Un biglietto per Subotica, Léa Simic
Premio Energheia Sorbona 2022
Traduzione a cura di Sidonie Larato
Spesso la mattina, Slavica sentenziava che i suoi pomodori avessero bisogno di attenzione. Alcuni anni prima, aveva lavorato la terra – da sola; aveva piantato delle pianticelle – da sola; ne aveva trapiantato altre, con il vicino. Con le dita sporche di terra, alzava le doghe della recinzione verde che la nascondeva dalla strada.
“Ehi vicino, cosa fare voi lì con sedia? Solo cavolate, e poi frignare perché i soldi sono finiti!”
Quella mattina però, non era uscita. Andava e veniva da una stanza all’altra della sua casa sbilenca. In pigiama, con i capelli unti e dritti in testa, borbottava a voce bassa trascinandosi pesantemente in ogni stanza. Ogni tanto si fermava di colpo e riprendeva a camminare.
Sin dai primi mesi in Francia, aveva adorato la vita a Parigi. Anche se viveva in periferia. Amava le strade affollate e rumorose. Era andata più volte fuori da suo figlio e lui aveva cercato di convincerla di venire a vivere più vicino a casa sua, “en province”1. Lei aveva detto di no perché da lui non c’erano né bus, né treni, né rapine a tenerla sveglia di notte dandole una scusa per guardare la tivù fino alle 3 del mattino.
In ogni stanza dove entrava, si fermava all’improvviso smettendo di camminare e di parlare. Rimaneva là per un attimo come per riflettere, fissando il soffitto. Sembrava guidata da una voce venuta da altrove. Dio, forse. La domenica andava in chiesa, quella cattolica, più vicina a casa sua di quella ortodossa.
“Prete è stessa cosa. Questa chiesa uguale di quella più lontano, loro dire stesse cose e candeli uguali anche! E chissenefrega? Gesù non controlla se io scelto la chiesa giusta”. Un giorno in chiesa una signora l’aveva scambiata per portoghese – ce ne sono tanti qui, aveva detto – poi per polacca, per via dell’accento aveva detto –, e Slavica se l’era un po’ presa.
Quando era arrivata a Parigi, aveva trovato subito lavoro in una mensa scolastica vicino casa sua. Lo chef gridava spesso perché lei non capiva una parola di quello che le diceva. Forse aveva conservato un accento marcato perché c’era troppo rumore in quella cucina per poter sentire le pronunce degli altri. Poco dopo, aveva lasciato le pentole per un lavoro ancora più ripetitivo e più vicino a casa, in una fabbrica di plastica, prima di partire in pensione. Per non annoiarsi, ma soprattutto per i soldi, aveva poi lavorato per alcune famiglie parigine nel 16° e nel 17° arrondissement. Conosceva il Parc Monceau a memoria anche se lo confondeva ogni tanto con i giardini di Lussemburgo. Quando faceva la tata, vi ci portava spesso i bambini. Li accompagnava anche a lezione di pianoforte, di violino, d’inglese, di danza classica e di tennis. Anche suo figlio avrebbe voluto imparare a suonare il pianoforte. Con suo marito, gli avevano comprato una fisarmonica. Meno cara, più facile da trasportare.
“Comunque, tasti è stessa cosa con pianoforte, solo più piccolo”.
In ogni stanza, dopo alcuni minuti di calma, apriva uno ad uno tutti gli armadi e tutti i cassetti. Ne tirava fuori tutto ciò che ci trovava, raggruppando tutte le cose in tanti piccoli mucchi. La voce dal soffitto doveva essere o totalmente pazza o enormemente incasinata.
Qualche anno fa, un’amica sua dovette operarsi e lei l’aveva sostituita andando a fare le pulizie a casa di un attore famoso di cui storpiava sempre il nome. In quella grande casa, c’era un ascensore che non aveva mai voluto utilizzare – perché “non sono vecchia strega, posso camminare poco poco” – e pure una piscina interna. Il padrone di casa le aveva suggerito di portarsi il costume per farsi una nuotata dopo il lavoro, suggerimento al quale aveva risposto: “Io grassa come una vacca”.
