I racconti del Premio letterario Energheia

Le dita_Marisa Scandiffio, Pomarico(MT)

_Racconto vincitore edizione Premio Energheia_1998.

… Je vous détache ces quelques hideux

feuillets de mon carnet de damné…

(… ‘Per te’ stacco questi pochi orribili

foglietti dal mio taccuino di dannato…)

Rimbaud

Une saison en enfer

 

Anno lunare milletrecentonovanta (1970). La mia famiglia era un cerchio compatto di corpi seduti sul tappeto di lana, orientati verso la Mecca, all’ombra di un tronco saldo: il padre, la madre, Karim il fratello maggiore, Amazigh, mia sorella Noor ed io. Il padre: il nostro tempo scorreva nella clessidra delle sue palpebre, lentamente andava riempiendosi attraverso le sue parole, si capovolgeva svuotandosi. Un giorno prima dell’alba, il muezzin del villaggio annunciava la preghiera dal minareto. Sentivo un’incrinatura nella voce del padre durante la preghiera, i passi rapidi della madre tradivano la sua agitazione, dal cesto sul quale aveva disposto l’ultimo frutto, rotolavano giù tutti gli altri, distruggendo la fragile architettura dei nostri desideri. Noor, che mi dormiva accanto, pronunciò una parola incomprensibile, si rigirò nel sonno inquieto, stava dormendo.

Il giorno precedente, il padre era stato ad Algeri, per motivi a noi ignoti ed aveva acquistato delle mele. Al suo ritorno avevo notato una ruga sulla fronte farsi profonda, l’avevo scambiata per stanchezza. La tensione in casa risvegliava quella sensazione, il mio pensiero correva a quella ruga. Doveva essere un giorno decisivo per tutti, lo sentivo. Al mattino ci radunammo sul tappeto, ciascuno seduto al proprio posto. Il padre alzava le mani ed iniziava a recitare la Samadiyya, noi fratelli ci guardavamo l’un l’altro con sguardo interrogativo, avremmo dovuto recitare la Fatiha, come ogni mattina. Noor alzò lo sguardo verso il padre ed io le strinsi la mano, affinché l’abbassasse. Notai la ruga imperterrita sulla sua fronte, non lasciava presagire nulla di buono: tacque a lungo. Il cuore batteva forte, Noor si muoveva in continuazione ed io le stringevo il polso fino a farle male, gridò attirando per qualche istante l’attenzione del padre, che redarguì me, subito si rinserrò in quel silenzio austero. Con la coda dell’occhio lo osservavo. La grana di canapa della sua pelle scura risplendeva come sabbia bagnata nei fasci di luce attraverso le inferriate della finestra, il sudore scorreva dalle sue tempie, lungo le borse sotto gli occhi, seccandosi nella folta barba. Aveva odore di grano cotto, indossava una veste chiara che lasciava intravedere soltanto due mani come radici, i piedi nei sandali sembravano alberi spogli. Il padre ci guardava uno per uno, rivolgendosi al fratello maggiore disse: nei primi del mese di safar lasceremo la casa, andremo ad Algeri, vostra madre vi dirà quello che dovrete fare, bevve tè di foglie verdi e uscì. La madre disse che se fossimo restati nella zona berbera non avremmo potuto studiare, il padre si era dato un gran da fare negli ultimi tempi, aveva trovato un impiego presso un ebreo ad Algeri. Avremmo acquistato una casa, in casbah, dove si trovavano ancora alloggi a basso costo. Il padre e la madre che non avevano frequentato nessuna scuola, fondavano la nostra educazione su tre principi o doveri sacri: la conoscenza, la moderazione, l’amicizia. Per ognuno di essi il padre serbava una frase: ‘il povero è l’uomo che non ha niente nella testa’, ‘poco ma sufficiente è meglio che abbondante e seducente’, ‘una pietra data da un amico è una mela’. La sua conversazione era un regolare susseguirsi di mele di saggezza e sure coraniche. Ad un uomo che gli aveva chiesto consiglio, disse ‘una donna, per tenerla, non devi raccontarle tutto’, mi era sembrata una sura fuori sincrono, in seguito ho compreso.

L’imam della moschea aveva parlato della casbah, come di un intrico di vicoli ripidi e stretti, di passaggi coperti e di cunicoli. La casbah era un ventre sulle interiora della città di Algeri, ci aspettava una vita difficile in un posto buio pieno di insidie. Il padre diceva ‘una palma di datteri dolci guarda i colori del cielo, non conta i granelli di sabbia’: una palma cresce rigogliosa nel deserto; con lui tutto diventava semplice, ci infondeva sicurezza e serenità. Fino al giorno in cui è apparso Rabah con la sua bocca oscena, una ferita nella mia famiglia, un’edera sul tronco a succhiarne piano la linfa. Noor sarebbe forse diventato quell’ultimo frutto, saremmo rotolati giù distruggendo la nostra fragile architettura. Noor era talmente diversa da noi. Una volta trasferiti, era diventata una figlia della casbah, vagando con indosso un lungo camicione grigio azzurro, un fazzoletto bianco in testa, sotto niente. La sua voce era lenta e agonizzante, trasudava una sensualità di fiori pestati; nessuno si azzardava a toccarla. Quando le chiedevo perché portasse quel fazzoletto in testa dal momento che era capace di guardare, gli uomini, dritto negli occhi, lei rispondeva che le dava fiducia perché rappresentava il Corano, la tradizione. Era una hafiz: 6236 versetti mandati giù a memoria, con orgoglio. Non trascurava mai le preghiere. La ricordo ritta col suo naso largo, muoversi con fierezza in questa terra di sangue e di polvere, in preda ad una spiritualità follemente terrena. Il padre diceva che lei era l’incarnazione dell’essenza berbera: la contraddizione. Aveva conosciuto Rabah, durante gli studi, prima di laurearsi in scienze islamiche.

