Le ardue sfide di Obama dopo la vittoria
_di Marco Codebò_
La riconferma del presidente degli Stati Uniti è stata determinata dalla convergenza di molteplici spinte positive in seno alla società americana, che riguardano sul piano economico un’inversione di tendenza nella percezione del rapporto fra pubblico e privato, e sul piano culturale e civile la definizione di un nuovo rapporto fra libertà individuali e legislazione, in settori come il diritto di famiglia, le leggi anti-droga e l’emigrazione. Restano enormi problemi relativi alle disuguaglianze sociali, all’assistenza sanitaria, al debito pubblico, alla disoccupazione e, finanche, alle debolezze strutturali del sistema evidenziate dal ciclone Sandy.
Ora che una settimana è passata dalla seconda elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti provo a fare il punto sulla scena politica americana e sui suoi possibili sviluppi. Rispetto a quattro anni fa, la vittoria del presidente è stata meno netta: 50% a 48% in confronto al 53% a 46% del 2008. È un arretramento che discende dalla delusione di una parte della sua base, la sua componente più a sinistra, che ha in parte rinunciato a votare. Questo parziale ripudio si è riflesso nel calo dell’affluenza al voto: in questa tornata elettorale i votanti sono infatti scesi a 129 milioni, dai 131 (57,5% degli aventi diritto, la percentuale più alta degli ultimi quarant’anni) che erano quattro anni fa.
Se nella sua prima vittoria Obama aveva saputo suscitare e cavalcare un’ondata di speranza “vendendo” se stesso, la sua biografia, come promessa di cambiamento, questa volta ha vinto rovesciando il segno del suo messaggio, dalla novità alla continuità. Assistito da un gruppo di consiglieri di prim’ordine, ha convinto l’elettorato che non era il momento di tentare avventure e che affidarsi ad una guida sperimentata era la decisione più saggia in tempi di crisi. La sconfitta di Romney ha confermato un dato che era già emerso anche in Europa e specialmente in Italia, vale a dire che la destra diventa maggioritaria solo quando riesce a forgiare un messaggio populista, operazione preclusa in partenza al candidato repubblicano.
La vittoria di Obama è però anche il frutto di tendenze profonde che stanno agendo nel vivo della società e che riescono, anche se in maniera disomogenea, a far sentire il loro peso anche dentro le urne. Sotto la pressione della crisi si è verificata un’inversione di tendenza nella percezione del rapporto fra pubblico e privato. Ci troviamo sempre, è chiaro, dentro ad un quadro generale neoliberista, ma l’idea che il mercato possa anche essere una forza distruttrice, ai cui mali è chiamato a rimediare proprio l’intervento pubblico, ha guadagnato terreno per la forza stessa di quanto è accaduto nel settore finanziario durante il biennio2008-2009. E di pari passo è ritornato prepotente nella conversazione il tema dell’iniquità nella distribuzione del reddito. Il movimento che ha riproposto questo tema, “Occupy Wall Street”, nella sua forma più vistosa è stata una fiammata di breve durata, ma come resistenza diffusa ha dimostrato di possedere una forza superiore a quella dispiegata sul terreno nell’autunno di un anno fa. Così oggi è possibile proporre un innalzamento delle aliquote fiscali sui redditi più alti come una delle misure che possono contribuire ad una riduzione del deficit federale; soprattutto è possibile farlo ai livelli più alti del dibattito politico, a partire dalla stessa presidenza. Può sembrare poco, ma un anno fa era impensabile.
Obama ha saputo capitalizzare anche una seconda tendenza al cambiamento, culturale questa volta, che punta a stabilire un nuovo rapporto fra libertà individuali e legislazione, in settori come il diritto di famiglia, la legislazione anti-droga e l’emigrazione. Nella stessa giornata che ha rieletto Obama, per la prima volta nella storia, tre stati hanno approvato per via referendaria il diritto al matrimonio per coppie omossessuali (era già in vigore in sei stati ma per decisione della magistratura) e due hanno liberalizzato l’uso della marijuana anche per scopi non medici. Non erano in votazione proposte sull’emigrazione, ma l’appiattimento di Romney sulle posizioni dell’ala nativista dei repubblicani è stato da tutti gli osservatori indicato come una delle cause determinanti della sua sconfitta, per le evidenti ripercussioni sul voto latino. Sul terreno culturale la destra americana è ormai minoranza, anche perché il nucleo più omogeneo della sua base, i maschi bianchi, è in irreversibile declino demografico.
