Le scale dimenticate, Lilli Klemetz
Racconto vincitore Premio Energheia Francia 2023
Traduzione a cura di Katia Basile
Primo piano
Da alcuni mesi abita in alto, al settimo piano, fa due conti, ci sono centododici gradini da salire per arrivare alla sua camera, al suo rifugio per scappare dalla gente, per scappare dai confini netti tra il nero e il bianco, scappare dal sudore che cola e dalle mani bollenti. L’indomani li ripercorrerà, forse si unirà persino a loro come una brezza d’estate e darà un tiro alla sua sigaretta. Solo in quell’istante, per quella sera, terminata la giornata di lavoro, i nuovi compiti, che si avvicinano agli sguardi lontani, lei è tutta per sé sotto la luce diffusa, la lampada che rischiara il soffitto non viene riparata da così tanto tempo che si direbbe che la cera delle candele sul tavolo di legno è parte della camera come i mobili Ikea. Adora contemplare le candele scrutando torri di vedetta vischiose e vellutate, lacrime blu e verdi che sgorgano, in quell’istante così fresche e brucianti, poi, come al termine di una radiosa giornata d’estate, un freddo improvviso e liberatorio e un’oscurità eternamente pallida. Sarà seduta, a gambe nude incrociate, sul letto disfatto, le grandi cuffie che coprono ancora le sue orecchie, gli ultimi suoni dell’ultima canzone che si attenuano lentamente.
Secondo piano
Le cuffie che l’accompagnano conservano le tracce di un utilizzo quotidiano, orario; un tempo di un nero cupo, ormai di un griglio slavato come quello di un vecchio cane. Suo padre aveva l’aria di chi aveva vissuto, rassomigliava ad un labrador benevolente che non voleva far del male a nessuno. Così innocente, così solido, senza saperlo, dagli occhi puri marrone chiaro sotto le sopracciglia cespugliose. In passato, si era recato in Spagna con una tenda sul portabagagli della bicicletta e una macchina fotografica con una cinghia rossa avvolta intorno al collo. Le aveva mostrato le foto, ben conservate, delle vaste distese blu del mare e di vasti paesaggi verdi e di rovine dei tempi passati, persone sorridenti e sfocate e pecore che scappavano dietro di loro. Un tempo, erano molto felici insieme, avevano raccolto delle mele insieme, lui ti teneva sulle sue spalle strette. E ti tratteneva nel tuo villaggio, nella tua città, in questo paese davvero troppo umido; ti avvolgeva nel suo charme a tal punto che non osavi guardare verso l’esterno, si elevava sempre nel tuo campo visivo come l’albero di mele si elevava nell’aria, nel frammento di cielo visibile della tua finestra racchiuso in una cornice gialla. Con lui, lei sapeva sempre chi era, la brava ragazza, la musa che veglia, il canto mattutino, fino a quando qualcuno le chiede dove voleva essere. Oggi, lei è lontana da suo padre, lontana da quelle mele rosse e rimbalzanti, sola con le sue candele vive e con un dolore minore.
Terzo piano
Il dolore arriva ad ondate, affidabile come le fasi della luna, ironico, perché lei vive oggi in Via della Luna e non può esimersi dal pensare con un sorriso al cane della sua prima compagna che si chiamava Luna, non ha mai rispecchiato un tale nome, dando continuamente fastidio, eppure così tanto amato. Di tanto in tanto si domanda se questo cane così vivace si comportasse bene, il cane che intravede dalle pose della madre della sua amante perduta, tra foto di fiori e pasti. Ora, tutto è nuovo, ma in realtà niente lo è veramente. In effetti, è già da settimane che si risveglia da sola, senza sue notizie, senza il suo sorriso. Il lutto non arriva ad ondate, va e viene irregolarmente, si attacca alle proprie spalle, appoggiandosi su dei frammenti di ricordi camuffati. Lei non lo sa ancora, eppure ogni qualvolta sale le scale, lascia una minima parte del suo lutto in basso. Da settimane, da mesi, salendo e scendendo i centododici scalini quotidianamente si sente un po’ come una persona rinata, anzi, come se si riconoscesse, forse è la prima volta che si riconosce nei suoi occhi. Pensa alla pioggia davanti alla porta, la sua pelle pallida ancora un po’ umida, pensa all’amore passato, alle loro salite su per le scale mano nella mano, piena di gioia nel ritrovarsi a braccetto lassù in alto; pensa ai suoi capelli ondulati così finemente arricciati dopo ogni pioggia, cadono disordinati sul tuo viso, il tuo sguardo incerto cerca la luce.
