Le avventure di un bambino soldato_Gorge G. Karanja
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione di Mariella Vaccaro
Marial trasse un respiro profondo e osservò la sfera dorata del sole che
tramontava: affondava lentamente dietro un paio di basse colline ad ovest
del suo villaggio natale. La paura gli metteva in subbuglio l’animo e lui
si chiedeva cosa sarebbe successo se il sole fosse tramontato per non
sorgere mai più.
Erano le sei di sera, il momento in cui l’oscurità si insinuava furtiva nel
villaggio, incutendo paura in tutti gli abitanti. Dall’inizio della guerra
c’era timore di attacchi, soprattutto dopo il tramonto. L’oscurità richiamava
i grilli fuori dalle tane e gli usignoli dai loro nidi. Marial riusciva
a sentire il frinire dei grilli negli arbusti vicini e il canto degli usignoli
che proveniva dalla cima di un albero, a pochi metri di distanza dal villaggio.
Gli uccelli spesso gli davano un pò di conforto perché si trovava
coinvolto in una guerra che non capiva.
Strinse forte il fucile tra le mani chiedendosi se i bambini della sua età
negli altri paesi erano come lui. Era stato costretto ad abbandonare la
scuola e addestrato come bambino soldato. Era successo pochi mesi dopo
che aveva compiuto dodici anni. Da due anni ormai era nell’esercito
locale come ragazzo soldato.
Il giorno in cui era entrato a far parte dell’esercito di giovani era ancora
vivido nella sua mente. Era stato una settimana dopo che una banda
di soldati nemici aveva attaccato il suo villaggio, uccidendo quasi tutti
gli uomini sani e bruciando le case dai tetti di paglia. Era stato terribilmente
triste vedere tante persone, soprattutto donne e bambini piccoli,
piangere alla vista delle case in fiamme. Morti e feriti giacevano dappertutto.
Fu quasi un genocidio. Molti scapparono e, anche se gran parte di
loro era tornato, alcuni ancora non avevano fatto ritorno. La famiglia di
Marial scampò per poco a questo attacco, ma il villaggio non fu mai più
sicuro come prima. La paura andava aumentando in tutta la regione e incombeva
dappertutto, fino al cuore e nell’animo della gente. Tutto era in
agitazione e Marial lo percepiva intorno a sé nell’aria della sera.
Mentre stava lì in piedi, stringendo il fucile pesante tra le mani e sentendosi
a disagio per la divisa militare troppo grande per lui, cercò di immaginare
cosa sarebbe accaduto nei giorni a venire. Spesso pensava alla scuola,
gli era sempre piaciuto molto andarci, persino durante la stagione secca,
quando il cibo era scarso. Ma ora che era un bambino soldato non avrebbe
potuto tornarci finché la guerra non fosse finita. Purtroppo, la sua fine non
sembrava vicina e ogni periodo di pace non durava a lungo. Più di una volta
aveva desiderato ardentemente la pace, ma sembrava essere passato tanto
tempo da quando ne aveva assaporato un pò. In effetti, non vedeva la
pace da quattro anni. La guerra si era propagata come un incendio nella
boscaglia, raggiungendo alla fine il suo villaggio natale.
Mentre la sera trascorreva lentamente, la paura di Marial diventava
sempre più profonda. Fissò un gruppo di bambini che giocavano innocenti
con un carro militare distrutto: erano troppo piccoli per preoccuparsi
dell’incertezza del proprio futuro.
Aveva gli occhi ancora fissi sui piccoli quando un fischio, stridulo e sinistro,
raggiunse le sue orecchie. Rabbrividì per la paura e il suo cuore
quasi si ghiacciò. Immediatamente, capì la causa di quel suono: il soldato
di guardia aveva individuato qualche pericolo.
Marial osservò il cielo che diventava grigio nell’oscurità della sera e intravide
quattro aerei militari che si dirigevano da nord verso il suo villaggio.
Il loro rombo aggiunse ulteriori onde di paura in lui: sapeva cosa sarebbe
successo in seguito. Non era la prima volta che vedeva le bombe cadere
dal cielo. Mentre gli aerei gli rombavano sulla testa, improvvisamente
pensò ai suoi familiari. Dov’erano? Si domandava. Si mise il fucile in spalla
e corse velocemente verso un fosso scavato come riparo lì vicino, il suono
degli aerei sopra di lui. Si guardò intorno disorientato mentre donne e
bambini correvano nella confusione. Urla di terrore riempirono l’aria.
