L’assedio degli impuri_Maurizio Canosa, Matera
_Menzione Giuria ottava edizione Premio Energheia 2002.
… da una lettera di Vitangelo Lavista al Cavaliere di Torre
San Severo, estate 1908.
Cavaliere illustrissimo,
appena venuti fuori da un periodo funestissimo di colera, la comunità dei profughi di S…, paese collinare a statuto autonomo di cui mi pregio impersonare gli onori e gli obblighi, sta organizzando di nuovo le forze temprando le energie dei rimasti. Conoscete bene la nostra storia. Cacciati di malanimo dai Puritani del Municipio, più numerosi e forti (e soprattutto puliti nella razza), tre anni riuscimmo a sopravvivere, acquartierati nei dintorni del suolo patrio. Ma non volemmo desistere. Ed anzi le fila si ingrossarono vieppiù con l’arrivo di nuovi scampati da altre regioni: piccoli briganti, disertori, eremiti stanchi di solitudine. Edificammo un nuovo paese, in una terra di sterpaglie e di pietre, dura a dissodare, rifiutandoci di rintanarci nell’indecorosa lontananza delle colline circostanti. Cosicché, da esuli che eravamo, ci vedemmo trasformati col tempo in assedianti, disposti fino alla morte a combattere per riconquistare le nostre case, i negozi e le piazze e a far capitolare nella tragedia i dieci tiranni del paese, da due mesi rifugiati coi militari nei saloni bui del palazzo del governo.
Ognuno rintracciando residui di forze nei luoghi più nascosti del proprio cuore, – dal momento che sappiamo di trovarci alla vigilia di avvenimenti decisivi – oggi si vive in questo modo, nella piccola comunità dei profughi di S… e si continua a sperare (e a giusta ragione, perché le ultime sortite armate hanno denunciato la palese debolezza degli assediati, ormai quasi sul punto di soccombere).
Eppure abbiamo più che mai bisogno di Voi, Cavaliere eccellentissimo, poiché le armi che utilizziamo sono inadeguate, le munizioni e i danari scarseggiano alquanto e non ci è dato sapere se, per sostenersi nella resistenza, il nemico disperato abbia stretto contatti con amici potenti.
Il Vostro sostegno potrà essere di aiuto grandissimo alla causa se, come pattuimmo, ogni cosa verrà a postarsi nei modi e nei tempi che sappiamo.
Servo vostro umilissimo.
I
Alle dieci esatte del mattino Rapisarda il Siciliano non voleva che i sogni della notte gli restassero nel cuscino. Fin dagli esordi dell’alba usava brandire una bottiglia di Aglianico stagionato e con quella trainava le fughe del sentimento.
– Così dovrà venire la fine del mondo – disse a un tratto da sotto un pergolato di rame – così dovrà venire… con una raffica di vento in piena estate che oscurerà il cielo di nuvole grosse e durerà mesi. Sarà l’annuncio della catastrofe finale e noi nemmeno ce ne accorgeremo.
Il sole creava varchi improvvisi tra le nuvole. Come dettate da un comando perentorio, matasse di rovi e di polvere giallastra si misero a inseguire le sagome dei piccoli calciatori sul terreno di gioco.
– … Così dovrà venire – e addentò il corpo del melograno che, affranto da una specie di dolore fisico, lasciò cadere alcune gocce del proprio sangue sulla terra bionda del deserto.
Don Vitangelo, da vicino, con un gesto plateale lo zittì.
Osservava attento i movimenti delle gambe nude dei ragazzini, esili come canne di bambù, i piedi agili dentro scarpe scalcagnate, le casacche di feltro addensate di sudore, le facce accese dalla virilità dello scontro materiale.
A volte dal catino circostante qualcuno gettava un urlo di incitamento. Da vecchio capopopolo don Vitangelo approvava e rideva. Veniva chiamato Duce da tutti, oppure Pelorosso, perché facile all’ira. Si diceva avesse scavato nel petto di un gendarme arrivando a graffiargli il cuore a mani nude. Non gli era garbato il fatto che il castigamatti in divisa lo avesse fermato per un controllo alle porte del paese, avesse frugato senza ritegno nei pantaloni e fosse scoppiato a ridere scoprendo le sue tasche devastate da una congregazione di buchi.
Ma il divertimento durò pochissimo. Don Vitangelo non era persona da ingoiare da chicchessia umiliazioni così alla leggera. Schiumante di rabbia squarciò il petto dell’uomo.
Poi, con le mani tutte insozzate di sangue, il malcapitato a digrignare al cielo la sua fissità da morto, se n’era andato fischiettando come niente fosse successo.
Leggenda? Certo Don Vitangelo, uomo senza terra d’origine, a cui piaceva alimentare la sua terribile aura di leggenda, non poteva dirsi un tenero di cuore, però si innamorava sinceramente alla vista di quella contentezza rumorosa scaturita dalle gole della sua gente, e non di rado lo si vedeva piangere dalla commozione.
Suo luogotenente era Amaro, che lo venerava più di un padre. Anche Amaro, giovane guerriero con la faccia destra deturpata, che di mestiere andava tagliando gli alberi del querceto ai limiti del deserto, non si sapeva bene perché s’era sfigurato a quella maniera e avevano cominciato a chiamarlo così. Una vecchia pettegola prese a vociferare che parecchi anni prima gli era esplosa, addosso, la macchinetta del caffè.
Molti però lo ricordavano rovinato già da piccolo, tanto che il sospetto più forte era che quella faccia da sciagura fosse in realtà il risultato di una gigantesca voglia di merluzzo che la madre non si trovò a soddisfare una notte, sola e priva di vettovaglie, col marito andato a giacersi ignaro nel letto di una malafemmina del posto. A proposito del nome, più nobilmente, altri dicevano che a causa della sua pretesa attitudine alla lettura dei vari Foscolo, Manzoni e Giambattista Vico, mai verificata nella realtà dei fatti eppure millantata da lui come cosa sacrosanta, Amaro si sentiva nell’animo il più filosofo di tutti e aveva deciso di mettersi a declamare le sue massime in ogni dove con un pessimismo da profeta. La madre poi raccontava un giorno sì e uno no, senza tener conto dei diritti dell’amor proprio di lui e dell’attendibilità delle sue parole alle orecchie della gente, che nel cuore del figlio capitò un periodo piuttosto lungo di sovrana e confusa disperazione, che iniziava la mattina di ogni santa giornata e trovava puntualmente il suo epilogo sul far del tramonto. Succedeva questo.
Presa coscienza al canto del gallo dell’inutilità della vita e della insistente mediocrità del mondo, per rendersi il dovuto onore e suscitare una generale ammirazione, Amaro si vestiva con l’abito delle occasioni migliori, salutava i parenti con baci pietosi, si stendeva supino sul letto e si metteva con le braccia in croce ben deciso ad aspettare anche per diversi giorni l’arrivo di una buona morte per fame. La casa però era piccola. Una sola stanza serviva da cucina, cesso e camera da letto. Così ogni sera, ai primi odori dello stufato che la madre apparecchiava astutamente e con ammirevole costanza, con grande pena il ragazzo sentiva salirgli dalla pancia fino in gola e poi al cervello un languore irresistibile. Guardando il resto della famiglia riunita il più delle volte a fare gozzoviglie, la forza morale gli veniva meno. Allora si alzava dal letto, si toglieva il vestito buono, si metteva in pigiama e raggiungeva genitori e fratelli già preparati per la cena, piacevolmente rassegnato alla sconfitta.
– Stai lacrimando di nuovo Duce? – chiese teneramente, poggiando una mano leggera sulla spalla del capopopolo.
Don Vitangelo stette un secondo a riflettere. Due braccia brevi e goffe come pinne di pinguino calarono all’improvviso nelle tasche dei pantaloni. Se ne uscirono con un fazzoletto grigio cenere e un coltello a serramanico. L’uomo ripose l’arma nelle braghe e col fazzoletto asciugò il sudore sparso sulle guance e il doppiomento. Poi gridò:
– Mettila al centro, Cristo! Non lo vedi che è libero?
A breve distanza Carluccio Spada chiamato il Pazzo gli fece eco a tono. Si vedeva dall’esistenza spensierata che menava e dal bersaglio delle sue maledizioni che Carluccio odiava da piangere quelli che si lasciano vivere come muli stracchi, curvando la schiena al peso schiacciante dei giorni a venire.
