L’eterno morente: eutanasia e metafisica del dolore
_di Maurizio Canosa_
Nelle ordinarie incombenze del vivere quotidiano s’impara forse meno dal dolore fisico che dal piacere. Rispetto alla forza di un bruciore che vuol farsi esperienza, il ricordo di un lembo di vita gratificante suggella meglio il nostro sapere per il futuro. L’ottimismo, l’energia positiva di un organismo in stato di benessere consentono, ad ogni latitudine, una migliore soluzione dei problemi concreti e materiali della vita, una più efficace gestione del qui e dell’ora. Tutto questo, credo, è stato dimostrato. D’altro canto, solo il male fisico tocca in fondo lo strato basilare dell’esistenza. Il piacere non riesce a farlo. Per quanti sforzi facciamo, vivendo in piena salute non possiamo che sentirci immortali. Non basta l’esperienza tutta intellettuale della visione di un dolore (o una riflessione sulle sue conseguenze rovinose) perché questa incosciente sensazione di immortalità subisca una battuta d’arresto. Noi dobbiamo sentire l’afflizione sulla nostra pelle. Per questo una ferita racconta molto di noi e del nostro essere. Ma è anche opportuno dire che quella del dolore é un esperienza di separazione. La più inequivocabile rappresentazione del grado zero della corporeità. Il piacere non regala mai la percezione di un limite. Al contrario, spinge al massimo il senso di continuità della coscienza – per esempio nell’assunzione di anfetamine o di droghe – fino a farci percepire una possibilità espansiva senza confini. Nel dolore invece c’é un contromovimento che conduce alla rottura. Quella continuità illusoria nello spazio e nel tempo viene spezzata nel punto preciso in cui un corpo perde la propria compiutezza e si corrompe in uno spasmo violento. E’ perché sentiamo dolore, che sentiamo di avere un corpo. Torniamo ad essere unici, poiché nessuna solidarietà, nemmeno la più genuina pietas cristiana può caricarsi del peso del dolore di un Altro. La gioia può essere contagiosa, il dolore fisico no. Da questo momento in poi, il carattere di contingenza della vita si presenta nella sua forma più pura. Purtroppo, non esiste niente di più essenziale e autentico di un patimento fisico, perché solo nel dispiacere del corpo possiamo accorgerci della nostra costituiva e assoluta precarietà. Se c’é una saggezza nel dolore, é questa. Per quanto insignificante possa essere, ogni dolore é fondamentalmente inaccessibile. Nel silenzio che impone a qualsiasi parola, a qualsiasi compassione, a qualsiasi vicinanza, si esprime come un’esperienza da non poter comunicare. Misura la scissione all’interno della nostra coscienza ma anche tra noi e il resto del mondo. Ci distrae non solo da ciò che siamo (da ciò che eravamo) ma anche dal sistema sociale vivente di cui facciamo parte come fossimo una cellula elementare. Sarebbe il segno del nostro egoismo più naturale e profondo, se non fosse che ciò che ci viene a mancare, nell’esperienza dolorosa, é proprio la certezza compatta del nostro spirito, identificato nel palpitare panico dell’universo. Fu il titanico tentativo degli stoici e del grande Spinoza: la sopportazione del male fisico non come incidente di percorso, ma come consapevolezza di un superiore equilibrio cosmico, dove il soggetto sposa indissolubilmente l’oggetto, l’uomo si unisce all’ambiente che lo vive attraverso l’accadere di ogni evento, indifferentemente. Tuttavia, sono rari i fortunati che possono tanto. Riuscire a godere di un cielo sereno nell’orizzonte materiale della sofferenza, significa portare a compimento il miracolo della santità.
L’esistenza, in se stessa, non ha alcun peso. Nello stato di salute noi non ci sentiamo vivere. Dunque non lo sappiamo. Quando non siamo costretti a fare i conti con il nostro corpo, ogni sforzo di reale consapevolezza é vano, perché nell’impegno dell’intelletto puro che prova a costruire giustificazioni sul valore del vivere, si annienta il supporto dell’ intero organismo che resta, al quale abbiamo tolto la parola. Senza la carne e il sangue che ci interroga, siamo nell’anonimato dell’essere privo di spessore. Ora, possiamo dire di stare vivendo (e che stiamo vivendo nella singolarità e nella contingenza) solo nei momenti di modificazione dello stato di quiete, più nel dolore che nel piacere. Per questo non di rado il dolore prolungato fa più paura della morte, anche perché rispetto ad essa rappresenta l’eccezione, lo strappo ingiustificabile, laddove invece la mera fine dell’esistere, in un modo o nell’altro, già sappiamo essere l’evento unico cui non possiamo porre rimedio. La vita in se stessa non si sente vivere. Semplicemente accade, perché senza un esistente che la vive (cioè che patisce e gioisce nella sua unicità) é nulla, mentre la morte rappresenta paradossalmente (e semplicemente) solo il termine di questo nulla. La potenza nullificante della vita, intesa nella sua essenza senza soggetto, è tale proprio perché universale e impersonale. Il nulla della vita è dato proprio dalla sua forza totalizzante su ogni esistente. Più del piacere, è dunque il dolore che ci fa emergere da questo accadimento anonimo e insensato, da questo nulla, perché é sempre concreto e solido nel suo manifestarsi come una lacerazione del tessuto amorfo dell’esistenza. Così, nella decisione sul quando e come morire, il dolore di un’incurabile malattia vale infinitamente più della vita, che è solo un contenitore vuoto da riempire e, se invaso da germi nefasti, di cui è giusto potersi liberare, a malincuore o senza rimpianti.
Eppure, c’é un momento in cui persino il dolore scompare dall’orizzonte del vivere. L’oscurità di un’assoluta incoscienza precede solo di un passo l’evento che naturalmente lo segue: la morte. Ma, già prima, ogni barlume di esistenza autenticamente umana ci ha abbandonato, per lasciare sul campo un involucro meccanico debolmente funzionante. E’ quello che è successo a Piergiorgio Welby e, più recentemente, ad Eluana Englaro. In questo stato, l’obbligo alla vuota esistenza attraverso la costrizione di un palpito può durare per molti anni ancora. Eppure noi non ci siamo più da tempo. E’ un grado sotto una vita nuda vegetale, quella comandata dalle macchine, perché totalmente azzerata e, ciò nonostante, soggetta a persistere nelle sue inutili tracce dal volere di altri. Che sia qualcun altro a decidere della mia morte é forse lo scacco più spregevole che il mio diritto di determinarmi e la mia coscienza libera possano subire. Che sia lo stato e la politica “liberale” a impadronirsi di questo abuso é infinitamente più grave. “Tu devi vivere anche al di là di ogni tua scelta e di ogni tua disperazione” é l’ordine che vuol esserci imposto. Ma Il diritto di vivere contempla il diritto di morire, perché il vivere in certe condizioni é molto meno che sopravvivere: é il compiuto e definitivo annullamento di tutto ciò che un uomo può essere. Nella decisione di voler prolungare con accanimento il termine di un’esistenza che ha già smesso il suo senso perché é tornata ad essere nulla, si avverte l’arroganza di chi vuol entrare ad ogni costo nella solitudine dell’eterno morente. Una solitudine impossibile a dirsi, che si può solo sfiorare.