Si udirono altre grida quando le bombe raggiunsero il suolo, distruggendo
le case dai tetti di paglia del villaggio. La sua ansia aumentava mentre
i tetti esplodevano uno dopo l’altro, persino quello dell’unico ambulatorio
del villaggio. Alcune bombe caddero nei recinti del bestiame e gli animali
scapparono via terrorizzati mentre il fuoco radeva al suolo il villaggio.
Era ancora nel fossato quando vide una bambina venir fuori da una delle
case che non erano ancora state distrutte. Il sangue quasi gli si raggelò
nelle vene nel riconoscere Achier, la sua unica sorella. Fu preso dal
coraggio, lasciò cadere il fucile e si precipitò fuori dalla trincea. Mentre
correva per andarle incontro, sua madre uscì dalla stessa casa gridando
alla volta della bambina. Marial prese fiato e aumentò velocità.
Poi, quando stava quasi per raggiungerle, tutto diventò nero. Non ricordava
cosa fosse successo in seguito. Il suo ultimo ricordo era l’immagine di
sua madre e sua sorella che correvano verso di lui, poi il suono più forte
che avesse mai sentito gli rimbombò nelle orecchie e il terreno sotto
i suoi piedi tremò in modo impressionante. Gli occhi gli si riempirono
di polvere, mentre una forza mostruosa lo fece sollevare da terra. Volò
in aria e ricadde al suolo. Stordito, cercò di rialzarsi ma il dolore che
provava in tutto il corpo non glielo consentì. Svenne.
Nel momento in cui aprì gli occhi pieni di polvere, non capì subito dove
si trovasse. Ma quando la vista gli si schiarì, ricordò cosa fosse successo.
Una bomba era esplosa vicino a lui. Si rese conto di essere steso
per terra, con la faccia in su, gli occhi rivolti verso il cielo.
Era notte fonda e la luna era simile ad un sottile bastoncino ricurvo che
galleggiava splendente nel cielo notturno. Sembrava anche una fetta di
luce circondata da innumerevoli famiglie di stelle luccicanti. E la Via
Lattea si distendeva e scorreva lungo il cielo notturno senza nuvole, come
fosse un fiume celeste. Marial cercò di mettersi seduto, ma venne
fermato da una fitta improvvisa alla caviglia. Delle schegge lo avevano
colpito e il sangue fluiva ancora lentamente dalla ferita che sanguinava.
Il dolore lo fece gemere di nuovo. Si sforzò di mettersi seduto e
si guardò intorno. Alcune case bruciavano ancora e non si vedeva nessuno
in giro: c’era un silenzio di tomba.
Mentre stava lì seduto chiedendosi cosa fosse successo a sua madre e
sua sorella, sentì delle voci che si avvicinavano nell’oscurità. Poi in lontananza
un cane ululò di paura, mettendolo in guardia. Quelle non potevano
essere voci amiche.
Raccolse tutte le sue forze e si trascinò verso il camion distrutto dalle
bombe, dove i bambini stavano giocando alcune ore prima. Vi si nascose
sotto e osservò pieno di paura un gruppo di soldati pesantemente armati
che si avvicinavano al luogo del suo nascondiglio. Erano soldati nemici,
probabilmente gli stessi che avevano attaccato il villaggio. Parlavano
una lingua straniera e tutto ciò che riusciva a sentire erano i loro bassi
mormorii.
Marial temette che potesse essere l’inizio di un altro incubo. Attese con
ansia che succedesse qualcosa, ma gli uomini stavano lì in piedi, a pochi
metri da lui. Poi uno di loro, una figura alta e scura, ad una certa distanza,
chiamò gli altri. Nello stesso istante, una folata di vento gelido soffiò
sul villaggio raso al suolo e Marial rabbrividì quando il vento raggiunse
la sua pelle. Si guardò e si rese conto di essere ridotto a brandelli: l’esplosione
l’aveva lasciato con i vestiti strappati e senza una scarpa.
Quando il vento gelido ritornò, si rannicchiò e starnutì. Uno dei soldati
si voltò. Marial lo osservò tremando dalla paura. Se fossero avanzati
verso di lui avrebbe potuto essere in pericolo. I soldati erano spietati e
difficilmente lo avrebbero risparmiato. Fortunatamente, nessuno di loro
osò tornare indietro. Marial fece un sospiro di sollievo.