Quarto piano
Ogni giorno, quando si trova lì sulle scale, resistendo alla sua delicata condizione, è totalmente presente sotto la luce fioca. La gabbia delle scale stretta, ci si deve fermare sempre su un pianerottolo quando due persone si incrociano sui gradini per lasciar passare uno dei due; come un tempo in Croazia quando affrontavano percorsi polverosi apparentemente abbandonati con la piccola macchina blu che serpeggiava sempre più in alto fermandosi all’ultimo momento in spazi angusti non appena due macchine si incrociavano. Non c’è rete nella gabbia delle scale, malgrado tutto, la sua musica continua a suonare come i suoi polpacci muscolosi continuano a portarla fino al settimo piano, l’ultimo, il piano più alto. Si potrebbe pensare che la gabbia delle scale sia una breve pausa, un luogo silenzioso che si trova solo raramente in città dove il rumore rapido e selvaggio della strada ti accompagna costantemente. Se toglieva gli auricolari, riusciva a sentirlo, il silenzio, unicamente interrotto dal passo ritmato dei suoi stivali di cuoio rincollati con della colla istantanea e dal suo respiro affannoso attraverso le labbra leggermente aperte. Di recente ha cominciato a portare del rossetto, rossetto intenso, grazie al quale si sente più adulta, dice, grazie al quale si sente più audace e più forte, pensa. Trentaquattro battiti di ciglia per arrivare in alto, la piccola mosca che si era smarrita nel suo occhio sinistro, resta. Lei pensa, questa è l’estate per me delle mosche negli occhi e la sensazione di uno strato di leggero sudore in fondo alla schiena.
Quinto piano
Diventa più leggera dopo ogni gradino calpestato, dolcemente cigolante, in legno antico, forse faggio, è così seria, così dolce, percepisce da lontano l’odore della libertà e il pollo del suo vicino. Guardala sotto la luce bianca al neon e chiediti cosa ti spinge del sale marino negli occhi. Ci è voluto molto tempo per comprendere la differenza tra l’essere solo e la solitudine; lei ha dovuto abbandonarsi alla sua solitudine per riscoprire la gioia di essere sola. Tra le sue candele e le piante, il frigo ronzante e il colore beige delle pareti, il colore rosa sulle sue gote, lei prova piacere ad essere sola. Allo stesso tempo c’è un desiderio, una nostalgia per lo più, una nostalgia della compagnia che la spinge e la lascia sognare quando è seduta in tailleur davanti a dei manifesti, accanto a tazze da caffè quasi vuote e ad appunti formulati a metà. Sogna il passato, il futuro, nuvole di temporale velate, ragazzi dai gridi stridenti, le mani piene di succo di mela. E’ possibile che abbia avvertito per una volta la sensazione d’amore, un bisogno soddisfatto di intimità. Scrive delle poesie, ma nessuno può vederle; nei suoi sogni, ciò che vuole, è passare sei ore ad accarezzarsi, poi farsi la doccia nella rugiada del mattino, ma lo ammette raramente. E allo stesso tempo vuole essere sola, vuole assaporare la sua compagnia ed essere leggera e piccola eppure molto forte.