Anno lunare millequattrocento. Avevo immaginato un ventre rugoso di vecchia, dall’odore nauseabondo di carne sfatta, invece, soltanto polvere e pietra calda. In casbah c’era un diverso equilibrio tra razionalità e sentimento, e la religione era assunta ad ago di bilancia. Tutto era portato all’estremo, strozzato come un tono acuto del ney, come il verso dei gabbiani proveniente dalla baia d’Algeri, dagli innumerevoli gradini che dal mercato portano sulla collina. La “sensibilità come sovrastruttura della brutalità”: Luc trovava una formula per ogni fatto della vita. Non si sentiva completamente francese, era figlio di un pied noir, trasferito a Parigi; guardava gli eventi con distacco. Privato di una patria, di un centro vitale, di una tana, di un territorio delimitato da difendere, lottava contro tutto ciò che di ingiusto gli gironzolava attorno, cambiando continuamente posizione, imprendibile. Di lui amavo la tenacia degli abbracci che mi strappavano al resto, mi sentivo afferrata per i capelli. Parafrasando un proverbio francese diceva ‘plus je vis d’etrangers, plus j’hais ma patrie’. Nei fatti, non si capiva quali fossero gli stranieri e quale la sua patria, i colonizzatori e le colonie. Quando ripenso alla vita della mia famiglia in casbah, la mente torna a due storie di madri che l’hanno profondamente segnata. Non potrei descrivere meglio la casbah se non raccontandole.

Morad, coetaneo di Karim, è figlio unico di umili coniugi osservanti. Dopo la scuola secondaria abbandona gli studi per lavorare presso un barbiere. Accumulata una modesta somma di denaro, Morad apre un negozio per conto proprio. Perde la testa per una donna del quartiere, Amina, dalla quale è corrisposto. Suo malgrado, la famiglia le impone di sposare un altro uomo. Questo matrimonio gli sconvolge l’esistenza. Comincia a trascurare il lavoro, ad essere scontroso con i clienti. Gli affari vanno peggio e comincia a bere. Mentre la madre cerca amorosamente di ricondurlo a se stesso, il padre diventa sempre più severo. Dopo numerosi avvertimenti, il padre giunge ad una conclusione. Se lo avesse visto con i suoi occhi ancora una volta ubriaco, lo avrebbe cacciato di casa. Una sera Morad torna a casa urlando, completamente fuori di testa, dopo aver litigato con il marito di Amina, sveglia tutto il vicinato. Suo padre, fedele alla promessa, lo caccia di casa. Lui raccoglie le sue cose e si allontana solo come un cane, abbaiando bestemmie, promette di non tornare mai più e maledice il padre e la madre. Cammina senza voltarsi indietro. Mentre cammina ancora ubriaco, sente qualcuno afferrargli la spalla e per il timore, estrae un coltello e taglia due dita di quella mano. Quando si volta scopre che si tratta di sua madre che piangendo, con le dita insanguinate, continua a tenerlo stretto, supplicandolo di tornare.

In una famiglia musulmana, uno dei fratelli, Abdelhak, giunto all’età di ventisei anni senza aver trovato un lavoro, non senza aver compiuto innumerevoli sforzi, decide, contro ogni suo principio di fare domanda nell’esercito, con l’intenzione di lavorare per il governo. Inaspettatamente la domanda viene accettata, ottiene l’impiego. Uno dei fratelli minori, Tarek, milita segretamente in un gruppo di integralisti che disapprovavano palesemente la condotta di Abdelhak. Quest’ultimo non si identifica con la logica del governo, in verità non riesce ad intuirla, talvolta riceve ordine di non intervenire nei massacri degli integralisti, talaltra ordine contrario, tra dialoguistes ed eradicateur non capisce da che parte stare. Il governo annulla la sua identità. Abdelhak vive in caserma, torna a casa di rado ed è consapevole dei rischi che corre nel farlo. Una sera non resiste al desiderio di parlare con la madre e il padre e va a casa, Tarek non lo degna di uno sguardo. Dopo cena si ritira in camera per cambiarsi, con l’intento di trascorrervi la notte. Suo fratello, spinto dalle ripetute intimidazioni degli attivisti del suo gruppo o fronte, si introduce furtivamente nella camera e, afferrata la pistola, spara un colpo sulla tempia di quel corpo completamente nudo. La madre, accorre subito e vede un figlio riverso sul pavimento con il sangue che sgorga dalla testa e l’altro figlio scappare in preda al panico. Nota la pistola; in stato di shock, la impugna e spara all’altro alle spalle. La storia dell’Algeria è sui volti delle madri.

Anno lunare millequattrocentoundici. Un pomeriggio avevo sorpreso Noor a leggere un libro, in stato di commozione, e le avevo chiesto chi glielo avesse prestato, doveva significare molto. Lei aveva un rapporto carnale con la carta: ‘guardo distrattamente intorno, comincio a selezionare un percorso olfattivo, da un angolo riposto dello scaffale, un libro emana la sua aura. Mi pulsano le tempie. I succhi gastrici, la bocca piena di saliva. Le pupille si dilatano. La mente si lubrifica. Voglio sentirlo scorrere dentro, lo voglio possedere!’ Agli uomini che amava consacrava le proprie letture. Sin da piccola a chiunque le avesse chiesto cosa avrebbe voluto fare da grande, aveva sempre risposto ‘sarò una warraqin’. I warraqin, sono coloro che maneggiano la carta. Quel pomeriggio cominciò a descrivere un uomo che le aveva parlato del Medio Oriente, con le mani grandi e le dita sottili, le aveva mostrato il palmo della mano sinistra e, sfiorando con l’indice della mano destra, aveva percorso il monte di Venere fino al monte di Apollo, indicandole “la mezza luna fertile”.