Più tardi, dopo che i soldati se ne furono andati, sentì il rombo lontano
dei loro camion. Li osservò da sotto il carro distrutto, mentre salivano
sui camion lasciando il villaggio immerso in un silenzio raggelante: un
silenzio soprannaturale.
Uscì carponi dai rottami e zoppicò intorno al villaggio in cerca di qualche
sopravvissuto. Le strade erano piene di cadaveri, per lo più donne
e bambini. Andò alla ricerca dei suoi familiari, con gli occhi pieni di lacrime,
ma non li vide da nessuna parte. Neanche fra i morti. Si chiedeva
continuamente cosa fosse potuto accadergli e sperava che non fosse
il peggio.
Era passata da molto la mezzanotte quando rinunciò a cercare ancora.
Era stanco e aveva sonno, le dita e le guance erano intorpidite dall’aria
gelida. Voleva dormire, ma la paura e il freddo non glielo avrebbero consentito.
Come avrebbe potuto addormentarsi quando il pericolo incombeva
su di lui?
Si incamminò per la strada polverosa e desolata che conduceva al villaggio
più vicino, a un’ora di cammino. Essendo solo, gli sarebbe sembrata
il doppio ma, comunque, sperava di arrivare prima dell’alba. Ad
ogni passo che faceva, allontanandosi dal suo villaggio in fiamme, pensava
alla sua famiglia. Dov’era suo padre? E sua madre e sua sorella?
Le bombe li avevano feriti? Si chiedeva ogni momento che passava.
Si stava facendo giorno rapidamente quando raggiunse il villaggio più
vicino e, da lontano, intravide le fiamme che bruciavano lentamente nel
freddo del mattino appena iniziato. Affrettò il passo e quando arrivò più
vicino al villaggio, i suoi occhi videro più chiaramente e la sua mente
capì quanto era successo.
Come il suo villaggio, anche quel luogo era stato raso al suolo e bruciato
e dappertutto giacevano mucchi di morti. Le poche persone presenti
piangevano piene di angoscia e non badarono a lui.
Evidentemente, ogni villaggio in quella regione era stato colpito dalla
guerra, gli abitanti costretti a fuggire e le case trasformate in rovine di
carbone.
Sospirò e allontanò lo sguardo da quello scenario di guerra. Gli sembrava
insopportabile, mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
“Perché non riescono a fare in modo che ci sia la pace?”, pensava. Lasciò
il villaggio incamminandosi lungo una strada polverosa che si spingeva
a sud, verso le colline all’orizzonte, oltre il villaggio. Forse lì la
pace regnava indisturbata e scorreva a fiumi.
Avanzò zoppicando per tutta la mattina, con i vestiti militari troppo grandi
che diventavano pesanti, mentre la fame e la stanchezza prendevano
il sopravvento. A mezzogiorno trovò una sorgente di acqua fresca. Era
come se un sogno si avverasse, poiché il sole cocente gli aveva seccato
la gola.
Dopo aver placato la sete si riposò un pò e poi riprese il suo viaggio.
Per tutto il pomeriggio seguì quella pista solitaria che si snodava come
una lunga corda davanti a lui. In ogni direzione c’erano gruppi di cespugli
e pochi alberi solitari emergevano tra l’erba alta, guardandolo in
silenzio. Marial si sentiva perso in una terra selvaggia, ma continuò a
camminare instancabile finché l’oscurità lo sorprese che si trascinava a
fatica. Quella notte, sotto gli occhi luminosi della luna, si coprì con un
ramo e, dopo aver masticato alcune foglie, dormì sotto un arbusto.
Quando riaprì gli occhi al primo sorgere del sole, capì subito che non
era stato il canto di un gallo a svegliarlo. Aspettò ascoltando attentamente.
Passò un minuto e poi qualcosa con una lingua morbida gli leccò la ferita
alla caviglia. Sobbalzò per la paura e osservò spaventato un dingo
che sorpreso scappava via, facendo frusciare le foglie secche, mentre si
faceva strada in mezzo alla boscaglia.
Si alzò rabbrividendo e guardò verso est. Le prime strisce di luce facevano
capolino dietro le colline scure all’orizzonte. Era tempo di proseguire
per cercare la sua famiglia, gli amici e la pace scomparsi.