Come se questo le impedisse di entrare in acqua. La sera, prima che lei andasse via, il nuovo datore di lavoro le proponeva di portarsi un po’ del cibo rimasto a pranzo. Lui mangiava sempre molto e beveva anche, troppo. D’altronde, glielo aveva detto: “Te bere troppo. Per questo te non ha moglie”. Una sera le aveva dato un cosciotto d’agnello, un gran pezzo. Per lei e suo marito. Non aveva detto di essere vedova: così la carne era di più.
Tra un viavai e l’altro guardava l’orologio. Da cinque anni, le lancette indicavano le otto e trentadue sotto il vetro graffiato. Così, si alzava sempre presto. Prima non le serviva l’orologio poiché c’erano quelli appesi alle pareti del soggiorno. Ma da quando aveva pagato i vicini polacchi per imbiancare la casa, i muri erano rimasti nudi. Nel soggiorno, a terra, uno dei mucchi stava diventando sempre più grande e il viavai si faceva più lento e meno frequente. La schiena sopportava sempre meno che si chinasse. Però lei almeno viveva ancora da sola, senza nessuno. Tutte le sue amiche si lamentavano troppo ed allora le incontrava meno, per avere più tempo per lamentarsi di essere sola e ciò occupava già abbastanza le sue giornate.
Tornò in salone: “Rompipalle questo. Ho già detto, se io troppo vecchio per vivere sola, è meglio mettere me in tomba”. Si chinò. La porta dell’armadio era rimasta aperta. Frugò nel disordine alla ricerca dei suoi medicinali. Si alzava ogni giorno attorno alle otto per prenderli. Quelli contro il colesterolo erano i più importanti, soprattutto se uno vuole poter continuare a mangiare noccioline a colazione. Erano molto più buone del pane integrale consigliato dalla nuora per dimagrire: “Questa è cazzata!”
Quando ebbe trovato i medicinali, si rialzò, appoggiandosi al mobile per respirare un attimo. Stava lì, col naso sulle fotografie incorniciate. Prese tutte quelle dei nipoti, quella del matrimonio del figlio e una di suo marito, di quando era giovane, prima che perdesse la gioia di vivere ed i capelli. Andò ad accatastarle sulla pila più alta.
Come per il suo giardino, faceva tutto da sola da dieci anni. Viveva, cucinava, mangiava, puliva, faceva la spesa, andava dal medico, s’annoiava e guardava la tivù da sola. Da qualche anno, mangiava molte pizze, piadine o qualsiasi piatto pronto. Sua nipote le aveva spiegato che bisognava mangiare meglio, per il bene suo e del pianeta. Ma soprattutto suo. Allora ogni tanto comprava wurstel bio, imballati in tanta plastica. In Serbia, il bio stava in giardino, non etichettato… e gratis. Spesso, il medico le chiedeva di mettersi a dieta e Slavica ci provava. Per alcuni giorni mangiava solo mele e prosciutto, oppure ogni tanto un uovo e degli spinaci. E siccome non funzionava, il frigo si riempiva di nuovo, rapidamente, di pizze.
Lo stomaco che già brontolava la spinse a trascinarsi fino alla cucina. Aprì il frigorifero e ne tirò fuori pizze al prosciutto e formaggio, tre bottiglie di Orangina e una scatola di carote grattugiate, “per non ingrassare”. Mise il tutto in un sacchetto freezer bucato.