Si accompagnava spesso a Giacobbe, cane da guardia vecchissimo da un’eternità, mai creduto da nessuno perché così sventurato che il suo latrato pareva quello di un uomo che si mette a imitare un cane. A Carluccio lo chiamavano Pazzo perché sgraziato nel corpo, coi denti marci a causa del fumo e storto di faccia. Teneva la gamba destra mozzata giusto a filo di ginocchio. Pareva si fosse combinato così per l’esplosione di un colpo di archibugio sparato a mezzo metro dalla sua promessa sposa otto anni prima: motivi di gelosia. Chi lo vide gemere a terra quell’infausto giorno, virgulto spezzato tra lo stupore della piazza, ricorda la sua gamba maciullata andare su e giù nell’aria, frastagliata e rossa all’estremità come un tronco d’albero temprato sulla fiamma e colorato di brace.
Lui però sapeva benissimo che se non si fosse ritrovata tra capo e collo quella disgrazia e fosse nato con una carnagione bella e lineamenti delicati, rubicondo e scanzonato com’era, sarebbe parso alle donne quasi l’immagine della divinità.
Quando si sentiva felice bastava poco: un gesto o una parola fuori posto, addirittura un saluto malcompreso – comunque cose innocenti – e veniva travolto dall’affetto per l’umanità e per i propri amici. E non si attardava a vedere il grado o l’autorità.
Lanciava improperii e bestemmie, abbrutito di risate piene d’amore. Era una cosa che gli capitava soprattutto di notte, alla luce crepitante dei falò, oppure quando, in mezzo alla canicola estiva, poteva sbronzarsi di sudore assaporando l’essenza zuccherina dei meloni bianchi.
Il suono continuo delle chitarre e qualche scoppio allegro di arma da fuoco, accompagnava la festa dei piccoli giocatori che si scalmanavano felici sul campetto di pallone. Rapisarda, che aveva masticato l’ultimo boccone di melograno, ingoiò ancora un sorso di vino e proruppe in una specie di muggito privo di senso. Nell’arco di una settimana Rapisarda il Siciliano si ubriacava tre o quattro volte su sette, nei giorni dispari, quelli dedicati alla penitenza del corpo e alla sobrietà di spirito. Lo aveva deciso per dispetto ai santi del calendario, da quando due anni prima una sortita notturna dei Puristi provocò il disastro della sua vita: l’incendio della gigantesca voliera in fili di vimini costruita con l’aiuto di suo padre; un’opera d’arte che stava a dimostrare la superiorità dell’ingegno umano su tutti gli esseri viventi. Dei centotrenta piccioni messi a dimora in quel mirabile edificio, solo ventiquattro riuscirono a scampare alla tragedia, storditi di terrore e mezzo bruciacchiati. Rapisarda pensò poi di onorare la memoria dei caduti il giorno di pasqua, immolando a fuoco lento i superstiti in una commovente veglia di purificazione e mangiandoseli tutti lui personalmente a distanza di un’ora, l’uno dall’altro. Fu solo il principio della crisi. Dopo il brevissimo periodo della maledizione impotente, tradotta nelle invettive e nelle parolacce esclamate a casaccio per i quartieri dell’accampamento, venne quello della rivolta consapevole.
Ma superati due anni di sbronze consumate con impeccabile premeditazione fin sui sagrati delle chiese, la sua era ormai diventata più un’abitudine senza causa che un progetto di insurrezione intelligente alla tradizione degli avi e ai comandamenti di Dio.
Dal fondo di un capanno sua madre donna Marietta con una voce intollerabile lo stava ad insultare. Diceva che per causa sua lei rischiava di fare tardi alla funzione, che doveva muoversi a ritirarsi in buon ordine per apparecchiargli il focolare.
Donna Marietta aveva il ventre sfiorito e il tono belante delle antiche donne spirituali, liberate dal male; l’inflessione curva e titubante della voce pareggiava quella del fisico. La conoscevano dappertutto. Se ne andava in giro per la comunità giudicando le parole e le azioni di tutti alla luce del vangelo. Il marito la picchiava di continuo. Era un vecchio mastro distrutto dalla fatica, che tutti i giorni a nome del collettivo percorreva con un traino cigolante il tratturo che portava ai paesi di confine, per tornarsene la sera carico di cibi scadenti e di armi regalate o acquistate a poco prezzo.
Lei subiva le scorrerie del consorte con una gioia sinistra, spacciando per fedeltà alla croce la sua debolezza di donna sottomessa. A tratti Rapisarda la odiava sinceramente. Le rimproverava il fatto di pensare solo a cucinare fave e cicorie, di essere femmina svuotata e stitica, di mortificare tutti per benedire le disgrazie.
– Bevo alla salute della commare nera, della grande mietitrice che ti verrà a pigliare di notte!! -, inneggiò da figlio snaturato.
Un robusto rumore, come di un botto in una caverna, gli uscì dalla strozza. Subito dopo un tuono tra gli squarci del cielo rivelò che la tempesta doveva essere vicina. Gli altri, i piccoli calciatori e i radunati intorno al campetto, si fermarono delusi all’ascolto.
II
Poco lontano si celebravano, come ogni giorno, due messe del mattino. Di fronte alla Chiesa Madre, colma di femmine timorate e fedeli, sorgeva una minuscola cappella dedicata al nome di Maria Maddalena, frequentata da tre peccatrici di origine pugliese, ‘Cesca Frantoni, col petto adorno di fiori di pezza, Concetta Forte detta Faina e donna Pietra Lasala, la più anziana e bella del terzetto, da tutti voluta e sposata da nessuno. Erano ragazze invecchiate, già imbrunite ai primi di maggio, soffocate di sole e ancora intrise di vita come le giumente scavezzate; ragazze di quelle che – dicevano le vestali – avevano l’anima tra le gambe e dalla mattina alla sera dovevano implorare clemenza al divino che non le fulminasse per strada.
Il crocchio delle fedeli, veniva capitanato da Carmela Favoino, donna grassa e materna col temperamento da uomo. Si rabbuiava, taceva spesso, ma il giorno che si decideva a parlare era la grazia in persona che la toccava. Allora, vento o pioggia, pareva essersi levata dal letto con la sapienza addosso.
Ed era un balsamo benefico per chiunque la parola accorta che dispensava.
Le altre, le peccatrici, che rubassero mariti e figli alle oneste del popolo, si sapeva bene. Passando dalle porte delle loro case, eternamente assorte in colori stravaganti e odori equivoci di genzianella, parecchi uomini si fermavano in sosta a saziare per un’ora o due lo stupore dei sensi. Uscivano in piazza con le mogli, alla luce del mattino dopo, che tra loro stessi credevano quasi di non conoscersi, salvo poi raccontarsi tutto ai tavoli dell’osteria allargando i dettagli per fare meraviglia.
Si raccontava in paese che uno degli ultimi giorni, per festeggiare la morte del colera, Carluccio Spada e Rapisarda volevano dare la stura alle passioni. A notte fonda andarono per riunirsi al cascinale di Pietra Lasala, dove si sarebbero avvicendati sull’unico letto disponibile oppure ammucchiati in orgia (ai fumi dell’alcol avrebbero lasciato la sentenza). Soddisfatti che furono dei servizi offerti, fecero per tornarsene alle case proprie ma, chissà come a quell’ora di notte, trovarono lo sguardo esperto e paziente di donna Carmela Favoino a inchiodarli sulla porta. Il timore fu che avesse incamerato negli occhi quei fotogrammi indecorosi e aspettasse l’alba di qualche mattino per disperderli a voce nella piazza. Sgusciarono penosamente come gatti biascicando una specie di saluto e per un po’ di giorni nessuno li vide camminare per strada. Ma donna Carmela era femmina superiore.
Non si preoccupò affatto di ciò che aveva visto e continuò a farsi le faccende sue senza compromettere oltre modo i delicati equilibri di quella comunità in convalescenza.
D’altra parte le mogli da tempo facevano le finte tonte.
All’insaputa dei mariti sapevano e tolleravano, e insomma, nella Casa del Signore – una casa piccola certo, ma accogliente e approntata appositamente – furono loro a decidere che quelle donne perdute potevano entrarci e pregare. Aveva quasi preso la dignità di una funzione sociale la loro opera di meretrici, laddove le vecchie spose ai consorti non distribuivano più né gioia né gioco e i giovani rampolli dovevano essere svezzati per farsi uomini. Maternamente, le si guardava in faccia come disgraziate. Dunque, potevano aver diritto ai loro santi. E un diacono che dicesse messa in quella chiesa singolare si riuscì pure a trovarlo: un giovane assassino venuto giù dai monti della Sila, sfuggito per miracolo alla legge e da poco consacrato. A questa risoluzione le peccatrici si mostrarono contente e le vestali furono ancora più contente. Così all’ingresso dei santuari ci si salutava in armonia e ci si risalutava, edificate, al termine delle cerimonie.
III
Quel giorno dalla rotabile venne un uomo a dorso di mulo.