Il sole stava tramontando all’orizzonte mentre il giorno già vecchio si
inchinava lentamente alla sera che si avvicinava. Il grigio dell’oscurità
prendeva forma verso est e presto sarebbe calata la notte. Si sentivano
i suoni tipici del crepuscolo provenienti dalle spaccature nelle
rocce e dai cespugli circostanti. Era la fine del secondo giorno da quando
Marial aveva lasciato il suo villaggio. Camminava lentamente,
doppiamente stanco, sospiri di spossatezza fuoriuscivano dalla sua bocca,
di tanto in tanto. Debolmente, sollevò lo sguardo verso il sole: quella
sfera rossa in un cielo rossastro-arancione lo osservava ancora tranquillamente.
I colori che la circondavano erano bellissimi e incantevoli,
ma Marial non riusciva a percepire la bellezza di quel tramonto.
Era stanco fin nell’animo, aveva la gola riarsa dalla sete e la fame gli
rodeva lo stomaco.
Affamato, stanco fino al midollo e con le forze che lo abbandonavano,
cercò un posto per dormire durante la notte. La notte precedente
aveva dormito all’aperto. Un animale più grande e più feroce di un dingo
avrebbe potuto ucciderlo durante la notte.
Intravide un baobab che torreggiava maestoso al di sopra di alcuni arbusti,
i suoi rami ben modellati dalla natura. Immediatamente scelse quel-
l’albero gigantesco come riparo dagli animali selvatici. Mentre barcollava
verso l’albero, i suoi occhi, benché deboli per la fame, scorsero delle
bacche mature tra i cespugli. Stava per raccoglierle, quando un movimento
frusciante tra le foglie gli raggelò il sangue. Il cuore gli batteva
rapidamente mentre i suoi occhi mettevano a fuoco un serpente che
sibilava strisciando sul ventre.
Prese un ramo secco e gli schiacciò la testa. Il serpente si attorcigliò per
il dolore e quando lo colpì di nuovo smise di muoversi. Allora capì che
era morto e fu sicuro che non avrebbe potuto morderlo con la testa
schiacciata a quel modo. Raccolse le bacche, se le mise in tasca e si arrampicò
sul grande albero. Si appollaiò sul ramo più grosso e iniziò a
mangiare le bacche. Erano amare come la bile, ma era contento perché
riuscivano, almeno, a placare i morsi della fame nel suo stomaco. Le masticava
guardando fisso il cielo silenzioso. Era una notte senza nuvole
e le stelle, a milioni, brillavano a miglia di distanza sopra di lui.
Una raffica di vento gelido gli soffiò nelle orecchie e la mascella si irrigidì
al contatto con il freddo secco che gli pungeva le guance, il naso
e le orecchie. Rabbrividì e si augurò di trovare un pò di calore. Tremò
pieno di stanchezza e sperò in un buon sonno, ma non avrebbe potuto
riposare bene finché non fosse stato al sicuro dal pericolo che lo circondava.
Non si riconosceva più; poco tempo prima era un ragazzo al
riparo, protetto dai pericoli da suo padre e sua madre, ma ora era solo a
dover lottare contro problemi sempre più grandi.
Dormì appollaiato sul ramo, svegliandosi più volte durante la notte per
le continue punture di insetti e i forti ululati dei dingo. Al risveglio aveva
gli occhi dolenti e gonfi di sonno. Camminò tutto il giorno, con le
forze che scemavano di ora in ora. Era perso, in una terra senza acqua
né cibo. Al momento giusto sarebbe svenuto di fame e di sete.
La fine della giornata arrivò prima di quanto non si aspettasse. Il buio
ricoprì la terra come un pesante lenzuolo, spingendo via la luce. La luna,
un pò più grande della notte precedente, faceva capolino dietro una
nuvola scura e informe e sembrava che osservasse dall’alto il ragazzo
solitario che camminava speranzoso sulle sue gambe stanche. Barcollava
e procedeva incespicando sul terreno cercando con lo sguardo un
luogo per trascorrere la notte.
Mentre si trascinava a stento lungo la strada deserta, vide delle luci che
brillavano in lontananza come lucciole nella notte. Il suo cuore fece
un balzo di gioia. Finalmente aveva trovato un insediamento abitato.
