Lima e violino_Gian Filippo Della Croce, Terni
_Menzione Giuria sesta edizione Premio Energheia 2000.
Il professore di aggiustaggio meccanico si aggirava tra i banchi di lavoro con una grazia discreta. Di statura piuttosto bassa, con i tratti del viso minuti, i baffetti di un biondo sbiadito e la testa semicalva introdotta in un basco blu notte, impeccabilmente portato con una certa pendenza sulla destra. Il titolo di professore non so se lo gratificasse, nel lindore del suo camice grigio ferro, se lo prendeva in silenzio, senza commenti, con la modesta disinvoltura con cui gestiva quel ruolo di maestro di mestiere, mentore di una civiltà industriale in bilico tra passato e futuro, e di cui non capiva esattamente l’attuale dimensione. Si sforzava così di essere portatore di un’etica oltre il tempo e le tecnologie, oltre le generazioni e i regimi. Un’etica del lavoro che prevedeva iniziazioni ed esorcismi, cerimoniali, comandamenti, regole, sacralità.
E tutti noi avevamo in testa un basco blu notte e impugnavamo la lima con la mano destra, anche i mancini, la destra sotto e la sinistra sopra a “guidare” e a “forzare”. Il professore, insegnandoci i segreti della fine arte della lima, ci introduceva in quel mondo, con regole e galateo, con la stessa tenacia e lo stesso distacco di un istitutore. La posizione al banco era della massima importanza ergonomica e gerarchica, e così il professore svolazzava tra i banchi di lavoro come una piccola farfalla grigia e blu, per correggere con determinazione ed energia posizioni sbagliate, spalle troppo diritte, teste penzolanti, mani rattrappite sul manico della lima, al fine di ottenere l’armonia massima ossia un’angolazione del busto sul banco fra i quarantacinque e i cinquanta gradi. Su questo parametro giocava naturalmente la statura dell’allievo e per questo il professore aveva lasciato quello spazio di cinque gradi, unica concessione alla genericità, in una continua ricerca di perfezione.
Tutti gli allievi indossavano pantaloni e giacca blu, la tenuta da lavoro dei capi, e dovevano ostentare nel taschino una matita e una penna, era questione di stile, lo stile del comando intermedio, al quale eravamo destinati. L’intransigenza del professore, era di una logica così cristallina da non poterla discutere affatto, ovvero era assolutamente indiscutibile, ovvero qualsiasi discussione in merito era assolutamente proibita. Situazione di “livello” diceva lui, e i livelli gerarchici non era possibile metterli in discussione, altrimenti “la fabbrica crolla”, e indicava con un gesto ampio le campate dell’officina, le capriate metalliche piene di bulloni, le colonne di ghisa che le sostenevano, gli ampi finestroni, la fuga dei banchi da lavoro, allineati in una prospettiva di ordine maniacale, con le morse tirate a lucido, i plateau ricoperti di inchiostro bluastro, le maniglie dei cassetti brillanti.
L’officina scuola del professore, era una autentica officina, un po’ retrò, ma a lui andava bene così. Vi si accedeva da una porta a vetri opachi, oltre la quale si vedevano subito i banchi da lavoro e in fondo il cubo di legno e vetro, dentro al quale il professore aveva il suo tavolo, la sua stufa elettrica, il suo scaffale pieno di raccoglitori e di cartelle colorate, il suo telefono, il suo attaccapanni, il suo quadro con la veduta panoramica della nostra scuola, la cassetta pensile del pronto soccorso, una fila di chiavi appese a chiodi lucenti infissi in una tavola verniciata di blu, il manifesto delle norme di comportamento e antinfortunistiche.
Dietro a quei vetri, sempre trasparenti, lui ci guardava con apparente noncuranza, ma ognuno di noi sapeva che nulla poteva sfuggirgli. Per ottenere la sua attenzione occorreva alzare l’avambraccio non oltre il basco blu, con la mano tesa. Quasi nello stesso istante, lui ti era accanto e i tuoi occhi incrociavano i suoi, chiari, tra rughe e ciglia abbondanti.
– Cosa non va?
La domanda era chiara, presupponeva una coscienza acquisita dei ruoli, una visione responsabile della gerarchia.
– Cosa non va? -, significava prima di tutto: vediamo qual è la ragione per cui è stato richiesto il mio intervento, e in caso di debolezza della ragione il professore non diceva nulla, il suo giudizio non era sindacabile né pubblico, il suo sguardo emetteva la sentenza e la sua andatura nel percorso di ritorno verso il suo ufficio diventava solenne, cadenzata.
Una volta entrato nel suo osservatorio di vetro, rimaneva un attimo immobile a guardare, poi estraeva dal taschino la pesante penna stilografica, si sedeva al tavolo e scriveva qualcosa sul registro di classe, un segno, un riferimento, chissà…
Chi viveva quel momento bruciava dentro, il suo viso avvampava, ed avrebbe voluto certamente essere lontano da lì, molto lontano, oltre le grandi finestre dalle quali si vedevano le montagne dell’est. La mano destra stringeva la lima con maggior determinazione e la sinistra la guidava con più sicurezza, a mordere o a levigare quel piccolo blocco di acciaio dolce, stretto nelle ganasce della morsa, sul quale la luce che entrava dai finestroni giocava con luccichii mai eguali.