Avevo saputo al giornale di una nuova setta islamica, i Ghadibun al Allah ‘coloro che sono in collera con Dio’, musulmani arrabbiati perché Allah non aveva dato loro il potere, i seguaci si tagliavano l’indice della mano destra. Quel racconto mi aveva allarmata, quel gesto, l’indice, quel simbolo e l’ascendente che sembrava avere su Noor. I democratici laici sostenevano che dopo l’indipendenza erano state costruite pochissime scuole, per contro erano sorte numerose moschee. L’istruzione era stata delegata agli imam. Nelle scuole la storia dell’Algeria era stata trascurata a vantaggio della storia del Medio Oriente. D’altra parte, per quanto potesse sembrare contraddittorio alla luce degli eventi che seguirono, all’epoca del partito unico, il Fln laico e nazionalista aveva sostenuto l’Islam algerino, profondamente radicato nel popolo, accogliendone persino una fazione. Con Bebjedid si era avuta una politica di arabizzazione in cui erano confluiti Islam e nazionalismo. Erano stati importati numerosi insegnanti arabi, divulgatori del Corano, i quali avevano inculcato l’odio nei confronti dei non musulmani. Questo prima della rivolta giovanile dell’ ‘88, in concomitanza con la crisi dell’ideologia socialista. S’era dato inizio ad un’operazione di rassodamento e fertilizzazione della terra culturale, operazione che l’indomani della fine del monopolio dell’informazione, alle libere elezioni amministrative del ‘90, avrebbe reso più del 50% dei voti agli islamici contro circa il 30% del Fln.

Noor continuava, con lo sguardo laterale a sinistra, quando guardava al passato: ‘ha occhi grandi, verdi, fermi, le ciglia folte. La bocca grande, le labbra increspate attorno ad una fessura non orizzontale ma tonda: un orifizio, dal quale sembrava volessero uscire con veemenza tutte le parole e verso il quale le mie parole e quelle di chiunque gli parlasse, sembravano essere attratte vertiginosamente, incontrollabili’. Avevo immaginato una persona carismatica con l’ugola rapida, al posto della bocca un gorgo osceno, inarrestabile sotto occhi pericolosamente fermi. ‘Poi ha parlato dell’incendio della biblioteca di Bagdad, la più grande perdita che la cultura araba abbia mai subito, volumi e volumi di carta, secoli e secoli di conoscenza rasi al suolo e in seguito, per quattrocento anni, per mano dell’impero ottomano, un popolo tenuto stretto nel pugno dell’ignoranza: il divieto dell’istruzione; istruirsi era un reato. Mostruoso, un’identità cancellata. Maometto diceva ‘va’ alla ricerca della conoscenza fosse anche in Cina’; ‘la società musulmana può essere giusta solo quando è fondata sulla conoscenza’.

La lasciavo parlare senza interrompere, ascoltavo inorridita e sorpresa. Di tanto in tanto si fermava, mi guardava, mi toglieva lo sguardo e ricominciava: ‘ero emozionata: ha detto ‘bevi’, mi sono accorta di reggere nella mano un bicchiere d’acqua, ho chiesto scusa. Non facevo che ripetere scusa e grazie. Eravamo seduti uno di fronte all’altro, lui con le gambe incrociate, con la mano sinistra sotto il braccio destro, questo lungo il corpo. La sua postura contrastava la voce sorridente. Sostiene che non esiste il ‘terrorismo islamico’ come dice Luc, è un termine coniato dall’occidente, esiste un terrorismo e basta; anche il termine ‘guerra santa’ è un termine coniato dall’occidente; il concetto di gihad è terribilmente frainteso, è visto come aggressione ed espansione territoriale, senza tener conto delle regole islamiche dell’impegno bellico: gli individui inoffensivi che non oppongono resistenza, le donne, i bambini, i civili inermi non possono essere colpiti’. Sono termini demonizzanti. Bisogna guardare alla regia, non agli avvenimenti, alla matrice delle agenzie di stampa. Quello che infervora l’occidente è un residuo dell’orientalismo anacronistico, risalente alle crociate, sviluppato per inculcare l’odio nei confronti dell’Islam, canalizzato entro canoni di subdola obiettività: Maometto riconosciuto nel Vangelo di Daniele come l’anticristo… Ma, in occidente non è riportato che per gli arabi, più evoluti culturalmente, i barbari erano i crociati stessi, descritti come straccioni. C’è una storiografia differente. Autorevoli pensatori occidentali hanno plagiato opere arabe attribuendosi meriti e scoperte, nell’età dell’oro dell’Islam’.