Il primo a riceverlo fu Giovanni Trentamaiali, che teneva la fattoria giusto sul percorso. Per coloro che provavano a rifugiarsi nei dintorni quella era la prima abitazione che s’incontrava venendo da fuori. In questi casi Trentamaiali faceva un po’ da prima guardia, un po’ da ospite, valutava a occhio l’attendibilità della gente che capitava e, se ispirato da buona impressione, l’accoglieva a casa sua con la rustica generosità di cui era capace, offrendo pane, olive e vino rosso di botte.
Vide il forestiero che si avvicinava a passo lento verso di lui mentre con la vanga in mano lavorava la terra. L’uomo sonnecchiava sopra l’animale e si faceva cullare dal suo movimento indolente. Ma voleva incutere rispetto. Stringeva uno schioppo in mano poggiando il calcio dell’arma sul ginocchio.
Calzava un cappello a falde larghe che gli procurava ombra dappertutto, un panciotto bisunto di pelle di vacca sulle spalle nude, degli scarponi incrostati di terra e di calce e un pantalone di fustagno pieno di toppe. Dalla cintola uscivano due pistole enormi. Sulla schiena del mulo due bisacce e delle bandoliere arrotolate cariche di munizioni. Trentamaiali battezzò lo straniero degno di fiducia e gli mandò un cenno di saluto crollando la testa. L’altro gli si fermò di fronte.
– Sono Pizzamagra – annunciò disinvolto.
Giovanni Trentamaiali rimase proprio come se avesse ricevuto un colpo d’ascia sulla testa. Il brigante Pizzamagra in faccia non lo aveva mai visto nessuno e con gli anni, a forza di ammazzamenti sommari e atrocità di varia specie, si era andato trasformando da essere umano in leggenda. Si credeva fosse alto due metri due metri e venti e che avesse fatto la pelle a più di cento persone, di cui una trentina a tradimento, girati di spalle o immersi nel sonno o perché si credevano intimi amici suoi. Come una bestia assetata di sangue girava sempre solo, depredava, uccideva e si eclissava per mesi a cercar scampo tra le montagne, cibandosi di bacche e radici.
Ma la cosa buona era che non accoppava mai contadini e poveri cristi, ma soltanto ricchi possidenti, militari, puritani, uomini del nord. La crudeltà illimitata del suo animo trovava ragioni nell’infanzia difficile. Lo strano soprannome se l’era imposto da sé perché odiava le donne e non voleva fare l’amore con nessuna. Giovanissimo, al servizio di un prepotente latifondista, la scoperta che sua madre compiacente invece che con suo padre se la faceva col figlio del padrone, gli fece saltare i nervi. Li sorprese entrambi che combinavano porcherie sul letto a baldacchino del proprietario e, malgrado le urla di pietà dei due disgraziati, fece presto a freddarli a filo di coltello, con la distaccata efferatezza che conservò in seguito come tratto distintivo del suo stile. Si diede subito alla macchia, ma in fondo al cuore regnò per sempre il terrore per le astuzie del genere femminile e per quella ambigua peculiarità della natura che chiamiamo, amore.
La pervicace assenza dalla comunità degli uomini, se non per l’attuazione di gesti clamorosi e sanguinari, aveva contributo potentemente ad alimentare il suo mito. Ecco perché Trentamaiali, davanti all’epico personaggio, assunse di primo acchito un’espressione rimbambita. Ciò nonostante cercò di organizzarsi alla svelta.
– Se sei Pizzamagra me lo devi far vedere – disse guardandolo fisso, scovando un’audacia insospettata nelle vene.
– Ho delle carte importanti da mostrare ai capi. Ti devi fidare.
– No che non mi fido, se mi dici così – e impugnò con maggior vigore la vanga in atto di sfida.
L’uomo sul mulo un’uscita del genere non se l’aspettava.
E infatti indurì la grinta.
– Ti manca proprio la coscienza, posso farti fuori quando voglio e non te ne rendi conto. Ma, visto che sei un povero diavolo ti faccio la grazia. Ammira…
E così dicendo sollevò il lato sinistro del panciotto, lasciando spazio alla visione dell’ineffabile. Un profondo segno rossastro a forma di P campeggiava sul petto. Senza dubbio era sangue rappreso di ferita. Il brigante stette a spiegare che all’inizio della sua latitanza, dopo aver scannato una guardia nei pressi di un trivio, s’era procurato quello squarcio per dimostrare a se stesso la forza eterna del suo proponimento di vendetta nei confronti della legge. Ma Trentamaiali non pareva soddisfatto, e nemmeno si avvicinò all’uomo per toccare e comprovare.
– Te lo sei pittato mezz’ora fa, te lo sei fatto prima di arrivare qui. E’ possibile. In tutto questo tempo come facevi a salvarti senza nascondere a tutti quello che vai dicendo di essere? Non ci credo che te ne vai in giro tranquillo con quella firma marchiata che è una condanna a morte.
L’altro stava per perdere la pazienza. Passò lo schioppo da una mano all’altra e si lisciò la faccia ruvida, meditando sul da farsi.
– Va bene – disse infine – ciò che stai per vedere ti farà andare di traverso tutto il sangue che tieni in corpo. Non ti ammazzo come un maiale perché mi voglio godere il tuo muso da cafone mettersi a fare le smorfie e chiedere pietà. Poi forse ti lascio vivere, questo lo devo ancora decidere. Scese dal mulo calmissimo, afferrò le bisacce e le poggiò per terra. Aprì una sacca e vi ficcò dentro il braccio fino al gomito, temporeggiando. Una testa mozzata presa per i capelli fa sempre un certo effetto, così il bandito non tardò ad assicurarsi la sincera espressione di sgomento del contadino quando lo vide farsi bianco in faccia come un canovaccio.
Ma di nuovo si credette in dovere di argomentare.
– Con quello che tengo in mano, e che i tuoi occhi da miscredente vedono benissimo, rischio di buttarti addosso la malasorte sulla casa, non lo sai? Testa di morto messa in mostra mena sciagure, lo dice la tradizione.
La testa aveva i denti ridotti a pezzi, la lingua penzoloni e gli occhi a palla. Il sedicente Pizzamagra, cinico come non mai, si mise a farla dondolare come un pendolo. Poi seguitò:
– E’ la capa del figlio del vicepodestà. Se non sei ignorante e cafone fino alla punta dei capelli la devi riconoscere: è nemica tua e del tuo popolo. Lavoro di una settimana fa, non di più. Facilissimo. Mi introdussi di notte nel palazzo del governo e raggiunsi la sua stanza dove dormiva tutto solo, gli spaccai la faccia e gli feci la pelle. Nessuno si accorse di me, che in queste cose sono sempre silenzioso e invisibile come una lince. Ora me la porto appresso perché è il più bel trofeo che mi sono fatto dall’inizio. Però adesso comincia a puzzare forte e sto pensando di regalarla a qualcuno.
Un tuono roboante scosse il cielo e tutto ciò che stava sotto.
Si apprestava a piovere, ma Trentamaiali non volle retrocedere.
Deglutì per l’emozione e prese tempo per evitare di far uscire mezza voce dalla bocca. S’incoraggiò.
– Puoi farmi mangiare la terra fino a soffocarmi, puoi trapassare gli occhi miei che vedono lo scempio che hai combinato, puoi fare quello che ti senti che vuoi fare, ma questo mi dice solo che sei un assassino che viene a terrorizzare la povera gente, mica che sei il grande Pizzamagra. E allora ti apro da me stesso la camicia che porto addosso. Ecco. Sparami pure qui, dove trovi i peli del petto.
Si inarcò e si mandò avanti col corpo, come un condannato orgoglioso della propria esecuzione. Non chiuse gli occhi ma li tenne sul brigante a reggerne lo sguardo, inflessibile, per completare di eroismo il valore del suo gesto.
– Sei pazzo, non ne ho mai incontrati di pazzi come te – disse l’altro desolato – Non ho capito se ti preme almeno un poco l’esistenza e il conforto della famiglia. Vai cercando una morte prematura che io non voglio darti perché non te la meriti.
Sono ricercato a tappeto per quello che ho fatto, ma con me ho documenti importantissimi e segreti sottratti ai Puritani.
Vuol dire che qualcun altro pagherà bene l’aiuto che gli dò.
Rimise la testa nella bisaccia. Le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere, grosse, distanziate e lente. Minacciava un nubifragio. Trentamaiali osservava il forestiero mentre caricava di nuovo la sua roba sulla bestia.
– Cosa ci tieni dentro l’altro sacco? – fece curioso e temerario.
– Il fesso che sei! Fammi muovere che finisco fradicio.
– Io sento un odore.
– E’ lo schifo che manda la testa di carogna.