Accelerò il passo e, avvicinandosi al villaggio, vide che era più grande
del suo. Ad un angolo c’era una torre di avvistamento. Marial strisciò
verso la siepe di recinzione procedendo carponi sul ventre come
gli era stato insegnato. Strisciò in silenzio facendo attenzione a non
urtare una qualche bomba piantata nel terreno. Continuò a strisciare
lentamente finché non si sentì fuori pericolo. Sospirò di sollievo e si
nascose nei cespugli, vicino alle case dal tetto di paglia, cercando di
udire voci umane. Sentì invece il frinire dei grilli e il canto degli usignoli.
Ogni volta che uno degli uccellini smetteva di fischiare, incominciava
un altro.
Stava per cadere in trance quando sentì qualcuno parlare. Spiando nella
semioscurità, intravide delle ombre scure, in piedi, molto vicine tra
loro, non lontano da lui. Strisciò di nuovo verso quelle ombre finché non
fu loro vicino. Con l’aiuto della luce incerta della luna i suoi occhi riuscirono
a distinguere due figure. Aprì meglio gli occhi e vide due ragazzi
della sua stessa età che imbracciavano fucili d’assalto alti quasi
quanto loro. Le loro voci erano basse e si sentivano a stento.
Strisciò un pò più vicino e ascoltò di nuovo. Uno dei due raccontava all’altro
come era riuscito a sfuggire ad un attacco.
“Sono arrivati i soldati e hanno distrutto tutto. Molta della mia gente è
rimasta ferita ed è morta, mentre i sopravvissuti sono scappati via e hanno
lasciato il villaggio ai suoi spiriti”.
Marial sussultò nel riconoscere quella voce. Era Riek, il suo vecchio amico
e compagno di scuola. Entrambi erano stati strappati via dalla scuola
per diventare bambini soldato e i doveri che gli erano stati imposti li
avevano tenuti separati per alcuni giorni. Ma la loro amicizia non poteva
appassire neanche in tempo di guerra.
Mentre ascoltava Riek che narrava le sue avventure, Marial si ricordò del
modo in cui spesso si chiamavano l’un l’altro in segreto: allora tubò come
un colombo e fischiò come un usignolo. Riek e il suo amico smisero di
parlare e ascoltarono. Marial fischiò di nuovo. Riek rispose con un fischio.
“Marial?”, chiamò, incredulo. Marial tubò e fischiò.
“Sei tu, Marial?”, chiese Riek con voce ferma.
“Riek”, chiamò Marial uscendo dai cespugli. “Sono passati un sacco di
giorni dall’ultima volta che ti ho visto”.
“Mio Dio!”, esclamò Riek mentre si abbracciavano. “Pensavo che ti fosse
successo il peggio. Sono felice di vederti”.
“Anch’io”, disse Marial.
“Devi essere stanchissimo”, disse Riek con gli occhi fissi sul volto dell’amico.
La luna che sorgeva lo faceva risplendere rivelando la sua
stanchezza e la gioia di rivedere un caro amico. Il loro incontro era come
un miracolo inatteso.
“Questo è il mio nuovo amico”, disse Riek indicando l’alto ragazzo nero
in piedi accanto a lui. “Il suo nome è Deng”. Marial sorrise debolmente
al ragazzo.
“E’ stato un buon amico da quando sono arrivato qui”, continuò Riek.
“Quando?”, Marial lo scrutò attraverso la semioscurità.
“Due giorni fa”, rispose Riek, rigirando il fucile fra le mani.
“E hai visto qualcuno della mia famiglia?”, chiese Marial ansioso, rivolgendo
all’amico uno sguardo pieno di speranza. Riek annuì.
“Ho visto tua madre e Achier salire su un camion di un’associazione umanitaria.
Sono stati portati in un campo profughi verso Sud”.
“Quanto è lontano?”, chiese Marial.
“Circa venti miglia da qui”, rispose Deng. “Ma non ti preoccupare, sono
al sicuro là”.
“E mio padre?”.
“Mi dispiace, ma non lo so”, disse Riek triste, “anch’io non vedo i miei
genitori e i miei fratelli da quattro giorni ormai; non so neanche dove
siano”.
“Chi abbiamo maledetto?”, lamentò Marial.
“Nessuno”, risposero Deng e Riek all’unisono.
Marial chiuse e riaprì gli occhi tentando di ricacciare indietro le lacrime
che li riempivano. Alzò lo sguardo verso il silenzioso cielo notturno,
desiderando la fine di quella guerra civile; forse allora quelle peripezie
sarebbero finite. Osservò l’oscurità che dissipava il suo velo e i
ciuffi di nuvole leggere che si muovevano silenziose vicino alla luna.