Sentivo scorrere l’autorità che Luc ed io avevamo pazientemente conquistato in Noor. Il padre mi aveva insegnato che ‘rispettare l’autorità è voler conservare l’unione’. Non era per quello che diceva, era la foga allucinatoria, la descrizione puntuale. Il suo punto di vista era quello di una credente che sente di dover difendere la propria identità, in quanto vittima di una cronaca faziosa, tesa ad alimentare la confusione. Il punto di vista di Noor era che, è pur vero che il concetto di democrazia nell’ Islam non esiste così come è concepito in occidente, ma esiste una ‘base della democrazia’. Io, Luc e Noor avevamo discusso a lungo sull’argomento. Noor aveva citato il Corano, secondo cui tutto appartiene a Dio, nessuno ha diritto esclusivo su alcunché, l’Islam presuppone la libertà totale degli esseri umani: la libertà di agire secondo la Shari’ha o di non agire secondo essa. La stessa Shari’ha non è una legge bensì un insieme di regole, la Shari’ha è eterna ma la legge islamica si evolve. Inoltre per i musulmani tutte le religioni contengono un fondo di verità, l’Islam non pretende di essere l’unica religione. Lei faceva parte del partito islamico moderato, io del partito berbero.

Noor, mentre parlava, teneva stretto il libro tra i palmi delle mani aperte, le chiesi di darmelo. Guardai il nome dell’autore: uno scrittore del Cairo, premio Nobel per la letteratura. Mi disse, ‘ho capito una cosa di lui: quando presta qualcosa, fosse anche la sua attenzione, trattiene qualcos’altro in ostaggio’. Volevo ammonirla, più che altro punire quel circuito chiuso dal quale sentivo esclusi: me e Luc. Le dissi una frase che lui ripeteva spesso a nostra figlia, da un libro di un’ebrea olandese deportata ad Auschwitz: “NON BISOGNA LASCIARSI GUIDARE DA QUELLO CHE SI AVVICINA DA FUORI, MA DA QUELLO CHE SI INNALZA DENTRO” ‘ricordalo’, aggiunsi. Quella frase,decontestualizzata, poteva rappresentare la mia filosofia di vita, ma in quel momento non avrei dovuto usarla. Dopo averla pronunciata mi resi conto di quanto certificasse la miseria del mio timore di perderla, tutta la smania nel mio modo d’amare, d’un amore che implica possesso, che implica la castrazione della conoscenza, che implica il controllo, che implica il disamore. Un ciclo spezzato. Era lo stesso errore che stavo commettendo con mia figlia. Lo stesso errore che avevo commesso quando avevo stretto la mano di Noor, fino a farla gridare. ‘Non ti fidi di me’, disse lei ‘correrai a dirglielo a Luc? Devi tenerlo fuori da questa storia’. Nella voce un’ansia controllata aveva preso il sopravvento, mi sentivo catapultata fuori dalla sua vita. La verità era che quel gesto dell’indice l’aveva suggestionata a tal punto da rappresentare il nucleo, l’origine della sua passione per quell’uomo. Quell’uomo era Rabah.

Anno lunare millequattrocentotredici. Luc affermava che l’innamoramento in oriente precede la conoscenza, in occidente invece avviene il contrario. In occidente si dice ‘ti sei innamorato, ma se neanche la conosci!’. Ho visto uomini qui farsi ammazzare per donne che avevano visto una volta sola, ma giuravano di amarle. Prendendo in prestito le parole di Barthes diceva che prodigarsi per un soggetto impenetrabile non è amore, è religione. Amazigh aveva trascorso due anni in Italia, si era innamorato di una donna il cui nome, in berbero, potrebbe essere tradotto con inferno verde. Alla domanda di Luc, di parlargli della differenza tra la donna algerina e quella italiana, rispondeva : ‘è una questione di entropia’. Poi spiegava: una donna italiana ti guarda negli occhi; i suoi gesti sono rapidi; l’anima è un solido, è netta, mentre l’anima della donna algerina è fluida, scontornata, si dilata adagiandosi nello spazio, popolando il mondo delle sensazioni prima di intaccare il mondo dei significati. Per conto mio, avevo ereditato dal padre una ragionata diffidenza nei confronti delle altre donne: ‘ho cercato tra mille uomini, ne ho trovato uno soltanto. Ho cercato tra mille donne, non ho trovato nessuna’. Noor riferiva tutto a Rabah. Per lui era il mistero, l’inconoscibile a rendere la donna algerina fluida agli occhi di Amazigh. Aggiungeva ‘allora la donna di Kabul è un gas? Ancora più rarefatta, completamente coperta, insondabile oltre la rete sugli occhi. Dunque è per questo che fa tanta paura da sfigurarla con l’acido. Non esistono donne orientali o donne occidentali, la donna è donna e basta! Ovunque!’. La sensibilità femminile è percepibile oltre i corpi. Rabah aveva prestato a Noor un libro di un autore egiziano. Narrava di un detenuto che riesce a comunicare con la persona della cella attigua, usando un singolare codice: semplicemente battendo le mani sulla parete. Per anni, attraverso il muro discute, s’innamora, litiga fino al giorno in cui l’altro scompare. Una volta rilasciato, si informa sull’identità della persona amata, scopre che è stata giustiziata e soprattutto, con suo grande sconcerto, che si trattava di un uomo e non di una donna, come aveva ritenuto. Le estenuanti discussioni in famiglia ci rendevano una pienezza che faceva da contrappeso al vuoto di fuori. Accadeva questo: più gli eventi si facevano concreti, pulsanti, caldi e battevano sui muri, più i discorsi diventavano astratti, mediati. Eravamo simulacri dei nostri corpi. Nelle mura di casa c’erano i colori del cielo. Appena fuori la coscienza si risvegliava, insabbiata nel terrore che toglie il sonno, nella diffidenza, nei volti precocemente invecchiati di questi uomini con la pelle indurita, in siepi di mani tese. Percorrendo rue Didouche Mourad, sulla quale era vietata la sosta dopo le numerose autobombe, si percepiva l’immobilità dei rettili nelle crepe dei muri, attraverso i vicoli, ovunque occhi. Incombeva una parvenza di normalità, la gente camminava con gli occhi bassi verso la meta. Non c’era più vita sociale. La madre veniva perquisita ogni volta che entrava nel mercato. Nonostante le autorità islamiche avessero vietato alle donne di recarsi ai bagni: gli hammam, lei non aveva smesso di andarci. Gli islamici giustificano questa proibizione dicendo che era pericoloso che le donne vi si incontrassero, perché ciascuna avrebbe potuto descrivere il corpo di un’altra al proprio marito e questo a sua volta ad un altro, seminando discordia tra gli uomini. All’inizio, ogni volta che ritornava, raccontava di donne prima picchiate, poi ripudiate e scacciate di casa: un articolo del codice della famiglia stabiliva che, in caso di divorzio, la casa sarebbe spettata all’uomo. Al giornale avevamo condotto un’onerosa campagna di sensibilizzazione, per abrogarlo. Ma, per anni l’interpretazione delle leggi era stata opportunisticamente antifemminile. Dopo la perdita di una sorella, la madre si era fatta più silenziosa. Nella sua voce un umore di garza umida ci parlava come a una ferita, parlava a se stessa. Noor complicava tutto…

