Licia Giaquinto in Giuria alla XX edizione del Premio Energheia.
Licia Giaquinto, scrittice, è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Laureata in Lingue, si è trasferita a Parigi, dove ha vissuto facendo diversi lavori. Oggi vive fra Bologna e Amalfi. Ha pubblicato “Fa così anche il lupo” (Feltrinelli), “È successo così” (Theoria), “Terre Rare” (Tam Tam di Adriano Spatola) e le raccolte “L’osceno teatrino”, “La foce del sonno”, “L’amantide”, “I Tarocchi”, “Angeli e fiumi”. Per il teatro ha scritto alcuni testi, tra cui “Margherita da Cortona”, “La confessione” e “La notte”, che sono stati rappresentati da diverse compagnie. Ha partecipato alle antologie “Enokiller” e “Chocokiller” (Morganti).
- Che ruolo ha la scrittura nella sua vita?
“Molto importante, al punto che, per non rischiare di ammalarmi, per un lungo periodo mi sono dedicata ad una attività estremamente impegnativa che mi distogliesse dall’ossessione dello scrivere”.
- Che cosa prova, quando scrive?
“Sofferenza, spesso. Piacere, di rado”.
- Lei scrive ancora poesie?
“Ogni tanto. Ma ne ho scritte moltissime”.
- Dalla poesia alla prosa, ci parli di questo passaggio.
“La poesia è come la corsa dei cento metri. Tutto si gioca in poco spazio. Un romanzo è come una maratona, prevede grandissima fatica protratta nel tempo. Ho cominciato con la poesia perché mi piaceva la concisione, e anche perché scrivere un romanzo mi sembrava una impresa troppo ardua. Comunque, pur continuando ad amare la poesia, credo di essere soprattutto una narratrice. Mi piace molto ascoltare e raccontare storie”.
- In che modo costruisce i suoi romanzi?
“Non li costruisco. Non faccio scalette, fin quasi alla fine non so cosa succederà all’uno o all’altro dei personaggi. Ho in mente un’immagine, una frase, un luogo e comincio a metterli sulla pagina. E a mano a mano che procedo, è come se la scrittura scostasse una tenda da un palcoscenico. I personaggi escono da una zona buia e vengono verso la luce della ribalta dove mettono in scena le loro esistenze”.
- Il suo nuovo romanzo “La ianara” edito da Adelphi, ci porta avanti in un mondo che richiama alla mente condizionamenti, riti e realtà provinciale (arcaiche). Come è nato questo libro?
“Avevo in mente una cantina di un palazzo abbandonato e circondato da ettari di terreno e boschi incolti. E sentivo odore di tannino e di morte. Poi il palazzo ha avuto un suo abitante folle, il conte.Da lì è partito il romanzo, col racconto del conte. Adelina, la ianara protagonista, è venuta solo dopo. In ogni caso mentre procedevo nella scrittura, il ricchissimo mondo che mi aveva nutrita da bambina, è venuto fuori in modo prepotente e naturale, come germogli della corteccia di un albero”.
- La mandragora officinarum sulla copertina ci conduce immediatamente nell’essenza del clima magico della narrazione. Permette ad ognuno di noi di scorgere un piccolo mistero.
“Non saprei. Ogni lettore può scorgere misteri ovunque. La mandragora, o pianta delle streghe, ha avuto un importante ruolo nella medicina popolare e lo ha anche nel romanzo”.
– Il personaggio, Adelina, ha due vite e racchiude tra i fili del tempo un segreto che corre oltre le stesse pagine, nel profondo ignoto.
“Adelina è un personaggio tragico. Cerca di sfuggire a un destino che la vuole ianara, e incappa in un altro destino che la condanna alla solitudine più estrema a alla follia”.
- La storia della ianara in Irpinia è collegata al discorso più vasto delle streghe di Benevento.
“La figura della ianara ha una diffusione vastissima. Molto probabilmente il termine viene dal latino ianua (porta), a significare la capacità di queste donne di attraversare nei due sensi – di andata e ritorno – la soglia tra la vita e la morte”.
- Come si è materializzata in lei la leggenda della ianara, visto che anche nel primo romanzo “Fa così anche il lupo” aveva affrontato la strega rossa. Qual è il messaggio che lei vuole far arrivare al lettore?
“La ianara non è un reperto recuperato a freddo da chissà quale scavo nella cultura arcaica, ma è radicata in me come i boschi, i muri delle case, i suoni, i sapori, i colori, la lingua dei luoghi dove sono nata e cresciuta. Mi ha sempre affascinata la sua figura perché in lei ho sempre visto la forza e l’autonomia della donna. Ma anche la sua emarginazione in quanto libera. Per ciò che riguarda il messaggio, non credo sia quello il compito della letteratura. I messaggi è meglio trasmetterli con dei volantini”.
- Che rapporto ha lei oggi con l’Irpinia?
La porto nel cuore e ho una grande nostalgia, ma quando torno al mio paese, a Montoro, mi sento straniera. Quel mondo è completamente scomparso e tutti coloro che conoscevo da bambina li ritrovo sulle lapidi del cimitero.