Si guardò intorno: il paesaggio circostante era immerso nella debole lu-
ce misteriosa della luna che faceva sembrare d’argento gli oggetti lontani.
Soffiava un vento freddo che gemeva e faceva danzare gli alberi e
i cespugli come fantasmi. E la notte cresceva fredda e silenziosa, cupamente
silenziosa, come una casa disabitata o una grotta solitaria.
Rabbrividì. Una sensazione di bruciore gli afferrò lo stomaco e ne seguirono
dei brontolii: aveva fame.
“Sta diventando freddo. Andiamo nel mio tucul, fa caldo dentro”, disse
Deng. “Troverò qualcosa da poter mangiare”.
Seguirono Deng in una casa di fango e sedettero su un letto di corda.
Deng portò del cibo e lo mangiarono avidamente, chiacchierando di quando
in quando.
Avevano appena finito di mangiare e stavano stesi sul letto di corda con
i piedi penzoloni, quando la porta si aprì di scatto. Lo sguardo di tutti
si rivolse alla porta. Sulla soglia si stagliò la figura scura di un uomo
con un’arma in mano. Aveva l’aria di un prepotente.
“Deng!”, chiamò gridando.
“Si”, rispose Deng con soggezione.
“Ragazzi”, urlò di nuovo il soldato, “domani è giornata di addestramento,
quindi tenetevi pronti ad allenarvi”.
Marial guardò l’uomo e le sue speranze svanirono. Si voltò verso Riek
e poi rimase a fissare la luce tremolante della lampada di alluminio. Il
vento, sibilando attraverso la porta, cercava di spegnerla.
“Chi è quel ragazzino che è con te?”, domandò l’uomo rivolgendo uno
sguardo severo a Marial. “Da dove viene?”.
Riek raccontò le avventure di Marial.
“E così siete dello stesso villaggio?”, disse l’uomo. “Allora lascialo riposare
un pò. Ci raggiungerà in seguito, dopodomani”. Appena l’uomo
uscì dalla stanza, Marial e Riek si guardarono, sorpresi e ugualmente
preoccupati. Deng li guardò ammutolito.
“Vogliono, che noi combattiamo?”, chiese Marial incredulo.
“Temo di si. Non abbiamo scelta”, bisbigliò Deng. “Vorrei poter fuggire
via da qui”.
“Possiamo farlo”, disse Marial pieno di speranza.
“E’ pericoloso”, disse Deng con voce bassa e rauca. “Ci darebbero la
caccia e ci punirebbero”.
Marial rifletté un momento: sapeva che la fuga lo terrorizzava, ma se
fosse rimasto sarebbe finito in un centro di reclutamento e anche questo
lo terrorizzava. Doveva fuggire via da quell’esperienza.
“Non resterò qui per diventare un bambino soldato: sono troppo giovane
per morire. Invece voglio la pace; voglio trovare la mia famiglia e,
se possibile, ritornare a scuola”. Si rivolse a Riek “Vieni con me?”.
Riek non rispose ma, mentre stava lì seduto, decise di andare con Marial.
“Vieni con noi?”, chiese a Deng.
“Io… io… non posso”, balbettò Deng. “Questa è casa mia, la mia famiglia
e i miei parenti vivono qui. Non posso lasciarli”.
Marial annuì guardando Deng. Avrebbe fatto la stessa cosa se fosse stato
nelle sue condizioni. “Hai un fratello o una sorella?”.
“Si, un fratello più piccolo di me. Ha dieci anni”, rispose Deng.
“Io ho una sorella di sette anni. Mi manca in questo momento e voglio
rivedere lei e i miei genitori”.
Deng uscì di casa e portò del cibo e dell’acqua.
“Vi serviranno per il viaggio”, disse a Marial e a Riek. “Può darsi che
ci voglia un giorno intero per raggiungere la vostra destinazione”.
“Siamo contenti”, ringraziò Riek.
“Di che?”, disse Deng quasi gridando.
“Della tua gentilezza”, rispose Marial.
Poco dopo, i tre ragazzi dormivano profondamente.
Mentre il villaggio dormiva ancora, prima che il sole illuminasse il
giorno, Marial e Riek salutarono Deng e sgusciarono fuori di casa. Presero
la strada sterrata che conduceva alla città più vicina.