Anno lunare millequattrocentoquattordici. Luc insisteva, voleva incontrare Rabah, doveva esserci una ragione! Trascorrevamo molto tempo al giornale, la redazione clandestina era in uno scantinato del quartiere di Belle Cour, a meno di cento passi da quella che era stata la sede del quotidiano Le soir d’Algerie, distrutta nel ‘96 da un’autobomba. L’organico de L’Action, ormai, si era ridotto a cinque persone. Un caro amico di Luc era riuscito nella difficile impresa di lasciare il paese; dopo aver viaggiato attraverso la Turchia e i Balcani, era giunto a Colonia ed ottenuto asilo. Diceva d’aver dovuto dimostrare una persecuzione sistematica, da parte degli apparati statali. Si sentiva in esilio, chiamava in continuazione, ripeteva che la vita era diventata in bianco e nero. L’anno precedente Luc e due altri attivisti avevano reclutato gente per un’Azione nel quartiere roccaforte degli integralisti, Bab el Oued. La consegna era stata di sabotare le direttive dei capi integralisti, che dettavano leggi dalle due moschee Sunna e Kouba. Uno dei ragazzi era finito nelle mani degli integralisti ed aveva parlato. Non si sapeva cosa avesse rivelato. Dopo due mesi, due uomini armati si erano presentati, in piena notte, a casa di uno degli organizzatori, Ibrahim. I fratelli lo avevano ritrovato qualche giorno dopo, non lontano da casa, con le mani legate e il collo strozzato, piegato in due. Aveva cambiato più volte casa, e loro avevano seguito ogni spostamento, pare frugassero nei cassonetti della spazzatura: Ibrahim era diabetico, si iniettava insulina. Rischiavamo grosso. Luc stava pensando seriamente di andarsene, ma non lo diceva apertamente. Non volevo lasciare il mio paese per una vita in bianco e nero, altrettanto insopportabile. Prendevo tra le mie le mani del padre e sapevo di non potermene andare. Pensavo che gli intellettuali avessero il sacro dovere di rimanere. Mi sentivo quella madre con le dita tagliate che trattiene un figlio incosciente. Non sapevo quanto avrei resistito. Gli intellettuali, tutti, non erano, forse, quella madre con le dita insanguinate? Dovevamo! Stringere quella spalla! Luc continuava a parlare di un incontro con Rabah. Non sfoderava, diceva solo che era stato visto più volte aggirarsi per Bab el Oued. Noor parlava di riforma islamica, di ‘islamizzazione del sapere’, le parole occultavano le cose. Non facevo che leggere e soprattutto scrivere, non si importavano più riviste straniere ma Luc riusciva a farsele mandare da Grenoble. Mi ero interessata ad Amnesty International, eravamo in contatto con un delegato di Londra, era riuscito tramite l’ambasciata a visitare le nostre carceri. Avevo scritto un buon articolo. Nel breve colloquio, mi aveva raccontato di un prigioniero politico uruguayano, tenuto in isolamento, il quale era riuscito a farsi passare di nascosto qualche matita ed aveva scritto ben due romanzi sulle cartine delle sigarette. La memoria era stata la sola cosa sulla quale avesse potuto contare per non impazzire. Aveva detto : “quando ti tolgono la vita, un pezzo di carta diventa la vita stessa”. Nei miei articoli non sapevo più quali nomi dare alle cose. Ogni parola, appena pronunciata, diventava una formula che immobilizzava, cristallizzava l’emozione invece di convogliarla. Allineavamo cadaveri di parole, sempre le stesse: barbarie oscurantista, braccio armato, cittadini inermi, posto di blocco, gendarmi, terroristi, sgozzare, sventrare, massacro, donne e bambini, villaggio, est, ovest, sud d’Algeri, trucidare, bruciare, violentare, Chebli, Blida. Queste parole le sentivo vuote, volevo trovarne altre, diverse, come sassi sulle tempie. Quelle parole erano un microscopio sulla realtà, l’avvicinavano talmente tanto da far vedere solo un mucchio di cellule, cellule in metastasi di un inguaribile cancro. Pensavo continuamente alla mia bambina, figlia della testa di Luc, stava prendendo il posto di Noor. ‘Lei no! Se la toccano’, dicevo, ‘gli infilerò i ferri negli occhi, gli bucherò i timpani, rigirerò un puntello nelle ginocchia, strapperò il cuore e lo mangerò’. Contraddicevo ogni pensiero di civiltà, diventando tutt’uno con quella barbarie. Ma ogni sussulto era come la vibrazione della coda di un serpente, al quale sia stata tagliata la testa, destinato a spegnersi dopo pochi spasimi. La verità era che ci sentivamo impotenti. Nessuna tutela sulla legalità dei criteri di gestione dei dati personali dei cittadini, nelle banche dati, negli istituti di credito, nelle società telefoniche. Mi sentivo controllata, spiata. Vagavamo da un posto all’altro, controllavo persino la spazzatura per non lasciare traccia, ma tornavo spesso a casa. Del tronco saldo, mi sosteneva un ramo di braccio: il padre era la mia forza e insieme la mia debolezza. Luc ci vedeva chiaro, e me ne voleva. Notte e giorno al giornale, s’era fatto ispido, mi toglieva la tenerezza. Più me la toglieva e più io la mendicavo nelle mura di casa, nelle dita del padre, nelle parole della madre, nel suo seno di brodo di pollo, negli sguardi dei fratelli, nei capelli di nostra figlia che stava con loro. Le cose tra noi peggioravano.