– No, è diverso, lo conosco e mi arriva dritto al naso.
– Allora è la pioggia.
– No, è diverso.
– Va bene, va bene, ho capito!
Stranamente armato di santa sopportazione, il bandito slegò i lacci della seconda bisaccia, borbottando su chi glie lo faceva fare a non commettere quel giorno un delitto di più, tanto per levarsi di torno quell’impiastro, testardo peggio del suo mulo. Un attimo dopo Trentamaiali già lo aveva scansato di mezzo per mettersi ad annusare il misterioso contenuto.
Quasi non riusciva a trattenerlo tra le mani, tanto pesava: una gigantesca forma di pecorino venne, innalzata al cielo, come un’eucarestia! Trentamaiali fu preso da una tenera commozione.
– Puro formaggio di pecora… pecorino purissimo – farfugliava – non ne vediamo da quattro anni da queste parti… Solo porci e galline, porci e galline, che il padreterno li maledica in eterno.
E neanche si trattasse di un figlio, strinse forte al cuore il pezzo di formaggio. L’altro impiegò un po’ di tempo per riaversi dalla stupefazione. Ma capì il momento e non disturbò lo stato di solennità. Il formaggio di pecora in quei territori era diventata cosa rara. Da quando il governo dei Puritani aveva imposto il proprio monopolio sugli sconfinati allevamenti di ovini – primaria risorsa della regione – e comandato l’embargo nei confronti degli impuri, l’alimento veniva venduto a prezzi esorbitanti e solo da qualche infido figuro dedito all’arte del contrabbando.
– Com’è che l’hai avuto? L’hai rapinato a qualche banda?
– Mio nonno è fattore e vive oltre i confini. In un anno riesce a farne più di trecento pezzi. E’ diventato ricchissimo.
Trentamaiali si mise a fare cenni di approvazione, tutto fiero e soddisfatto di sé, come se la sapesse lunga sull’andamento dei fatti del mondo e avesse scoperto un segreto da troppo tempo nascosto. Per lui nient’altro c’era da conoscere.
– Piove assai, – ripiegò – sbrighiamoci a entrare che si rovina tutto. Mangerai la cialledda fredda che mia moglie ti preparerà. E’ una buona donna e la mia casa ti ospiterà bene.
Le lacrime di contentezza del contadino si confondevano con l’acqua che dio mandava. Il formaggio ormai era diventato roba sua. Lo avvolse con amorevole cura e si sistemò le bisacce sulle spalle.
– Andiamo.
– Stavolta davvero che ti ammazzo – disse Pizzamagra ridendo.
Un paio di pedate al mulo e il trio si mosse. Una pioggia fitta sommergeva la vallata.
IV
C’era don Antonio Gadda che era stato da giovane un fornaio.
Il tempo e la miseria lo avevano trasformato in un novantenne invecchiato male. Ogni anno, quando infuriava l’estate meridiana, con la terra avvolta in un alito di fuoco come una graticola, l’arteriosclerosi lo assaliva. Lo si sentiva chiamare la mamma morta a tutte le ore, si bagnava nei panni, sputava in faccia alla moglie e dormiva di sbieco sul letto a due piazze, occupandolo tutto. La malattia non lo lasciava più fino al termine della stagione, quando la prima brezza di settembre un poco lo migliorava.
Il Gruppo d’Azione, don Vitangelo in testa con i gregari e il seguito delle mogli, usava incontrarsi in quella casa perché don Antonio era il più vecchio della comunità e bisognava portargli rispetto. Anche all’anziana moglie si voleva dare un qualche conforto, specie da che aveva cominciato a vedere camminare ragni giganteschi sui muri di casa.
Nella casa di don Antonio si entrava solo dopo mezzogiorno.
Si salutava deferenti e si cominciava presto a lavorare.
Mentre le donne assistevano il malato con i rosari in grembo o cucinavano taralli e focacce bianche, gli uomini, nella stanza vicina, attorno a un tavolo di caraffe di vino preparavano la guerriglia.
Un giorno don Vitangelo esordì col discorso che era ormai arrivato il momento propizio. Con l’aiuto delle preziosissime informazioni procurate da Pizzamagra, grazie a cui non erano più un segreto i nascondigli pieni di armi e i cunicoli scavati nel Palazzo del Governo dove i Puristi avrebbero potuto rifugiarsi in caso di fuga, l’ottimismo salì a dismisura.
Pure sconosciuto a tutti, il brigante era stato accolto dal Gruppo d’Azione come un parente amato che torna dalla guerra. Carluccio Spada aveva sfiorato la perdita di coscienza quando materializzò le imprese da favola sentite raccontare dappertutto sulla faccia del bandito. Al momento delle presentazioni provò a destinargli un bacio appassionato sulla bocca contando sull’elemento sorpresa, ma il tentativo fallì per l’intervento di Trentamaiali, più geloso di una consorte tradita, che gli si parò davanti brandendo un forcone. Rapisarda pretese la testa staccata del figlio del vicepodestà come pegno d’affetto e promise platealmente di inchiodarsela sul muro dove stava il suo letto a baldacchino, proprio sotto il quadro della vergine. In generale la gioia per l’arrivo dell’inatteso ospite si trasmise come una scarica elettrica che moltiplicò le forze.
Ma le buone notizie per don Vitangelo e i suoi accoliti non erano finite.
– Ieri proprio mi hanno portato un’ambasciata – esclamò il capopopolo lisciandosi la barba – una lettera del Cavaliere di Torre San Severo, nobile magnate. Dice che conferma le nostre richieste punto per punto. Anzi, se anticipiamo le cose di due giorni dice che è disposto pure ad aggiungere una somma importante ai danari e le masserizie che ci ha promesso.
Rapisarda, che al solito mesceva vino nel boccale e già a quell’ora era il più sfrontato di tutti, voleva sapere l’ammontare della somma pattuita. Don Vitangelo si trattenne dal ridere.
Subito atteggiò una faccia contegnosa per non abbassare la guardia a lungo.
– Non ti devi fare problemi. – disse brusco – Lo sai sì che se vuoi amare molto non devi mai conoscere abbastanza.
Rapisarda già allungava il muso per fare questione. Si mise in testa di rispondere secco e lo fece.
– Dici cose strane Duce, scusa, ma io credo che le nuove che ci capitano qui attorno anche noi abbiamo diritto di saperle. Mi pare che siamo in ballo, no?
– Tu sei proprio tutto tuo padre, Rapisarda… – celiò al suo fianco Vanni Santochirico, autentico uomo d’armi, noncurante della morte e genio della rapina.
– … Di meno non può essere visto che, come diceva mio nonno, un ramo non cresce se non ha il suo albero – s’intromise Amaro, che aveva voglia di dire qualcosa di decisivo.
Fedele alla sua fama di abile parlatore, il giovane filosofo riuscì a spiegare con parole che toccavano il buon senso, le ragioni che spingevano don Vitangelo a mostrarsi assai ostinato nelle sue reticenze.
– Ma vorrei sapere a questo proposito cosa ci dice l’illustro nuovo compagno – chiosò di scatto rivolgendosi a Pizzamagra, pigramente stravaccato su una seggiola sfondata con un pezzo di focaccia in mano.
L’interpellato orientò a rotazione lo sguardo sulla compagnia e finì con calma di masticare. Poi puntò deciso su Rapisarda.
– E’ lui che tiene ragione! Se si deve rischiare di finire ammazzati per un colpo in fronte, si deve sapere il perché e il percome. Anzi, sarebbe buona cosa cominciare già da adesso a dividere il bottino, almeno nell’idea, così non ci sono problemi da risolvere dopo, che non si sa mai.
Rapisarda approvò in modo stranamente timido. Gli altri si limitarono a biascicare parole incomprensibili che, accavallandosi, delinearono nell’aria una risonanza di nebuloso imbarazzo. Pizzamagra se ne accorse.
– Lo dico per voi – riprese – la causa vostra è pure la mia e quello che mi avete dato mi basta e mi avanza. Io vi ho dato quello che serve e potrei lasciarvi così come state, contenti tutti e alla prossima. Ma sarò patriota e compagno fino alla fine. Se parrà giusto a voi semmai mi basterà la rimanenza.
– Giusto, giusto… la rimanenza – bisbigliò don Vitangelo.
– Io per me lo sapete, rinuncio anche alla mia parte, basta che in paese ritrovo la mia casa tale e quale – disse Vanni Santochirico.
Alla fine si decise unanimi che bisognava fidarsi alla cieca, che solo il capopopolo aveva il diritto di conoscere e amministrare i danari, per ridistribuirli a tempo debito e che i luogotenenti dovevano imparare unicamente i dettagli utili alle operazioni di guerra. Pizzamagra rimase zitto tutto il tempo e anche Rapisarda si fece convincere con le buone, soprattutto grazie al sostegno invincibile delle brocche di vino tracannate in corpo.
