso nello spazio liminale.
Quando ebbero contemplato l’immensità di quella visione, il figlio dell’asceta disse a Mahasena che avevano trascorso nel mondo della roccia un giorno intero che nel tempo degli uomini corrispondeva a milleduecento milioni di anni. La lettura termina con il ritorno dei due protagonisti attraverso lo spazio.
Questo episodio è oggetto di una consistente sezione dello Yogavasishtha (6,2,56-94), testo composto tra il VII e il XII secolo d.C.; i parallelismi sono tali da far pensare che quest’opera abbia ispirato la composizione del Tripurarahasya. Nello Yogavasishtha a raccontare l’esperienza sovrannaturale è Vasishtha che un tempo ritiratosi in un eremo per meditare, poté contemplare una serie di universi. Questi avevano una struttura nidificata; risiedevano l’uno dentro l’altro. Ridestatosi dalla meditazione Vasishtha incontrò una ninfa celeste che abitava in una roccia. Ella descriverà nel dettaglio il proprio mondo e lo inviterà a visitarlo in sua compagnia. Penetrati nella roccia l’asceta scorse l’universo al suo interno. Quel giorno stesso, tale universo era destinato a estinguersi, poiché era giunto il momento della sua ciclica dissoluzione. Vasishtha, prima di tornare al proprio mondo, fece in tempo ad assistere al riassorbimento cosmico dell’universo all’intero della roccia. Egli comprese che tutti i mondi sono frutto dell’immaginazione di soggetti diversi: com’era avvenuto nel caso della ninfa che aveva creato mentalmente tutto l’universo visto dall’asceta. Ma non solo, Vasishtha apprese che vi sono mondi mentali che cessano di esistere quando non li si immagina più, e altri che invece, persistono indipendentemente.
All’inizio abbiamo dunque un Vasishtha che immagina di trovarsi in un rifugio mentre immagina l’universo. Egli si risveglia dalla seconda trance, ma si trova ancora nel rifugio, nella prima trance, e in questa egli incontra una ninfa che aveva immaginato di vedere nel corso della seconda trance. La ninfa d’altronde è una creatura della liminalità: vive al confine tra ciò che è mondano e ciò che non lo è affatto, così come i sogni hanno luogo al confine tra conscio e inconscio. Ma sulla realtà ontologica dei mondi creati non sembra esserci nessun dubbio, tant’è vero che indipendentemente dalla volontà di colui o coloro che lo hanno immaginato, il mondo creato può continuare ad esistere.