Le sette vite del colonialismo
Koffi Olomidè, star della musica congolese, rimpiange i “padroni bianchi”
Amani – 1 Giugno 2010 di Pier Maria Mazzola
Non sembrerebbe affatto questo il momento di dare lezioni. Soprattutto lezioni di buon governo. Non solo per colpa della “grande crisi” in atto – già da qualche annetto le democrazie mature emettevano segnali di crisi, anche a prescindere da economia e finanza. Pensiamo alle confuse elezioni che portarono Gorge W.Bush alla presidenza Usa; o, più in generale, al non ancora raggiunto punto di equilibrio tra rappresentanza e governabilità; alla crescente personalizzazione della vita politica, difficile da far quadrare con una concezione “etimologica” di demo/grazia, cioè potere del popolo; al ridursi di questa, in troppi casi, all’esercizio di una maggioranza aritmetica disattenta alle ragioni delle minoranze; al diffuso ricorso alla corruzione e alla mancanza di rispetto delle regole e di trasparenza (non ne è andato del tutto immune neppure l’entourage di Obama)…
Se poi si parla d’Italia, c’è sempre una nuova classifica che ci dà per penultimi in Europa e dietro al Botswana quanto a corruzione (Transparency Internazionale 2009), o come l’Uganda, ma peggio di Namibia, quanto a libertà economica (Heritage Foundation 2007), oppure in 40° posizione dietro a Sudafrica, Namibia, Mauritius, quanto a libertà di stampa (Reporter senza frontiere 2005).
Eppure, capita ancora di sentire invocare qua e là, quando si parla di paesi africani in difficoltà, il colonialismo. Non con questo termine, certo che no. Si dice “tutela istituzionale”; si riesuma, per analogia, “amministrazione fiduciaria”, si cercano sinonimi di “esportare la democrazia”. O si mettono in fila i clamorosi e tragici fallimenti africani, dal genocidio ruandese a Mugabe, per concludere che “viene ovvio chiedersi se questi regimi neri possano davvero dirsi meglio delle colonie o di qualche amministrazione fiduciaria” (Geminello Alvi).
La cosa fa più impressione quando esce dalla bocca di un africano stesso. Non quei simpatici e verosimili vecchietti, spesso citati, che pochi mesi dopo la proclamazione dell’indipendenza nazionale esclamavano: “Bella l’indipendenza! Ma quando finisce?”. Oppure: “E il colono, quando torna?”. Ma anche uno come Koffi Olomidé, il dandy della musica congolese, la cui fama e canzoni travalicano largamente i patrii confini, un conscio megalomane che si è autosoprannominato ora “Benedetto XVI” ora “Sarkozy”, si lascia scappare (in un’intervista a un settimanale importante come Jeune Afrique): “Mi chiedo se i coloni non se ne sono andati troppo presto. Quando mi reco in paesi dove sono ancora più o meno presenti, trovo che le cose funzionano meglio che al mio. Dovrei essere imbarazzato a parlare così, ma faccio solo una constatazione”.
Già, una constatazione. Quando sono passati ormai cinquant’anni dalla proclamazione dell’indipendenza del suo paese – grazie alla grinta di Lumumba – e appena cento dalla morte di Leopoldo II (7 dicembre 1909), il barbuto sovrano belga che dell’attuale Repubblica democratica del Congo fece una tenuta personale. “Un Attila in vesti moderne – disse di lui un contemporaneo, il console britannico in Congo – e che sarebbe stato meglio per il mondo che non fosse mai nato”.
E non possiamo dimenticare che appunto all’uscita dell’era coloniale il Belgio aveva offerto a non più di 14 giovani di una futura nazione come il Congo, la chance di laurearsi. Le cose non andavano granché diversamente in molti altri paesi.
E sia: sono passati da allora cinquant’anni (o quasi trentacinque per le province d’africa portoghesi). Al giorno d’oggi siamo più illuminati, siamo tutti persuasi del valore della formazione delle risorse umani locali e, di più, convinti del vantaggio di rapportarsi nell’arena internazionale con paesi – africani inclusi – che abbiamo istituzioni solide, sistemi democratici, economie dinamiche… Insomma, oggi una forma di “tutela” avrebbe solo un carattere transitorio, servirebbe unicamente a colmare l’handicap dell’uno o dell’altro stato che necessita di un colpo di volano.
Ma si dà il caso che proprio i territori eventualmente più bisognosi di un intervento esterno, probabilmente sarebbero anche i meno disposti a un “commissariamento”. Proviamo a dire Eritrea, o Zimbabwe, o Somalia… (negli ultimi due casi, tra parentesi, qualche accenno di processo positivo pare essersi messo ultimamente in moto). La “tutela” è pensabile, sì, ma investendosi ciascuno con onestà nella parte che gli spetta. In un gioco di relazioni internazionali, rispettose e trasparenti, e che non assestino ulteriori mazzate (per di più invisibili alle opinioni pubbliche, ma non per questo meno reali), proprio ai paesi – ai loro popoli – che più avrebbero bisogno di colmare l’handicap di partenza. E invece. Il budget della cooperazione italiana allo sviluppo per i prossimi tre anni, ad esempio, è ora, sì, dedicato per metà al continente africano, ma al prezzo di una complessiva diminuzione del bilancio del 60%, rispetto all’anno passato. L’operazione Onu di peacekeeping nella Rd Congo è, duole dirlo, un monumento all’incapacità di tenere sotto controllo una porzione strategica di territorio. Un chilo di caffè ugandese viene venduto a circa un dollaro in Gran Bretagna, dove però viene messo in commercio a 14 dollari, ci ricorda Angelo Ferrari nel recente Africa gialla(Utet). Perché non fare, allora, la raffinazione direttamente in Uganda e dare a quel chicco un valore aggiunto? “Perché la tassazione che Londra applica al prodotto raffinato in ingresso è decine di volte superiore a quella applicata alla materia prima grezza”. L’Unione europea, da parte sua, ha pensato bene di sostituire la sua tradizionale cooperazione all’ombra della Convenzione di Lomé con gli Epa (Accordi di partenariato economico). Una soluzione per favorire il libero scambio anche se, teoricamente, mirante comunque allo sviluppo dei paesi più deboli. Ma un organismo come il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), in un apposito studio, ha prospettato come devastanti le conseguenze degli Epa.
Sono solo pochi esempi dei tanti possibili, che un altro giornalista, Giampaolo Visetti, nel suo Mai una carezza (Baldini Castaldi Dalai), sintetizza in poche frasi: “L’Africa è lo specchio attuale del fallimento dell’Occidente e dell’Oriente. Indifferenza civile e complicità politica con le dittature, hanno corroso la fiducia nella libertà e nella democrazia”.
Non sarà certo il caso, dopo l’afropessimismo, di passare ora all’europessimismo. Basterebbe semplicemente evitare di voler salire sempre, ad ogni costo, in cattedra.