Non restava più tempo per rimandare l’azione di guerra e la riunione stava avviandosi a conclusione con una vaga tristezza che annebbiava i cuori. Solo Rapisarda occupava il tempo distraendosi dai cattivi pensieri. Col bastone di Carluccio Spada nella mano arrotolava le ragnatele nascoste negli angoli più imprevisti della casa, ne faceva capolavori d’ovatta e ne offriva agli amici. Sembrava un ambulante che vende stecche di zucchero filato ai bambini alla festa del santo patrono. All’improvviso donna Rosaria Esposito, moglie vereconda del vecchio don Antonio, comparve berciando sulla porta. Più a gesti che a voce, in preda alla disperazione più efferata, fece sapere alla compagnia degli uomini riunita che s’era persa il marito dal letto di casa.
Cercarono invano chi di tranquillizzarla, chi di conoscere meglio le circostanze dell’accaduto. Lei blaterava di continuo all’uno e all’altro senza capire niente di ciò che le usciva dalla bocca. Il vecchio arteriosclerotico era scappato via, questo sicuro. Poi un’orgia di frasi lasciate a mezzo e parole urlate al solo scopo di sfogare la rabbia dal petto. Cominciò a insultare i convenuti accusandoli di incapacità a procreare e cose simili, maltrattò una seggiola trascinandola da ogni parte e provocò un chiasso d’inferno scaraventando sulla parete l’intera batteria dei tegami di famiglia. A don Vitangelo tanto gli vennero i nervi che stava per appiopparle un paio di ceffoni risolutivi sulla faccia. L’intervento tempestivo di Vanni Santochirico valse bene a calmargli i bollori. Come avesse fatto don Antonio a volatilizzarsi così in silenzio e senza darlo a vedere, considerata anche la sua disastrosa debolezza di vecchio malato, restava per chiunque un mistero. Le donne lamentando la sicura catastrofe piombata sulla comunità prima del decisivo evento atteso da anni giravano per casa come formiche impazzite, in un coro di fatale costernazione. Dopo un principio di sbandamento gli uomini si organizzarono con prontezza.
Ci si convinse presto che il vecchio patriarca non poteva essere andato troppo lontano e si partì fiduciosi in caccia. Ma dopo un po’ si aveva voglia a cercare! Il vecchio non si trovava. Doveva essere passata mezz’ora, forse un’ora dal momento della scomparsa, perché non ci fu buco in paese che gli uomini non mettessero sottosopra, gridando a squarciagola il suo nome. Immersi tutti nella dolente atmosfera del cattivo presagio si organizzarono messe solenni di impetrazione alla madonna nelle due chiese della comunità.
Le donne pregarono molto e con passione. Gli uomini, con i cani appresso, sciamarono in ogni senso fino ai piedi del deserto. Inutilmente. Proprio quando sulla via del ritorno si stava dando fuoco alle torce Rapisarda riuscì a scorgere sul tetto di casa sua la figura del venerando in bianca camicia da notte, in piedi, ondulante nell’aria crepuscolare come fosse costantemente sul punto di cadere. Nessuno poteva credere ai propri occhi. Il lungo pigiama di don Antonio svolazzava placido stagliandosi contro il disco arancio del sole. Sembrava una grandiosa bandiera di armistizio. In un marasma di meraviglia i battitori rimasero a guardare l’evento come si assiste all’opera di un miracolo assoluto. Certo l’anziano uomo era riuscito a salire fin lassù per grazia di qualche santo, perché Rapisarda assicurò senza ombra di dubbi che non esistevano scale interne né altri accessi possibili per la conquista di quella assurda postazione. Passò un minuto buono prima che don Vitangelo, preso dal dovere di dimostrare la logica stringente della responsabilità e del comando, urlasse all’indirizzo del patriarca ancora troppo lontano un “vecchio rincoglionito!” intriso di reale deprecazione. Poi fu solo una corsa collettiva verso le prime case alla ricerca di qualche strumento di salvataggio.
Ci si raccolse in silenzio sotto l’abitazione di Rapisarda e si tornò ad ammirare tutti, naso all’aria, il magistrale avvenimento.
Cordami e scale a pioli erano già pronti all’uso, eppure l’impressione inconfessata e provata da chiunque era che sarebbe stato un peccato meritevole di dannazione disturbare la soave ineluttabilità di quello spettacolo celeste. Don Antonio Gadda stava a guardare, dall’alto come un cristo risorto, i suoi occhi avevano il languore delle lontananze remote. Quelli che si aspettavano, da un momento all’altro un superiore gesto di benedizione accesero dei ceri grandiosi giusto sulla porta di casa di Rapisarda. E lui, per scongiurare ulteriori sciagure, pensò bene di toccarsi le parti basse non visto da nessuno.
Poi, inaspettatamente, il vecchio capostipite cominciò a parlare. La sua voce si diffuse come un alito tiepido sulle teste degli spettatori. Ci furono smorfie di occhi socchiusi e orecchie tese allo spasimo nel tentativo di ascoltare una rivelazione finale, ma il senso delle parole risultava, ancora incomprensibile.
Sembrava una litania recitata nella lingua recondita dei progenitori. Il giovane diacono assassino era sicuro: non si trattava né di greco né di latino, ma di qualche altra strana diramazione dell’antico ceppo indoeuropeo. A qualcuno venne pure il dubbio che fosse in realtà dialetto sardo, ma l’ipotesi venne subito tacciata di blasfemia e accantonata all’unanimità. Il parroco della Chiesa Madre, nella sua veste ufficiale di dotto in abito talare, era tentato di dire a tutti di non avventurarsi in prospettive suggestive non ancora verificabili, di stare coi nervi saldi, che non si poteva ancora parlare di miracolo e prima di cominciare a venerare chicchessia alla stregua di un’entità soprannaturale si doveva aspettare il verdetto definitivo di un qualche esperto vaticanista e forse del Santo Padre in persona. Ma non ce la fece a resistere, e dalla sua bocca uscì del tutto incontrollata la considerazione che forse, anzi certamente, il vecchio don Antonio era ormai un trasfigurato e il processo di levitazione sul tetto di casa di Rapisarda doveva essersi compiuto per opera dello Spirito Santo. Inoltre sancì in modo irrefutabile che le parole venute fuori dal miracolato erano aramaico puro e trattavano della dottrina della consustanziazione in ottica dialettica. La comunità approvò in blocco senza capire, ma gli atti di venerazione si moltiplicarono. I ceri cominciarono a bruciare come falò. Subito le donne si inginocchiarono a pregare. Pietra Lasala chiese perdono a voce alta per ogni peccato di lussuria commesso dall’età di dodici anni e mai purificato, suscitando sincere lacrime di commozione e qualche battito di mani ironico e inopportuno da parte di antichi clienti di letto.
All’improvviso don Antonio levò in alto le mani. Il debole mormorio che aveva fatto da sottofondo fino a quel momento si smorzò del tutto. Dunque, dal cielo stava davvero arrivando il segno tanto atteso: un vaticinio, un buon viatico prima della battaglia finale, o almeno un cenno, un amen, una parola di conforto, qualcosa di inequivocabilmente sacro. E quel segno non si fece attendere. Don Antonio cominciò ad assumere un’espressione di beatitudine estrema. Fece come per sospirare, e lì i cuori del villaggio batterono all’unisono per qualche istante.
– Guardate, proprio sopra il muro!
Fu ancora Rapisarda il primo ad accorgersi del fatto. Vide bene un rivolo biancastro che scivolava lungo la parete di tufo: una sottile linea liquida che zigzagò allegramente fino a raggiungere il suolo e poi, nel giro di pochi secondi, andò a dileguarsi nelle profondità della terra. Osservato insistentemente da più di metà della popolazione, don Vitangelo dovette prendersi l’onere di andare a controllare. Non ci mise molto a capire a tiro d’olfatto che non si trattava di acqua benedetta.
Ebbe paura di rivelare agli altri l’incresciosa verità: le orecchie e gli occhi della collettività, agognavano annunciazioni di magia, possibilità di prodigi, turbamenti ultraterreni. Ma il capopopolo dovette farsi forza e pronunciare d’un fiato le funeste parole.
– Don Antonio Gadda si è pisciato addosso!