Deng aveva detto che ci sarebbe voluto un giorno intero, ma loro erano
decisi ad arrivare prima del pomeriggio. Camminarono attraverso la
savana, rievocando bei ricordi. Se non fosse stato per la guerra, sarebbero
stati a scuola a studiare. Ma ora il Paese era nel caos. Entrambi sapevano
che se la guerra civile non fosse finita subito, ogni mattina, al
loro risveglio, la paura e il caos si sarebbero svegliati insieme a loro.
Dopo molte notti, albe e tramonti, sarebbero diventati adulti ma senza
un’istruzione adeguata. Seguirono il sentiero polveroso e senza fine, senza
incontrare nessuno. Qualche volta correvano e quando erano stanchi
camminavano. A mezzogiorno mangiarono il cibo che gli aveva dato Deng
e continuarono a camminare. L’oscurità li trovò stanchi e affamati.
Quando si fece notte, il buio sembrava cadere dal cielo a blocchi, rendendo
i loro occhi completamente ciechi. La notte diventava cupa e misteriosamente
silenziosa e gli unici suoni che riuscivano a sentire erano
quelli dei propri passi e bisbigli.
Di lontano, un usignolo emise un canto disperato.
Dove dormirò? Dove andrò a finire?
“Marial”, sussurrò Riek.
“Sì”, rispose Marial.
“Cosa faresti se apparisse un animale che divora gli uomini?”.
Marial trasse un respiro profondo e fissò ciecamente la spessa oscurità
che li circondava. “Combatterei”, disse stringendo il pugno.
“Siamo disarmati”, gli disse Riek. “Credo che dovremmo procurarci dei
bastoni per difenderci”.
“Sì”, acconsentì Marial mentre con un piede schiacciava un ramoscello
secco. Alle loro spalle una civetta chiurlò nel silenzio della notte. Entrambi
rabbrividirono per il freddo e batterono i denti. Marial ricordò
qualcosa che aveva spesso sentito dire riguardo alle civette. “Dicono che
la civetta è di cattivo augurio”, disse piano quasi tra sé.
“E tu ci credi?”, chiese l’altro ragazzo.
“Mio padre e mia madre ci credono e in un certo senso anche io”, rispose
Marial, “anche se qualche volta mi fa pena quell’uccello; non sta
mai con gli altri, vive da solo”.
“Forse fa quel verso perché è triste”, cercò di spiegare Riek. “Si sente
solo”.
Quando la luna iniziò a far capolino tra le nubi scure sopra di loro,
la civetta emise un altro grido. Poi, un’ombra si mosse rapidamente
davanti a loro ed entrambi rimasero fermi, congelati sul posto, con il
cuore che batteva all’impazzata. Si sentivano le gambe intorpidite e
un brivido percorse la schiena a entrambi.
“Non correre”, raccomandò Marial tenendo stretto il suo bastone.
“E’ un’antilope, l’ho vista”, disse Riek.
“Zitto”. Marial indicò qualcosa che si muoveva tra i cespugli, verso
il sentiero.
Un leopardo apparve tra gli arbusti: li fissò per un istante, ruggì un pò e
corse ad inseguire la sua preda. I ragazzi fecero un sospiro di sollievo.
“Credo che la civetta parlasse del pericolo in cui ci trovavamo”, sussurrò
Riek.
“E’ probabile”, rispose l’amico. “Abbiamo bisogno di riposare un pò”.
Si sedettero al bordo del sentiero, bevvero un pò d’acqua e si appisolarono.
All’alba si rimisero in viaggio. Sembrava lungo e si chiesero perché Deng
avesse detto che avrebbero impiegato un giorno. Marial pensò che lo
avesse fatto per non farli scoraggiare. Al sorgere del sole sentirono il
rumore di acqua che scorreva: Marial si fermò e si mise in ascolto.
“Deve essere il Nilo!”, esclamò.
“Allora ci siamo quasi. Guarda!”. Riek indicò in direzione del suono e
camminò a passo svelto, verso il fiume scintillante.
Una spessa nebbia mattutina saliva dal corso d’acqua quando raggiunsero
la riva del fiume. Non c’era modo di attraversare l’ampio fiume perché
il ponte era stato fatto saltare.
“Che facciamo?”, chiese Riek.