Anno lunare millequattrocentodiciotto. Luc adesso esigeva l’incontro con Rabah. Ignoravo cosa avesse in mente e temevo per Noor, evidentemente sbagliavo. La pregai di organizzare l’incontro. Mi fece sapere che sarebbero venuti da noi, la sera successiva alle dieci. Rabah sembrava non avere nulla in contrario. Come era prevedibile, contava sulla sua diplomazia, gli avrebbe senz’altro permesso di destreggiarsi, qualunque fosse stato il tono di Luc. Rabah era l’unico che conoscevamo a cavarsela in ogni circostanza, senza doversi mai schierare. Laureato in architettura navale, parlava, spesso, usando una terminologia matematica, basata su un’idea nevrotica di perfezione. Di mestiere faceva il costruttore di navi: sapeva far trascinare dalla corrente, governando il ghibli dal deserto e lo scirocco dal mare. Era musulmano praticante, pertanto aveva numerosi agganci nel Fis. Nondimeno frequentava assiduamente l’Hamas, l’Rcd, l’ambasciata francese, le caserme dei militari. Lo si incontrava aggirarsi in casbah, a Bab el Oued, tra gli uffici del governo, e muoversi con la naturalezza di un uomo libero in un paese libero. Mai una caduta di tono né un’incrinatura della voce. Un uomo nevroticamente perfetto, ragionevolmente temibile. Pensavo a quello che aveva detto Noor sul prestito e l’ostaggio: ogni volta che Rabah presta… trattiene qualcosa in ostaggio. Mi rendevo conto che il suo gioco, nella rete dei rapporti sociali, non doveva essere a somma zero: non c’era chi vinceva e chi perdeva o chi acquisiva e chi cedeva. Tendeva a creare una parità fittizia e su questa gettava le basi della sua sicurezza. Un do-ut-des tutto occidentale. ‘In occidente’, aveva detto Amazigh, ‘quando doni ti aspetti che ti venga restituito, analogamente quando ricevi senti, forte, il dovere di dare. Lo scambio è contabilizzato immediatamente’. Tra noi musulmani, quando si fa un dono, non ci si aspetta che venga restituito, si è sicuri che Dio lo restituirà, duplicandone il valore, in un tempo indeterminato’. Quando gli si carpiva un’informazione sconveniente, Rabah, affatto sorpreso, pareggiava i conti diluendo nel discorso altre informazioni fuorvianti, per confondere completamente le cose. Il padre lo aveva detto: ‘la bocca, la mano, l’occhio, il pensiero, sono staccati l’uno dall’altro. In quest’uomo la menzogna è come il respiro, il tradimento come lo sputò. L’abitudine di mentire frammentava, dunque, lo spirito di Rabah che, per raggiungere un equilibrio, si vedeva costretto a spostarne di continuo il baricentro, governando faticosamente le corde fissate all’albero maestro d’una barca a vela che ogni giorno sognava di ricostruire, partendo dal principio. Nel suo studio, aveva affisso alla parete, sui lati di una vetrata, due stampe d’epoca, rettangolari. Ciascuna raffigurava le prue, di due galeoni, vicine fino quasi a toccarsi; la velatura fradicia a riflettere le ombre di un sole radente, a confondersi tra i flutti del mare agitato e i cedimenti di un cordame consunto… Noor non era stupida, aveva intuito, ma dal giorno in cui l’aveva visto attenderla sulla soglia di quel sontuoso palazzo l’aveva scelto per sé, così com’era, sfaccettato e sempre incastonato nelle braccia conserte. Ella stessa era divisa, esattamente in due parti, speculari. Naturalmente, in quel continuo evolversi di Rabah, ogni sforzo, mio e di Luc, si rivelava ridicolmente ozioso.

