Le carceri ai tempi della democrazia
L’amministrazione penitenziaria ha presentato nei giorni scorsi unProgetto di Circuiti Regionali al fine di ridimensionare i danni umani prodotti dal sovraffollamento. L’intenzione è quella di differenziare l’esito detentivo delle persone a seconda del loro grado di pericolosità presunta e della tipologia di reato commesso. Oggi la pena detentiva viene interpretata nella maggior parte degli istituti in giro per il Paese come condanna a stare chiuso in cella per 20-22 ore al giorno. Con il Progetto si vorrebbero notevolmente aumentare invece le ipotesi di carcere aperto, ovvero di carcere nel quale i detenuti possono girare per il reparto liberamente, senza essere seguiti in ogni spostamento da un poliziotto penitenziario.
Oggi se un detenuto deve andare in infermeria, a colloquio con un avvocato, a scuola, nella cella accanto a giocare a carte è accompagnato da un agente. E siccome la vulgata dice che gli agenti sono pochi le celle restano chiuse. E i detenuti così sono costretti a vivere giorno e notte ammassati a non fare nulla. Giusta quindi l’ipotesi di lavoro dell’amministrazione penitenziaria che vuole trasformare la sicurezza interna alle carceri da statica a dinamica.
Una metafora calcistica spiega bene la riforma, ovvero si tratterebbe di passare da una asfissiante marcatura a uomo a una moderna marcatura a zona. La pena così tornerebbe a consistere nella detenzione in carcere e non nella detenzione in cella. Il detenuto deve essere responsabilizzato a gestire gli spazi comuni. Non deve essere trattato come un bambino scemo o come un matto pericoloso di cui non fidarsi mai e quindi da tenere chiuso a chiave come si faceva un paio di secoli fa.
In Norvegia metà dei detenuti sono in regime aperto. Per far funzionare un progetto di questo tipo è necessario fronteggiare e ridimensionare il ruolo di talune organizzazioni sindacali autonome di polizia penitenziaria che hanno una idea di gestione della pena ottocentesca. Bisogna anche avere il coraggio di dire che non è vero che i poliziotti penitenziari mancano. I dati più recenti ci dicono che vi è una carenza di dirigenti del 22%, tant’è che in molte carceri non vi è il direttore con tutto ciò che ne consegue in termini di potere assoluto della Polizia nella gestione (e sui direttori pende la mannaia della spending review con la possibilità che il 20% ulteriore sia pre-pensionato).
Vi è inoltre una carenza del 27% di educatori e del 35% di assistenti sociali. Mentre per quanto riguarda i poliziotti penitenziari la carenza è inferiore al 9% e sarebbe ben risolvibile trasformandoli da stopper alla Brio a terzini fluidificanti alla Cabrini. Un decimo dei poliziotti non è impegnato in carcere ma lavora in uffici vari. Basta affacciarsi in Via Arenula per vederne una bella quantità a fare da portinai. Vale per la Polizia Penitenziaria quanto sentenziato dalla Corte dei Conti le cui osservazioni riporto testualmente:“Prescindendo da qualunque considerazione di legittimità dei singoli provvedimenti di comando e distacco, è ovvio dubitare che risponda a criteri di efficienza, efficacia ed economicità la sottrazione dai compiti da svolgere negli istituti penitenziari di un così elevato numero di appartenenti al Corpo”.
A ciò si aggiunga che l’Italia, nonostante la segnalata carenza, resta tra i paesi con il più basso tasso numerico di detenuti per ogni agente di polizia. Marcatura a uomo, per l’appunto. Mentre noi abbiamo circa 1,8 detenuti per poliziotto, in Francia ne hanno 2,5, in Germania 2,6, in Spagna 4,2 ed in Inghilterra e Galles 2,6. Giusto per dare un termine di paragone, il numero di stranieri detenuti per ogni mediatore culturale è ad oggi 74.