Sesto piano
La salita delle scale la rende sveglia e affaticata, ride e mente. Lo definisce il sentimento di essere in cima al mondo, ciò che cerca di riacciuffarla troppo spesso, riuscendo troppo spesso. Tutto il suo corpo si sente a disagio, si sente falso, si sente troppo piccolo, troppo grande, madido di sudore per il caldo: tutta la sua mente si sente a disagio, si sente contraria alla verità, si sente ingannata, distratta, tormentata. Va e viene come le onde che trasformano l’acqua blu e verde, il corpo catturato dalle pulsazioni; va e viene come i semafori nelle strade sconosciute che passano dal verde al rosso, dal rosso al giallo, la mente catturata dai passi imposti. In estate, vuole uscire dalla città e guidare una macchina abbastanza grande per dormirci, per attraversare dei campi, delle praterie, dei villaggi, bagnarsi nei laghi abbandonati e svegliarsi con il sorgere del sole. Vuole girare ogni giorno per la campagna, sentire i suoi polpacci diventare sempre più forti e i suoi avambracci sempre più abbronzati. Certamente, l’imbarazzo, l’indisposizione resterebbero fedeli come un cane, eppure si avrebbe lo spazio per lasciarsi andare alla deriva, come su un vasto lago.
Settimo piano
Attende, senza indugio, è l’ultima tappa, l’ultimo stiramento di muscoli, è quasi in punta di piedi, così vicina alle beate nuvole che pressano perché è in procinto di raggiungere un nuovo pianerottolo, la speranza deve bastare. Nessuna certezza può bastarle, nessuna luce può spingerla. Ci sono delle cose, nessuno lo sa, che si possono vedere soltanto da soli, senza l’aiuto di uno sguardo seppure gentile.
Come in un sogno, la si vede là in piedi , laggiù nella luce abbagliante del sole. Riflessa sulla sabbia fine, così chiara, così acre, tutto ciò abbaglia i suoi occhi, dolcezza e sollievo fluttuano nell’aria fresca. Così, rimane lì in piedi, le mani nelle tasche, lo sguardo fisso sulla distesa blu, distesa blu e viva, incessantemente reinventata con giochi d’acqua schiumosi e frangenti, bellezza solo per lei stessa e per un così breve istante. Sembra che la bellezza non esista che per lei, vivere e morire senza saperlo, senza poterla cogliere. Un tempo, i suoi passi erranti avrebbero seguito le linee dell’acqua, le sue impronte avrebbero lasciato delle tracce umide nella sabbia bagnata; impercettibilmente cancellate per poi scomparire per sempre. Ma ora, lei è semplicemente là, l’orlo setoso le accarezza la gamba e osserva e ascolta; sente il cane che abbaia e l’onda che si avvicina, vede le nuvole sfilare come delle attrici, una boa perduta affondata lontano, lontano in un passato remoto. Sente il suo cuore, vede le costole sollevarsi e abbassarsi, la parete addominale muoversi e non pensa al suo primo amore, alla prima volta in cui lunghe braccia l’hanno avvolta alle spalle e mani delicate si sono posate sul suo ventre sotto il suo pullover a tinta unita. Pensa ai gradini, al suo respiro affannoso, ai fili intrecciati degli auricolari, ma non si volta indietro. Nessuna perplessità quando una calda lacrima sgorga sulla sua gota, sul suo collo. Rimane là, con l’acqua che brilla nei suoi occhi calmi e l’acqua che brilla e si agita davanti ai suoi occhi, non si sa se è una brezza o un’agitazione interna dell’acqua, un’agitazione interna del suo spirito che spinge le gocce sulla sabbia vorace, impronte ben presto irriconoscibili, gote ben presto seccate da un vento ruggente. Si sa solamente che la prossima brezza da sinistra, trascina lontano il profumo solare dei suoi boccoli arruffati, una fragranza che la distanza estranea accoglie come propria nelle cime dei fiori e dei fili d’erba, nei pori dell’asfalto e nei supporti delle linee elettriche che tranciano il vuoto sopra alla sua testa inclinata e il suo cuore, lui batte.