D’istinto la stragrande maggioranza degli astanti, facendo per girare sui tacchi, decise di mandare al diavolo il vecchio arteriosclerotico e la propria stessa credulità. Ognuno ridendo rimproverava all’altro la responsabilità d’aver fatto per primo la figura del fesso. Ci si scambiavano versi mordaci, spintoni, canzonature. Amaro ricevette da Carluccio Spada una scoppola sulla testa che quasi lo buttò per terra. Pietra Lasala, dimentica della severa promessa fatta al cielo poco prima, riprese a guardarsi in giro perché era tardi e la giornata rischiava di finire senza guadagni. Fu a quel punto che donna Rosaria Esposito, ancora con le lacrime agli occhi, intervenne.
– Ma chi è che me lo va a tirare giù di lì adesso? – esclamò con voce penosa.
Di nuovo, una sorta di vibrazione celeste, percorse, in lungo e in largo, l’adunanza. Coloro che già avevano preso le distanze dal cuore dell’evento e quelli ancora attardati sotto la parete segnata dagli umori del patriarca dovettero prendere coscienza di un fatto rimasto inspiegato. Ci si rese conto che il problema principale non era stato risolto: don Antonio Gadda, spalle voltate al cielo di stelle, irradiato dalla luce dei ceri, sovrastava ancora tutti col suo alone di mistero. La sua presenza sulla cima di una casa continuava a essere la marcatura di un’umana impossibilità. I due ministri di culto colsero al volo l’occasione per riseminare il germe del dubbio in mezzo al popolo, perché ormai si erano giocati la reputazione approvando la sacralità dell’accaduto e doveva costar fatica durissima ammettere di essersi sbagliati. Perciò si associarono in fretta per convogliare uomini e donne in direzione di una rinnovata fede. Ma stavolta le opinioni divaricarono. Immediatamente si formarono sul terreno di lotta due opposti schieramenti.
I più seguitarono a razionalizzare, come a volersi prendere una rivincita sul destino della loro ingenuità. Dicevano che era stato solo uno scherzo, che qualcuno lassù a don Antonio doveva pur avercelo messo e che l’urina sgorgata dalla sua vetusta propaggine significava che dio, se esisteva, teneva altro per la testa quel giorno che investire di divinità un vecchio malato primogenito di una comunità di scampati meridionali. Gli altri, le donne soprattutto, rinfocolarono d’un colpo il sentimento di credenza e quasi si scagliarono contro gli agnostici menando le mani oltre che le voci. Un quarto d’ora più tardi stavano ancora a discutere. Non si venne a capo di niente, ma quando don Vitangelo decise finalmente di addossare la scala al muro per salire, don Antonio stava raggomitolato sull’orlo del tetto. Nonostante la chiara notte d’estate, tremava di freddo come un bambino.
V
Due giorni dopo il brigante Pizzamagra stava dando una mano all’amico Trentamaiali in mezzo ai campi di pomodoro, quando si sentì poggiare una mano nodosa sopra la spalla e una canna di pistola sulla nuca. Si voltò piano e subito capì la malaparata. La pistola era di Rapisarda e minacciava tragedie. In più, si trovava circondato da molti degli uomini più valorosi della comunità. Le facce incarognite e le armi in bella mostra non promettevano niente di buono.
– Non mi volete più bene? – disse tranquillo.
A tutta prima il tono spiazzò tutti.
– La pigli pure a fregatura – intervenne Vanni Santochirico da tergo, vedendo che i compagni s’intimorivano da soli – ma io ti faccio secco mò proprio.
Diede uno strattone a don Vitangelo che gli stava davanti e corse colpo in canna verso il brigante, puntandogli in fronte la pistola. Rapisarda quasi si sentì offeso.
– Non vedi che ci sono già io? Che non ti fidi?
– E’ che ho paura che questo ci prende tutti per fessi, così lo voglio accoppare da subito.
– Tu non accoppi nessuno, statti lontano.
Vanni Santochirico si animò.
– A chi dici statti lontano tu?
– A te, a te, mendicante, ladro di polli!
In un attimo le armi dei due compagni cambiarono bersaglio.
Si incrociarono promettendosi battaglia. Don Vitangelo proruppe arrabbiatissimo.
– Ma voi siete usciti di coscienza. Cosa vi prende adesso?
– Che gli volete fare? E’ amico nostro. – accompagnò Trentamaiali.
Non gli premeva troppo la possibilità di una guerra intestina, quanto la salute del suo famigerato ospite a cui s’era sinceramente affezionato.
I due impetuosi continuavano a guardarsi in cagnesco.
– Abbassala! – intimò Rapisarda.
– Prima tu. Io c’ho il potere della divinazione. Mi fischiano le orecchie e so che tu mi sparerai.
Don Vitangelo non ne poté più. Prese per orecchie i due uomini, li trascinò fuori dal cerchio dei compagni e andò a rimbrottarli fuori dalla portata d’ascolto di tutti, come fa un bravo maestro con gli scolari troppo discoli. Rapisarda e Vanni Santochirico si beccarono l’ammonizione in un silenzio umiliante e reciprocamente si chiesero perdono con la promessa di non farlo più. Solo a questa condizione, con le armi innocue nei calzoni, poterono tornare nel gruppo di prescelti venuti a fare giustizia.
– Di questo cosa ne facciamo? – domandò Carluccio Spada indicando Pizzamagra. Si atteggiava un po’annoiato, dato che non aveva avuto la prontezza di farsi protagonista lui stesso di quella farsa che sotto sotto lo aveva divertito.
– Mi dovete dire quello che vi ho causato – provò a interloquire il prigioniero.
– Tu guarda per terra. Non fare il finto tonto e non osare fissarci a nessuno di noi – comandò don Vitangelo – con tutto che dici di essere Pizzamagra ti taglio la gola come un capretto e mi bevo il tuo sangue.
– Di nuovo devo dare dimostrazioni… ma il pecorino l’ho finito, cos’altro posso dire?
Don Vitangelo non colse il sarcasmo. A sorpresa invece tornò a calmarsi. Lo agguantò sotto braccio come un vecchio amico e lo invitò a sedersi. Era successo questo. La giovane nipote di Pietra Lasala, fino ad allora vergine come un mandorlo in fiore, una specie di modello di acerba femmina senza magagne, era stata defraudata della sua purezza durante un’incursione notturna. Nella descrizione della fanciulla, corrotta e abbandonata, la fattezza del violento amatore corrispondeva pari pari a quella di Pizzamagra, che poi aveva provveduto a comprarsi il suo silenzio con le smancerie di un amore eterno giurato e col dono di una collana di perle nere malesiane razziate chissà dove. La cosa non pareva plausibile, considerata la scarsa attitudine del brigante per le gioie peccaminose della carne. Ma dubbi non ce n’erano. Impossibile che la giovinetta mentisse o si sbagliasse. D’altra parte solo uno straniero poteva osare commettere un’azione tanto turpe su quell’entità sacra e intoccabile, incarnante in modo assoluto il verbo della Virtù e che solo per accidente del destino aveva assunto le mortali sembianze di un essere umano.
Don Vitangelo tirò dalla tasca la collana e la mostrò all’imputato.
Nella rozza mano del capopopolo le perle s’incocciavano a vicenda, rumoreggiando sinistre nell’atmosfera tesa del giudizio.
– La riconosci questa?
Pizzamagra guardò il reperto senza batter ciglio. Tacque a lungo.
– Allora?
Di nuovo il silenzio, inalterabile, gravido di sciagurato presagio. Tutti i presenti lì, nel degno rispetto di un momento pietoso.
– Sono false – dichiarò infine.
L’affermazione suonò come un’ammissione di colpa. Don Vitangelo sospirò in modo eloquente. Aveva la faccia di un padre addolorato che sta per infliggere una severa, inevitabile punizione al diletto figlio. Ma ancora impose a se stesso un periodo di pazienza.
Dunque i casi erano tre. O Pizzamagra era colpevole e latitante, allora avrebbe meritato un coro di insulti cattivi e senz’altro una veloce morte, o era colpevole e pentito, allora si doveva procedere a riparare i danni provocati apparecchiando subito un matrimonio di convenienza che avrebbe salvato la comunità dalle maledizioni del Peccato, ma non il brigante dalla certezza di una imperitura esistenza da marito, o Pizzamagra non era Pizzamagra, e allora avrebbe avuto salva la vita, costretto però a subire per sempre il ludibrio dedicato ai poco di buono e ai millantatori e a far da guardia a vita, e in catene, alle numerose bestie del suo amico Trentamaiali.
– L’hai fatta facile se credi che la piccola avrebbe taciuto, fino alla morte – disse Carluccio Spada ghignando.
L’accusato non era disposto a tenersela. Si alzò di scatto dal masso, dove stava seduto e perorò deciso la sua causa.
– Vi state inventando tutto perché volete riprendervi con l’inganno quello che mi avete dato come vuole giustizia.
Questa è la verità. Ma io sono più innocente di un agnello e lo sapete. La smorfiosa, se davvero ha detto qualcosa, è stata imbeccata da voi.