Arrivarono le dieci. Rabah e Noor suonavano alla porta della nostra misera stanza, trovando me e Luc in piedi, con i volti tirati. Mi guardavo intorno, in quel miscuglio di tabacco e di tè mi veniva il capogiro. Troppi oggetti: fornelletto, scaffale, tappeto, due sedie, un tavolino pieno di fogli. Rabah piantò lo sguardo prima su me, poi su Luc che si tolse gli occhiali neri e cominciò a sfregare nervosamente sulle lenti, per pulirle. Sembrava sorpreso: Noor non indossava il suo camicione, ma una gonna lunga ed una maglietta sabbia, la giacca piegata sull’avambraccio. La maglietta le definiva il seno, che risaltava la spregiudicatezza cagnesca del suo naso. Le sue forme che si muovevano in quello spazio ristretto insieme agli effluvi dolciastri mi creavano disagio, confermandomi l’estraneità sopraggiunta tra noi due. Rabah emanava un odore clinico, amarognolo. Indossava una camicia un poco sbottonata e uno zucchetto, entrambi bianchi, su pantaloni chiari di taglio sobrio ad evidenziare le sue gambe sottili, le movenze femminili. Era nostra consuetudine far accomodare gli ospiti sul tappeto, pieno di cuscini colorati. Noor ed io ci eravamo appartate per preparare del tè, tenendo, comunque, gli uomini d’occhio.

La conversazione non sembrava decollare. Tra il serio e il faceto, azzardavo un tema insidioso. Raccontavo di aver beccato nel pomeriggio, con la parabola, una rete televisiva saudita che trasmetteva una riunione del parlamento algerino neo eletto. Pareva che la commissione parlamentare per gli affari sociali si fosse riunita per discutere sul prezzo dei farmaci, per la maggior parte importati dall’estero, con conseguente ricarico dei prezzi. Mi aveva colpito l’assoluta mancanza di urgenza e di zelo con cui si erano alternati gli interventi, non c’era stato dibattito. ‘La verità’ , diceva aggressivamente Luc, ‘è che con gli stipendi da favola che riescono a percepire, hanno un bel rilassarsi in parlamento, stanno tranquilli loro, scorta, agevolazioni e quant’altro’. ‘Guarda se si possono rilassare gli insegnanti’, ribadiva Noor, ‘proprio ieri leggevo che i loro stipendi già da fame sono stati ulteriormente ribassati’. ‘Vogliono tagliargli i viveri, così da dargli abbastanza grattacapi, per non consentirgli di occuparsi di politica interna’. Rabah ascoltava con attenzione infine interveniva, ‘È pur vero, che per svolgere seriamente il lavoro in parlamento, i soldi servono, se poi vogliamo parlamentari con le pezze al culo, per partito preso, perché bisogna per forza sparare a zero su tutti senza distinzione, abbiate pazienza, il discorso cambia…’ Avevo tenuto gli occhi incollati alla sua bocca, il centro nevralgico: con quella modulava la voce ovvero il potere sugli altri. Bastava che la dilatasse per ottenere un suono di voce, dolce e persuasivo, sottilmente rauco; socchiusa emetteva un suono d’una sensualità melanconica, profonda, vibrante, di gola; socchiusa ancora, diventava aspramente virile, quasi un graffio da sporco arabo. Talvolta una parola, o un’azione, cominciava aspra e terminava dolce o viceversa. Tutte le combinazioni possibili ne facevano uno strumento variabilmente diabolico: un vento che entra nelle ossa. Quello che aveva detto mi aveva, letteralmente, disgustata, è sempre meschino parlare di soldi quando se ne possiede. ‘I parlamentari non hanno bisogno di soldi ma di autonomia dai cecchini, sono continuamente sotto tiro!’: dietro il sorriso forzato di Luc intravedevo una tensione crescente, ma né io né lui intendevamo raccogliere quella sfida, così cadde nel silenzio.

Noor non cresceva mai, non riusciva a gestire il tonfo sordo del discorso adulto, si spostava continuamente, metteva le mani e gli occhi ovunque, frugava tra i miei libri sulla mensola, canticchiava. La sua smania di impossessarsi, di tutto ciò su cui riusciva a mettere gli occhi. Aveva preso un fascicolo, lo apriva sedendosi. Chiedeva cosa fosse. Era un estratto di un libro di Renè Girard. Luc intonava una salmodia filosofica, che non avevo nessuna voglia di sorbirmi. Cominciava a parlare delle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’avvento del fondamentalismo. ‘Tanto per cominciare è un sintomo di crisi delle religioni. Avete mai pensato che i fondamentalisti affermano la loro stessa negazione? Appoggiano ciò che dicono detestare, combattono la globalizzazione proponendo una mondializzazione dell’Islam’, leggevo le stesse cose nei suoi articoli cervellotici. Sapevo che, di lì a poco, avrebbe parlato di “meccanismo vittimario”, di “linciaggio fondatore” citando una per una quelle etichette spillate su carcasse di concetti. Non leggeva più libri, soltanto recensioni ed estratti, assimilandone l’esattezza didascalica. Non lo sopportavo, preferivo di gran lunga l’ignoranza saggia del padre a quella pazzia sapiente. Noor sembrava interessata. Rabah diceva ‘Avvento, e su che scala? Non si conosce la dimensione del fenomeno, e ciò che più conta la regia, si parla di terrorismo, di Gia, ma siamo di fronte ad una pletora di fazioni. Controllate da chi? Non si conosce l’equazione che regola i rapporti tra governo e integralismo, s’è creato un tale magma di ideologie, un tale groviglio di interessi… questo a tutti i livelli e dappertutto: i sauditi pagano, gli americani sostengono le operazioni dei talebano afgani, i francesi sono ufficialmente neutrali sia nei confronti del governo che degli integralisti algerini ma probabilmente foraggiano l’uno e gli altri, perché gli fa comodo: è una fortuna che ogni intervento dell’Onu venga considerato un’ingerenza!’. Non credevo alle mie orecchie, il padre diceva ‘non seguire le orecchie, segui il cervello’, effettivamente Rabah parlava senza dire niente, senza prendere posizioni. Ma quello che mi atterriva era di ascoltare da Luc quei vaniloqui. Quello che ci voleva, era una buona dose di sano pragmatismo, era ora, per la stampa, di passare dalla cronaca: la mera elencazione di fatti, alla storia: l’elaborazione dei fatti, la ricerca paziente di cause e strategie. Dall’esperienza che segna, all’esperienza che insegna. Nessuno sembrava interessarsene, tutti parlavano a vanvera. ‘Ho saputo che al giornale…’ Tutti gli occhi si abbattevano improvvisamente su Noor, sottolineando la gaffe. Luc impallidiva, Rabah mi fissava negli occhi, abbassavo lo sguardo. Noor adesso sfregava le dita sull’occhio, e andava di corsa in bagno per togliersi una lente a contatto. ‘Da quanto tempo lo sa?’, chiesi dopo averla seguita, ‘tre mesi’, rispose secca, armeggiando con un’ampolla di vetro soffiato, sotto lo specchio. Quella sua insolenza mi mandava su tutte le furie, le diedi uno schiaffo. Lei sorrise, stringendo l’ampolla fino a romperla, le dita le sanguinavano ma lei continuò a stringere i vetri rotti. La guardavo, curiosa di conoscere le reazioni di un’estranea. Intanto di là qualcuno stava sbattendo la porta. Era Luc. Rabah, impassibile, era rimasto seduto, mi guardava con le braccia conserte, un’espressione di desolazione compiaciuta. Non trovavo nulla da dire, fasciavo la mano di Noor. Luc aveva urlato, andandosene, che avrebbe trascorso la notte fuori. Non restava che accompagnarli alla porta, liberarsene. Si allontanavano tenendosi per mano, li guardavo. Prima di scomparire nel corridoio, Rabah si era voltato, i nostri sguardi si erano trovati senza cercarsi. Lo odiavo, non riuscivo a muovermi da quella soglia.