Marial si sforzò di riflettere. Guardò fisso il fiume, con la mente intrappolata
in una ragnatela di pensieri. Finalmente le idee gli si fecero
più chiare e si avviò lungo la riva; Riek lo seguiva da vicino. Camminarono
verso Sud, sfiorando con le gambe i cespugli ricoperti di rugiada.
Ogni volta che intravedevano una barca di militari, sgattaiolavano
nei cespugli e rimanevano nascosti finché non spariva. Il pensiero di essere
di nuovo costretti a diventare bambini soldato li tormentava. A mezzogiorno
si riposarono. Marial si accovacciò sui talloni e Riek si lasciò
andare accanto a lui; entrambi tenevano gli occhi rivolti alla calma superficie
del corso d’acqua. Doveva essere trascorso molto tempo prima
che alzassero lo sguardo dall’acqua perché, quando guardarono in alto,
videro una barca bianca con una croce rossa sulla fiancata che navigava
lungo la riva del fiume. Tutti e due la guardarono con stupore.
“Operatori umanitari?”, esclamò Marial.
“Certo”, rispose Riek.
Il volto di Marial si illuminò di gioia. “Finalmente un aiuto. Questo deve
essere il nostro giorno da ricordare”, disse pieno di speranza. “Chiamiamo
aiuto”. Gli operatori umanitari sentirono le loro grida e li soc-
corsero, poi li portarono in un campo profughi dove incontrarono i loro
familiari. Stavano tutti bene, anche se la mamma di Marial era stata
ferita ad una gamba dalla scheggia di una bomba e la piccola Achier aveva
una ferita superficiale al ginocchio. Suo padre stava bene e non vedeva
l’ora di rivederli.
Quella sera, quando la luna sorse, sembrava una grande bacca gialla e
matura e, mentre Achier e gli altri bambini più piccoli giocavano sotto
la sua luce, Marial e Riek chiacchieravano davanti ad una tenda con uno
degli operatori con cui avevano fatto amicizia.
“Qual è il vostro desiderio più grande?”, chiese l’operatore.
“Sogno spesso la pace. Quando c’è pace si può andare a scuola e imparare
invece di combattere”, disse Riek dopo una breve riflessione.
“E tu?”, l’uomo si rivolse a Marial.
“Vorrei risanare il mondo e farlo diventare un luogo migliore in cui tutti
possano vivere; un mondo pieno di pace”.
“Benissimo. Pensate come se foste adulti”.
“Lo siamo, non è vero Riek?”. Marial rise con orgoglio.
“Ci dicevano che eravamo grandi e dovevamo saper maneggiare le
armi”.
“Non è vero”, l’uomo scosse la testa.
“Loro ce lo hanno fatto credere”, disse Riek.
Marial ridacchiò e chinò la testa. Poi, ciascun ragazzo raggiunse la propria
famiglia.
Dopo le numerose notti trascorse nelle savana piene di ansia e di punture
di insetti, i due ragazzi riuscirono a dormire tranquillamente. La mattina
seguente, Marial stava in piedi davanti alla tenda, contento di essere
con la sua famiglia, quando vide un uomo che veniva verso di lui.
E quando fu costretto a guardarlo più da vicino la sua gioia svanì, frantumandosi
alla vista di un soldato, alto e nero come l’ebano, con un’arma
in mano. La vista delle armi gli faceva ancora ricordare la guerra
che aveva visto e sofferto; la guerra che lui sperava avrebbe avuto fine
in un giorno luminoso.
“Vieni qui”, disse il soldato in modo piuttosto severo.
Marial obbedì e gli si avvicinò in fretta fendendo l’aria tra le gambe.
“Domani ti unirai agli altri ragazzi”, gli disse.
Il volto del ragazzo si incupì e lui si girò verso sua madre e sua sorella.
Di nuovo bambino soldato? Si chiese e scosse la testa spaventato
e confuso.
“Ma… signore…”, balbettò, “io non voglio essere di nuovo un bambino
soldato”.
“Non sarai un bambino soldato contro la tua volontà; andrai a scuola;
dovresti essere in classe”.
Gli occhi di Marial scintillarono e si riempirono di lacrime di gioia:
aveva sperato in un momento come quello. Si voltò verso la madre e
la sorella e vide che gli sorridevano, le loro ferite evidentemente guarite.
Rispose al loro sorriso, prima debolmente, poi con serenità. Sapeva
che una parte del suo desiderio era stato esaudita.