– Parla, parla a vanvera. Tra poco se non confessi le schifezze che hai fatto la terra che tieni sotto i piedi, comincerà a mangiare la tua carogna di traditore.
– Se adesso avevo in mano il mio schioppo, te lo facevo vedere come facevi lo sbruffone – esclamò il delinquente in un impeto di baldanza. Poi tornò a farsi pacifico.
– Fatemi capire. Volete la mia roba? È tutta dentro casa. Pigliatevela e lasciatemi andare.
– Ora basta!
Don Vitangelo riprese in mano la situazione col solito atteggiamento da generalissimo. Pareva ci prendesse gusto a lasciare che le cose piegassero al peggio per poter intervenire subito dopo a dare ordini perentori e dimostrare a tutti il suo modo marziale di raddrizzare qualunque circostanza.
– Tu ci devi dire chi sei. Da quello che rispondi dipende il tuo destino – e fece all’uomo un’occhiata assurda, ai limiti dello strabismo, come a volergli suggerire una via di fuga che salvasse un pò tutti. Il sedicente Pizzamagra si confuse completamente: rimase zitto a guardare la faccia idiota di Trentamaiali che, da parte sua, non gli prestò alcun conforto, perché da un’eternità galleggiava ai margini dell’accadimento senza aver capito niente del suo senso preciso.
– E quindi? Guarda che la ragazza sta aspettando –Vanni Santochirico insistette ancora, del tutto privo di pietà.
La volontà degli accusatori era chiarissima. E dopo qualche minuto di beata ignoranza anche l’imputato cominciò a interpretarla nel modo giusto. Provò tuttavia a spiegare qualcosa riferendosi al fatto che la giovane nipote di Pietra Lasala forse non era poi così vergine come si pensava, ed anzi conosceva fin troppo bene le arti invereconde della lussuria, e che se qualcuno doveva ritenersi responsabile per aver promosso e sollecitato quell’innominabile congresso carnale – pur piacevolissimo negli esiti – quel qualcuno non poteva essere certo lui, il ritroso Pizzamagra. Lui colpe non ne aveva. Ammaliato da una voce supplichevole e accalappiato nella rete di una giovane sconosciuta quando se ne stava andando per i fatti suoi nel cuore della notte – mezzo ubriaco, questo è vero
– si sorprese ad entrare in una casa incustodita per trovarsi a maneggiare come per incanto il prezioso didietro della pulzella che da sfrontata gli si era seduta addosso. Faccenda di pochi minuti. Fingendo una faccia da scandalo, occhi neri e languidi e bocca semiaperta, la femmina impadronendosi della circostanza aveva millantato quella sconcertante ingenuità da adolescente capace di scompigliargli il sottopancia. Mai successa una cosa simile prima di allora, ed enorme fu la sua sorpresa. Ma dal maneggiamento s’era passati nel giro di attimi a mollare il fremito degli umori orali, e poi ad altro ancora fino a combinare un fattaccio di inedita sconvenienza e di frastornante delizia. La collana di perle gli apparteneva, certo. Se l’era portata tranquillamente in una delle sue tasche, perché cosa di grandissimo valore che abbisognava di tutela costante, ma l’astuta ragazza aveva pensato bene di sottrargliela dopo che i gradevoli postumi dell’amplesso lo avevano sprofondato in un sonno clamoroso e invalicabile.
Insomma, queste e altre tortuose motivazioni andava accampando il famigerato ospite, ma il cupo e sdegnato silenzio che seguì il maldestro tentativo dichiarò senza altri dubbi che la sua credibilità era oramai scesa a zero e passare per la cruna di un ago sarebbe stato più facile in quel momento che uscire indenne dall’ignobile posizione in cui si trovava.
Di colpo allora si fermò, illuminato dalla luce chiarissima del sole. Non fu per caso che la faccia gli prese d’un tratto la fisionomia dell’orgoglio. Non aveva nulla di cui vergognarsi, niente per cui chiedere scusa. Questo realizzò. La comunione col mondo trovava la sua ragion d’esistere in quell’atteggiamento di superbia che decise d’imporsi all’improvviso, consapevole di una ritrovata, spensierata compiutezza d’uomo.
Riguardò tutti dall’alto della sua fisica soddisfazione. Si vedeva finalmente guarito. Approvò con suo stesso stupore un ultimo, sconcio, imperioso movimento d’erezione nei dintorni del basso ventre ed esclamò:
– Il mio nome è Carlantonio Prisco, Pizzamagra ha cacciato l’ultimo respiro un minuto fa. Sono colpevole e mai sarò sposato, sappiatelo, perché ora sono l’essere che ho sognato di essere sempre ed è un bel giorno per finire morti.
Don Vitangelo non protestò più. Comandò ai suoi uomini di formarsi a schiera e l’obbedienza fu totale. Trentamaiali, voltando le spalle alla scena, prese a piangere amaro. Il plotone di esecuzione esplose veloce i suoi colpi, per non allungare troppo le dolorose premesse di una ineguagliabile scomparsa.
VI
Ognuno poteva guardare fuori e pensare alla morte. La luce azzurrognola che apriva gli scuri di un’altra giornata cancellava le stelle in cielo, e le pareti dei cascinali, i roveti, i cani appisolati sulle porte colorava di sé, avvisando l’arrivo dell’alba.
In una pittura perfetta comandata da dio non doveva esserci posto per lo strazio e il sangue di un’ultima fragorosa battaglia. Ma così doveva essere: quello era il giorno stabilito.
Alla spicciolata gli uomini uscivano dalle case. Se ne andavano con l’insonnia negli occhi e qualche folata di speranza a scuotere i petti, mentre le donne, coi fazzoletti umidi nelle mani, li salutavano a ripetizione fino a vederli sparire.
Stavolta a don Vitangelo una lacrima gli scappò davvero sulla guancia.
Si radunarono ai pozzi senza un rumore, come un branco di bestie assetate – ognuna persa alle altre – stancamente si raduna al ruscello per l’abbeveraggio. Mettevano mano alle bisacce facendo finta di cercare, mangiavano controvoglia pane e ricotta, sistemavano le bandoliere a tracolla, oppure masticavano tabacco e si guardavano a caso, resi idioti dal sonno perso e la paura di morire.
– Stanotte – disse Carluccio Spada – la tramontana mi ha dato frescura e i tafani sono rimasti alle finestre. Devo dire che io sono quasi felice.
Rapisarda gli piantò sulla faccia uno sguardo maledicente.
Voleva mangiarselo vivo, lui e la sua felicità da mentecatto.
All’improvviso don Vitangelo impose una libagione, perché lo stare lì tutti assieme nel momento supremo doveva assumere la profondità del rito. Ci fu un debole mormorio di approvazione e niente di più. Rapisarda uscì da un sacco un orciuolo pieno di malvasia e dei calici d’argento rapinati nel corso di un assalto a un convoglio di Puritani. Lui stesso si onorò del ruolo di mastro di bevuta. Il vino scendendo a precipizio nei boccali faceva rumore come la cascata di un torrentello. Perché l’impresa potesse riuscire davvero, don Vitangelo disse che bisognava dare tregua ai nervi e al cervello una certa incoscienza.
In silenzio si bevve, per tenere fede alla sacralità di un momento che doveva rimanere per sempre nella memoria dei sopravvissuti. Qualcuno lamentò il fatto che la cruenta dipartita di un elemento come il grande Pizzamagra avrebbe comportato conseguenze poco felici per l’esito della battaglia, ma nel giro di un minuto Carluccio Spada ricamò a fior di labbra un paio di bestemmie allegre suscitando risate che sciolsero gli animi dalla morsa di un’agitazione oscura. Amaro si mise a succhiare gusci di lumache cucinate dalla madre nottetempo e un poco ne offrì ai compagni. Provò a far coraggio a se stesso e agli altri con l’oratoria di cui era capace e recitò a memoria un discorso preparato da un mesetto che aspettava solo di trovare orecchie disponibili.
– Nascere piangendo è segno che si esiste – proclamò con tono ieratico – ma morire ridendo è segno di grandezza. E oggi c’è aria di giornata grande. La maggior parte di noi non ha diritto alla tristezza perché ha già un’idea giusta per cui farsi accoppare. L’infelicità dell’esistenza è il frutto delle pance piene dei ricchi e delle società ammollate nel vizio. Noi invece abbiamo il nostro corpo e deve piacerci metterlo in gioco, perché è questa la vita. Amici miei, nessuno ha mai pensato che il paradiso può esser fatto anche di dolore e l’inferno di nulla. Animo dunque, perché morire per un sogno, è la cosa migliore che possa capitare a un uomo. Io vi dico che una meta non è fatta per essere raggiunta, e non importa, dove vuoi arrivare, ma, chi vuoi essere. Mio fato, mia sorte, non preservarmi dalle piccole sconfitte, conservami piuttosto per una sola grande vittoria. Questo, dovremmo imparare a dire in eterno. E amen.