Mi chiedevo cosa avesse preso in ostaggio questa volta, per prestarmi la sua attenzione a quel modo. Ero agitata. Trascorsi mezz’ora a guardare le parole e le immagini in bianco e nero, il loro potenziale narrativo. Sfogliai l’ultimo numero de L’Action, e cercai tra i fogli la bozza che avevo cominciato nel pomeriggio, c’erano talmente tanti fogli sul tavolo, non riuscivo a trovarla, rinunciai.

Fissavo con sguardo ebete quel mucchio di carta imbrattata e mi sembrava di sentire dei passi nel corridoio avvicinarsi. Luc stava tornando. Bussava alla porta. Non capivo perché stesse bussando. Nella foga aveva forse dimenticato le chiavi. Se fosse stato uno del governo a prelevarmi con le armi! Non mi mossi, la paura cominciò a scavarmi lo stomaco e a seccarmi la bocca. Pensavo a mia figlia. Tornavo con la mente a quel cerchio, compatto sul tappeto della mia infanzia, l’immagine sfuggiva: non riuscivo a ricomporlo, nella mente ancora fotogrammi con file di cadaveri allineati su stoffe colorate in pozze di sangue, testate dei giornali lungo le rotative: vengono nella notte quando il buio rende più vulnerabili… Luc! Lasciarmi sola così, maledizione! Se avessero sfondato la porta? Continuavano a bussare, poi un rumore sotto la porta, un foglio, riconobbi la mia bozza. Cosa poteva significare? Luc? Terrorizzarmi così, era impazzito! Voleva, forse, vendicarsi? Non poteva essere Luc… io non mi ero allontanata da casa… Ma… ‘Che vuoi da me?’ Gli dissi in tono minaccioso, la voce sicura, sentivo già la tensione incomprensibilmente scorrermi dalle tempie, sciogliersi nei fianchi. Aprivo la porta, l’odore amaro, gli occhi imprevedibili e traditori che avevo immaginato; mi guardava senza dire nulla, paralizzandomi. Il sangue alla testa. Di fronte a me, quella bocca, l’abisso incontrollabile di barbarie oscena, palpitante, verso il quale mi sentivo attirata, sospinta, al contempo rassicurata. Una costa a sotto vento. Avrei voluto perdere la memoria, per il tempo necessario a compiere le azioni più irresponsabili, liberando gli istinti più bassi, senza dover fare i conti con la bolla di irrazionalità che già sentivo bruciarmi le viscere. ‘Perché stiamo facendo questo?’.‘Era inevitabile’. I nostri palmi, aderivano, le dita si incrociavano…

Il mattino successivo, mi svegliai sola all’alba, dubitando che fosse realmente accaduto. Il collo e le braccia segnate, erano soltanto un delirio di evidenza, mi disarmavano. Il padre venne a cercarmi, le labbra tremanti ‘i giorni che non ha vissuto, possano aggiungersi ai tuoi’ annunciava la morte di un caro. Intorpidita da quell’emozione torrida della notte, sul corpo raggelato dal risveglio, riuscivo a versare poche lacrime di condensa. Avevano scovato la sede del giornale, facendo saltare l’intero edificio, quella notte stessa. Decine i morti e i feriti. Il padre mi mostrava un foglio, trovato nella buca della posta. ‘Non cercateci, dimenticatemi completamente, meglio sarà ritenermi morta’. Riconobbi la calligrafia di Noor. Frugai tra le parole; non cercate-ci, dimenticate-mi: lei e la sua religione. Notai che il foglio era stato accartocciato tra le dita, poi di nuovo steso. Quella titubanza della nostra warraqin era tutto ciò che rimaneva. Lo scarto esatto della mia vita e della sua, sottratte.