L’errore sempre in agguato.
_di Roberto Vacca
Quando avevo 16 anni, il professore di chimica disse in classe:
“Gli errori vanno sempre corretti e non vanno disseminati – non tengo nella mia libreria nemmeno un libro che contenga un errore!”
Lo raccontai a Ernesta, la mia sorella maggiore che studiava Fisica. Rispose:
“Allora nella sua libreria ci terrà solo la Bibbia!”
Aveva ragione. L’errore è sempre in agguato. Diciamo e scriviamo proposizioni e numeri erronei per ignoranza, per fiducia mal riposta, per mancanza dati, per distrazione. Se prestiamo attenzione, troviamo ovunque errori nostri e altrui. Fa effetto trovare in scritti famosi qualche assurdità o inconsistenza. Se sono occasionali, comprendiamo e perdoniamo. Se un’opera è permeata di falsità e frasi astratte, prive di senso, dovremmo condannare l’autore all’oblio.
Ci ho riflettuto rileggendo il Fedone di Platone. Non mi sono meravigliato. Molti anni fa un amico gesuita, che ci aveva studiato a lungo, mi disse che nessun dialogo di Platone dimostra le tesi proposte. Il Fedone non fa eccezione. Socrate chiede a Simmia e Cebete:
“Non si accosta a capire l’essenza della verità chi lo faccia col puro intelletto, usando il pensiero in sé e per sé, estraniandosi da vista, udito e da tutto il suo corpo – cose che turbano l’anima e non lasciano che attinga la verità? E non saremo più vicini al sapere se non ci frammischieremo col corpo, salvo che per le necessità naturali? Non siamo quindi più puri se teniamo l’anima separata dal corpo? E con la morte l’anima non si separa del tutto dal corpo? Quindi chi è innamorato della sapienza, non avrà fede di poterla conseguire in maniera degna da morto – nell’Ade?”
I discepoli rispondono si a tutte le domande: la discussione non è accesa. Socrate li forza a partorire altre presunte verità, come quella che tutte le cose che hanno un contrario, vengono generate dal loro contrario. Così essere morti è il contrario di essere vivi. Quindi la morte genera la vita, nel senso che le anime dei morti dall’Ade rivivono – e dimostra così l’immortalità dell’anima e la metempsicosi.
Questa sapienza è, dunque, una meditazione sulla morte e prescinde dall’osservazione del mondo. L’anima prescinde da quello che vedono gli occhi, che sentono le orecchie, che toccano le mani, ma pensa al bello e al vero. Ricorda la storia dell’intellettuale che a Napoli in una conferenza si vantò:
“Io sono un libero pensatore!” – e un ascoltatore chiese:
“E a che pienz’ ?”
Solo due millenni dopo si cominciò a pensare meglio. Galileo sostenne che ciò che esperienza e sensi ci dimostrano va anteposto a ogni discorso, anche se sembra serio. Spinoza “dimostrò” che la sapienza dell’uomo libero (che vive seguendo solo la ragione) è meditazione di vita.
Platone fa parlare Socrate anche di matematica – e diventa ancora più astratto e insensato:
“Non eviteresti di dire che aggiungendo uno a uno, sia l’addizione la causa che uno diventi due? Non proclameresti che non c’è altro motivo del formarsi del due, se non la partecipazione alla dualità?”
“Dici proprio il vero!” – fanno Simmia e Cebete in coro.
Continuando a ragionare per analogie e somiglianze, Platone attribuisce a Socrate conclusioni avventate: avremmo idee innate che ci vengono alla mente in modo graduale. Troviamo la verità delle cose e ne capiamo la vera essenza ragionando sui concetti e non sulle osservazioni. Sappiamo già cosa siano il Bello e il Buono e li riconosciamo in ogni campo, anche quando contempliamo belle strutture geometriche. Perde tempo, invece, chi ci ragiona prolungando rette, aggiungendo o togliendo quantità. È, quindi, azzardato asserire che Platone influenzò il pensiero di Euclide. I postulati, le definizioni e le dimostrazioni del Geometra sono una disciplina nuova, costruita perfettamente. Niente a che fare con il pressapochismo di Platone. Da un’analogia all’altra Socrate/Platone considera ottima la dittatura del saggio che, da autocrate, può bene mentire e asserire falsità per il bene della città. Il discorso è lungo: viene analizzato in modo convincente da Karl Popper nel primo volume della sua opera “La società aperta e i suoi nemici”. Il primo nemico era Platone; i due seguenti: Hegel e Marx.
Platone fece di peggio. I suoi discepoli vennero a sapere che, non solo :
32 + 42 = 52 (vedi Pitagora), ma anche 33 + 43 + 53 = 63 = 216.
Contemplò quella bella relazione, ma non avrebbe saputo dimostrare che sia valida solo per quei 4 interi consecutivi. Poi moltiplicò 216 per 60.000 e ottenne
12.960.000
[che è anche uguale a 604]
e lo chiamò “numero nuziale”. Ci faceva sopra operazioni con i nomi o le date di nascita di fidanzati e vaticinava se le loro nozze sarebbero state fauste o no. Questa è numerologia – un brutto peccato. Chi la usa non è certo un buon matematico, né un buon filosofo.