Tracannò un boccale a occhi chiusi e di nuovo fu il silenzio.
Pochissimi avevano prestato attenzione alle parole del filosofo.
Qualcuno lo guardò pure con una certa sufficienza, perché come sempre davanti a un pubblico Amaro non perdeva l’occasione di mettersi in bella mostra. Ma il tempo del ragionare era finito e il vino non bastò a rilassare i nervi tesi. Bisognava portare pazienza: aspettare la discesa del Cavaliere di Torre San Severo e dei suoi uomini dai crinali delle colline.
E questi non si fecero desiderare a lungo. Un’ora più tardi, emersero dal filo dell’orizzonte, fuori dagli enormi gomitoli di polvere dei calanchi, muniti di cavalli, carri e armamentario.
Con passo dignitoso, sebbene annegati nella caligine, si avvicinarono al manipolo dei guerriglieri in attesa, tanto stupiti ad ammirare la magnificenza di quelle schiere che a molti, per l’emozione, il fiato rimase nei polmoni.
Don Vitangelo intuì la vaga figura del Cavaliere in posizione d’avanguardia e scolpì nell’aria, con tutte e due le mani, un saluto vigoroso. L’altro se ne accorse e gli arrivò d’appresso.
Era un uomo bello alto, dai lineamenti così raffinati, che pareva un principe, un monocolo all’occhio destro e due baffi rossi attorcigliati come fiamme di torce. Ma la stanchezza e il desiderio si leggevano chiarissimi sulla faccia: un’aria di chi venendo dalla capitale lontanissima ha fatto giorno sulla strada, eppure immaginando di trovare in quelle terre disperse la pietra angolare di un’esistenza.
Subito gli venivano dietro gli uomini della carovana, pure loro affaticati, le facce asciutte come sassi. I guerriglieri di don Vitangelo si affrettarono a preparare bacili d’acqua per le abluzioni. Adesso tutti gli uomini raggruppati nella radura si assomigliavano, scavati nelle sagome, gli uni e gli altri segnati o da un viaggio sfibrante, o da secoli di miseria e di lacrime.
Scomparso il chiarore del primo mattino, sopra le teste di tutti, nuvole opaline si trascinavano sonnolenti come vacche grasse e andavano occupando a gradi molte porzioni di cielo.
– È ancora buona la luce? – domandò don Vitangelo al Cavaliere stringendogli la mano.
– La luce non è un problema; aspettiamo che siate voi pronti per l’azione.
Ricevette ampie rassicurazioni. L’attacco era imminente, si sarebbe scatenato come un’apocalisse, sarebbe stato l’ultimo e avrebbe chiamato vittoria, oppure la morte.
Il Cavaliere si guardò attorno in panoramica. Valutava a occhio e croce la distanza dal paese che a stento affiorava nell’aria untuosa.
– Qui è perfetto – aggiunse. Poi, sempre serio, si girò alle sue spalle e fece a un uomo a cavallo, con una buffa visiera in testa, un rapido cenno. L’uomo atteggiò la faccia come di uno che non aspettava altro. Smontò agile dalla groppa della bestia e urlò qualcosa in direzione della carovana che seguiva.
Lo strepito percorse la brigata con un sussulto. Presto scesero dai carri e dai cavalli decine di uomini. Si misero a scaricare sedie, ampi tessuti arrotolati e strumenti di ogni tipo, veloci, organizzati a memoria che parevano formiche operaie. In pochi minuti, venne allestita una tendopoli.
Il Cavaliere di Torre San Severo osservava tutto senza un’ombra di soddisfazione. Don Vitangelo lo guardava fisso e pensava che anche lui, come ognuno dei suoi uomini, doveva serbare nel cuore qualcosa di molto simile alla paura.
– Adesso possiamo lavarci – disse a un tratto il Cavaliere contemplando il vuoto – bisogna essere rilassati per una cosa del genere. Questo è il giorno più importante della mia vita. Annusò l’aria che già pregustava il sentore del rischio, l’allegro baccano di guerra aperta.
Poco dopo ci fu il segnale. I cavalli partirono al galoppo pancia a terra, calpestando frasche e rose di gèrico. La polvere rossa della brughiera si elevò per metri a oscurare il cielo e le ruote dei carri carichi di munizioni, solcando la terra, si inseguivano frenetiche lasciandosi dietro rotaie profonde. Un sublime fracasso di tuoni e di tempesta occupò la spianata. Pietre e rami spezzati impazzivano per aria sfiorando le teste.
L’assalto era cominciato. Pochi minuti e il palazzo del Municipio di S… sarebbe stato messo a ferro e fuoco. Don Vitangelo aveva arringato bene i suoi fedeli. Disse che non era difficile superare le scariche di fucileria che dai torrioni della cinta muraria dovevano proteggere il paese dalle incursioni armate. E gli credettero tutti. Si sentivano rimescolare nel sangue un’ebbrezza di vittoria, non tanto esaltati dal vino che fino a poco prima aveva continuato a scorrere prepotente nei boccali quanto dalla voglia incontrollata di riconquista delle radici perdute.
Dall’apertura della sua tenda il Cavaliere aveva diretto le prime operazioni di ripresa. Per filmare la partenza aveva dato rigide disposizioni ai guerriglieri. Si sarebbero lanciati precisi a un suo cenno preciso, non prima. L’attesa era stata enorme.
Mai nessuno in nessuna parte del mondo doveva sentirsi importante come loro in quel momento. Rapisarda, per l’occasione, aveva rispolverato una vecchia giubba da ufficiale confederato che suo zio gli aveva portato dall’America. Don Vitangelo, dopo aver perso una mezzora a lucidarsi gli stivali, si era drizzato sulla schiena più del solito e si era messo in cima al plotone dandosi arie a non finire. Carluccio Spada aveva imbastito il suo siparietto di battute pesanti riuscendo ancora una volta ad alimentare un grasso buonumore.
Il Cavaliere di Torre San Severo era stato l’unico a prendere le cose seriamente. Fece posizionare per la bisogna quattro cinecamere fisse nei punti cardinali. Altri tre operatori, dietro abili cavallerizzi, con le camere a mano avrebbero seguito la schiera e ripreso da tergo e di lato il galoppo sciamannato dei combattenti. Poi lui stesso, scomparso il gruppo in una nuvola di polvere, avrebbe montato il baio più veloce e con i quattro operatori a terra avrebbe raggiunto il resto della squadra, già immersa con i cavalieri di don Vitangelo in piena zona di guerra. Sarebbe stato il momento più emozionante del giorno, forse della vita. Documentare il volto della realtà nell’incombenza sanguinante di un evento estremo, rendere finalmente perpetua l’immagine della morte, annidata nelle facce gonfie di tragedia di uomini privi di maschere. Non una morte sola, ma tutto un panorama di morti scritte negli occhi sgranati, nelle mani chiuse al ventre, nelle bocche che sembrano risate. Nessuno prima aveva osato tanto, nemmeno i colossali Studi d’oltreoceano. La profusione di economie e di mezzi era valsa la pena. Gloria, onori e nuove ricchezze bussavano alle porte e i cinematografi di tutto il mondo sarebbero stati invasi dalle immagini di un capolavoro senza pari. Si dileguavano nella memoria del Cavaliere gli anni in cui, giovanissimo, per imparare il mestiere andava a recuperare dai cornicioni delle case i piccioni viaggiatori coi messaggi dei corrispondenti attaccati alle zampe. La vita di un uomo, pensò alla fine, è bella perché è una successione di albe e di tramonti.
Lui da semplice galoppino era arrivato a essere Cavaliere del Lavoro e magnate dell’informazione. Che meraviglia di destino gli aveva riservato il padreterno!
Solo un attimo si smarrì dietro questi pensieri. La circostanza sollecitava un’azione continua, non c’era tempo da perdere appresso ai sogni. Diede l’ordine atteso ai quattro operatori.
La schiera dei guerriglieri si vedeva in lontananza. Lesti gli uomini montarono sopra un carro e partirono di gran carriera.
Lui si impadronì del suo destriero e si mise al seguito.
Chissà se qualcuno di loro avrebbe più visto, in quella pianura deserta, il mezzogiorno accorciare sull’argilla le poche ombre degli uomini e dei carri rimasti, o le tende bianche a ventilare. Ma il sole, nella bruma spessa che sporcava l’aria, aveva indebolito l’abbraccio, non incideva più, poteva solo stare a guardare.