Fare la spesa era l’unico motivo che aveva per uscire ed era già tanto. Dopo cinquant’anni vissuti nella stessa via, non conosceva ancora il nome delle fermate ma comunque scendeva sempre alla stessa. Non quella del municipio, quella dopo, vicino al parco giochi dove c’è una pubblicità per i pomodori in offerta (– e quando i pomodori non sono in offerta, Slavica si perde? –). A volte dei signori l’aiutano a scendere e a volte nessuno l’aiuta. Quando vogliono aiutarla, mugugna: non le serve aiuto, non è ancora una vecchia strega. Quando l’aiutano, mugugna: potrebbero portarle il carrello. Le altre vecchiette guardano trasmissioni da vecchiette: “Questions pour un champion”, “Rex”, “L’inspecteur Derrick” e altre serie penose del pomeriggio. Tutte queste trasmissioni, Slavica le vede anche lei. In realtà, guarda tutto. Ma lei preferisce i reality. È strano perché si tende spesso a sconsigliare questo tipo di programmi ai ragazzi ma non vengono sconsigliati alle anziane. Forse perché Slavica è l’unica anziana che li guarda. O forse perché per loro, la vita è già passata: le piscine, le ville e i ragazzi in costume da bagno non bastano a far credere loro che sia facile fare la bella vita. La bella vita, o l’hanno già avuta o è troppo tardi perché l’abbiano adesso.
Tornò in soggiorno, dove aveva creato il mucchio più grande. Restava in piedi davanti alla televisione. “Peccato che Jean-Luc non parte con me. C’è solo brutta tivù di là”. Quando guarda “Les douze coups de midi”, Slavica parla spesso a Jean-Luc, il presentatore. Spesso, dal divano risponde alle domande che non capisce veramente. Ogni tanto vince, ma i soldi non arrivano mai.
Si inginocchiò a fatica, borbottò e si alzò per lasciare il soggiorno. Poi riuscì dalla stanza da letto tirando dietro di sé un valigione. Si chinò di nuovo per raccogliere i ricordi ammassati a terra e gettarli in valigia. Non prendeva neanche il tempo di guardarli. Afferrava gli oggetti, uno ad uno, senza guardarli. Quando finalmente la pila di roba scomparve, richiuse la valigia sedendosi sopra, per farci entrare tutto.
I giorni in cui Slavica si sente sola, vorrebbe che ci fossero i nipoti a mettere un po’ di vita in casa. Quando ci sono, le capita anche di rimpiangere che siano venuti perché non sente più la televisione. L’ultima volta che si sono incontrati con suo figlio, hanno litigato. Lei non è più in grado di restare da sola e lui non può venire a Parigi ogni fine settimana per badare a lei. Le vuole tanto bene ma non può fare il baby-sitter. Se avesse saputo scrivere in francese, avrebbe forse lasciato un bigliettino per Lena. Sua nipote era venuta a trovarla il giorno prima e da quel momento il nome della “Résidence des Tilleuls” le rimbombava in testa.
“Che vuole che faccio io, lì con vecchi?”
Ormai davanti a lei restavano solo le fotografie incorniciate della sua famiglia. Con le sue dita ossute, tolse le fotografie dal vetro, le piegò e se le infilò in tasca. Osservò gli oggetti attorno che stava per lasciare là: “Mio figlio s’arrabbia quando vede tutto questo. Dirà: ‘Mamma, sempre incasinato da te!’. ‘Ben ti sta!’”, disse ridendo. Poi andò nel corridoio d’ingresso chiudendo bene la porta del soggiorno in modo da non facilitare le cose ai ladri. Lì, indossò la giacca e riaprì la borsa per verificare che aveva preso il passaporto ed i biglietti, per non avere problemi alla frontiera.
“Spero che a Subotica c’è meno vecchi che al loro ospizio schifoso”. Guardò l’orologio. Lena aveva detto che sarebbe venuta con suo padre a prenderla a mezzogiorno. L’accettazione si faceva all’una.
“E che fare taxi? Non vuole venire per vecchietta come me?”
1 La province in Francia è l’insieme delle regioni che si trovano fuori dalla capitale, dalla regione di Parigi chiamata Île-de-France. (NdT).