Il quadro piuttosto roseo che ho dipinto finora non deve trarre in inganno per quanto riguarda le conseguenze della vittoria democratica nel breve periodo, che è poi l’unico che mi riesce di immaginare con un minimo di ragionevolezza. Sul piano internazionale credo di poter dire che la rielezione di Obama è un fatto positivo per gli europei. La politica economica dell’amministrazione democratica e dell’ancor più importante Federal Reserve, rimane a far da unico contrappeso all’ortodossia liberista dell’Europa merkeliana. Certo i piatti della bilancia non sono caricati allo stesso modo, perché all’estremismo dell’Unione Europea e della BCE, riassumibile nella formula “solo tagli alla spesa pubblica”, Obama oppone un blando centrismo, tagli al bilancio sì ma anche riforma della tassazione, oltre che difesa della base irrinunciabile del welfare. Nell’area occidentale, tuttavia, le politiche messe in atto dai democratici americani sono le uniche in controdenza rispetto alla vulgata neoliberista. La riforma sanitaria di Obama, ad esempio, che dovrebbe ridurre il numero dei cittadini senza assistenza sanitaria da cinquanta a venti milioni, non sembra certo una gran cosa rispetto al principio del diritto universale alle cure mediche, però qui negli Stati Uniti significa riconoscere che in un area così importante come quella della salute il mercato incontra un limite invalicabile dove è la cosa pubblica che conta, perché non tutto dell’essere umano può essere comprato e venduto.
Sul piano interno, a parte appunto la cruciale conferma della riforma sanitaria, sono da prevedere quattro anni di guerra d’attrito fra l’amministrazione e il partito repubblicano. Quest’ultimo conserva la maggioranza dei seggi alla Camera dei Rappresentanti (frutto di alchimie nella divisione dei distretti elettorali visto che il voto popolare è stato per 500.000 voti in maggioranza democratico), e controlla trenta parlamenti statali su cinquanta. In questo contesto appare logico prevedere che per quanto riguarda le scelte economiche e fiscali la politica proceda nei prossimi anni a strappi, con una sequenza di prove di forza fra l’amministrazione e i repubblicani seguite da compromessi che mantengano in funzione il sistema. Ne avremo un esempio a fine anno quando, a meno che non vengano approvate misure apposite, entreranno contemporaneamente in vigore aumenti delle tasse e tagli alla spesa per un valore di circa 700 miliardi, quanto basta, secondo gli esperti, per rispedire il paese in recessione. Si tratta del tipico terreno su cui democratici e repubblicani si trovano filosoficamente agli antipodi, ma sono forzati, nella presente situazione di divisione dei poteri, a trovare una soluzione comune. Non dovrebbe discostarsi molto, quest’ultima, da quanto suggerito da Robert Rubin, ministro del Tesoro sotto Clinton, che propone di alzare le tasse ai due milioni di contribuenti con i redditi più alti e di controbilanciare questa misura con un taglio equivalente della spesa pubblica: ridurre il deficit, insomma, senza scontentare nessuno dei due elettorati, o, da un altro punto di vista, scontentandoli entrambi.
Lo scenario che ho delineato dovrebbe continuare almeno per tutto il secondo mandato di Obama, con un quadro politico che riflette, media e governa le spinte contrastanti che provengono dalla società civile. Solo l’apparire imprevisto di una crisi, nella politica estera come in quella economica, potrebbe far saltare il compromesso fra Presidenza e Camera dei Rappresentanti, repubblicani e democratici, neoliberisti e tardokeynesiani che governerà gli Stati Uniti nel futuro prossimo. Parlando di crisi, il pensiero va subito al Medio Oriente, per quanto riguarda la politica estera, e alla mala gestione del debito pubblico in Europa per quel che concerne l’economia. Saranno queste infatti le aree più foriere di pericoli per la navigazione dell’amministrazione Obama nel prossimo quadriennio. Questo previsione è probabilmente corretta, ma a me è rimasta una strana preoccupazione dopo l’emergenza metereologica che ha interessato l’area di New York alla fine di ottobre. Sandy, classificata come tempesta tropicale, più debole quindi del meno pericoloso degli uragani, di classe1, hacausato devastazioni incalcolabili. Il nord-est degli Stati Uniti è una delle zone più ricche del paese, e quindi del pianeta, e dovrebbe essere dotata, di conseguenza, delle infrastrutture più solide. Eppure a due settimane dalla tempesta, nella sola Long Island c’erano ancora 270.000 utenze prive di corrente elettrica, con un numero corrispondente di cittadini ridotti a vivere come profughi in patria. Finché non si partirà da lì a fare il calcolo delle priorità, delle spese e dei tagli, degli investimenti e degli sprechi, non si potrà raggiungere un equilibrio autentico, capace di andare oltre al procedere miope della tattica parlamentare