Quel piccolo blocco, doveva essere “portato in piano”, risistemando con l’arte e la pazienza della lima la sua superficie rugosa. La prova dell’avvenuto spianamento, era data dal plateau cosparso di inchiostro bluastro, sul quale la superficie del blocco veniva passata con delicatezza e con timore. Il responso del plateau era inesorabile, se la superficie del blocco fosse diventata per intero dello stesso colore dell’inchiostro, solo allora il lavoro era compiuto. Le mani degli allievi strofinavano con cura i blocchetti sui plateau e quando li ritraevano per controllare, i cuori palpitavano. L’uniformità era l’obiettivo unico e massimo al quale si poteva aspirare e il blocchetto con la superficie superiore completamente blu, passava immediatamente nelle mani del professore, che dal suo osservatorio di vetro aveva già capito tutto e rapidamente, con un gesto rapace ritirava il blocchetto lavorato e metteva nelle mani dello stupefatto allievo un blocchetto nuovo, rugoso e ossidato, dopodiché guadagnava rapidamente il suo ufficio. L’allievo restava per un attimo, solo per un attimo, con quel nuovo blocchetto in mano, a fare una piccola mostra di sé, sapendo che tutti lo stavano osservando con invidia, perché il professore aveva annotato vicino al suo nome, sul registro di classe con la fodera blu, un numero a carattere ornato che rappresentava la progressione dei blocchetti “portati in piano”: più numeri, maggior sicurezza per un esito positivo a fine anno scolastico.
Io non riuscivo ad averne neanche uno, e il professore un giorno mi portò nel suo ufficio di vetro, chiudendo la porta dietro le mie spalle, poi si sedette al suo tavolo spolveratissimo e lasciandomi in piedi mi chiese di avvicinarmi e di togliermi il basco.
– Cos’è che non va?
– Ecco io…
Non riuscivo a tirar fuori una parola, il professore mi fissava con curiosità, mi stavo accorgendo che mi guardava come se mi avesse visto per la prima volta.
– Allora?
– Ecco vede professore… è che non ci riesco…
Il professore non batteva ciglio, continuava a guardarmi con attenzione, immobile.
– Devi riuscirci…
Rispose con calma.
– Ma…
– Tu dici che non è possibile?
– Sì
Risposi umiliato.
– Beh… se non fosse proprio possibile, saresti scemo, è così elementare!
– Ma io…
– Non hai pazienza lo so, l’ho scritto già nelle tue note personali, ma se non hai pazienza non sarai mai un buon capo. Senza la pazienza non c’è autorevolezza e senza autorevolezza non c’è credibilità, e allora la fabbrica crolla…
E aggiungeva il solito gesto di catastrofe, indicandomi l’officina oltre la vetrata.
– Cercherò di farcela allora…
– Bravo sbrigati!
Tornai al banco di lavoro con le gambe molli e la nausea che mi serrava lo stomaco, le mani mi tremavano e non riuscivo nemmeno ad infilarmi il basco sulla testa. I miei compagni più vicini mi guardavano con curiosità, continuando il loro lavoro con la lima, la luce del sole autunnale colpiva le vetrate di traverso e mandava bagliori intermittenti nel mattino inoltrato. L’orologio rotondo posto sopra la vetrata dell’ufficio del professore, in modo che tutti potessero vederlo, segnava le undici e a quell’ora tutti potevano fare colazione per un quarto d’ora, solo colazione, chi non era intenzionato a farla doveva continuare a limare.
La colazione prevedeva anche l’abbandono temporaneo del banco di lavoro, ma il professore non permetteva né l’abbandono dell’officina, né capannelli troppo numerosi, noi lo vedevamo mangiare al suo tavolo all’interno dell’ufficio di vetro.
– Che ti succede?
Mi disse il mio vicino di banco.
– Oh niente, ma non riesco a mettere in piano il blocco…
– Non è facile.
Rispose, addentando il suo panino con mortadella.
– Ma poi vedi, ci si riesce, non devi calcare troppo con la lima, e poi guarda bene il blocco, a volte è quasi piano e non serve neanche limarlo…
– Ma io ti vedo limare…
– Faccio finta…
Il professore usciva dal suo ufficio alle undici e un quarto e con un gesto perentorio faceva capire a tutti che l’intervallo era finito e tutti si affrettavano a riprendere il loro lavoro. Io me lo sentii accanto rapido, fermò il mio lavoro sulla lima, allentò la presa della morsa, ne estrasse il blocchetto di acciaio, lo guardò con attenzione.
– Sei un timido.
– Perché?
– Perché esiti, ecco, guarda qui, guarda i segni della tua lima, è una lima incerta, disorientata, quasi spaventata di addentare l’acciaio, una lima timida.
Rise, sotto i baffetti fulvi, come non l’avevo mai visto prima.
– Fatti in là…
Il professore rimise rapidamente a posto il blocchetto di acciaio tra le ganasce della morsa, che serrò in un colpo solo, quindi dopo avermi tolto la lima di mano comincio con quella ad accarezzare il metallo. Il suo busto aveva una angolazione di quarantacinque gradi esatti, la lima era assolutamente diritta, il suono che sprigionava accarezzando il metallo era di una armonia unica. Eh sì, bisogna riconoscerlo, il professore con la lima ci sapeva proprio fare! Ero rimasto a guardarlo incantato e anche un po’ confuso, tutti mi guardavano, tutti avevano sospeso il loro lavoro per ammirare la performance del professore.
Non ricordo quando durò il colloquio di quell’uomo con la lima e l’acciaio, comunque non trascorse molto tempo. Poi il professore eresse il busto, tolse velocemente il blocchetto dalla morsa, tenendolo in alto con la mano sinistra mentre l’altra ancora impugnava la lima, mentre l’acciaio brillava alla luce del sole che attraversava velocissimo l’officina in quel momento. Con solennità, adagio, abbassò il braccio protendendo il blocchetto verso il plateau, e lo ritrasse interamente coperto di inchiostro bleu, tutti applaudimmo. Il professore dimostrò di non gradire l’applauso, le sue ciglia si aggrottarono, i suoi baffi si contorsero, i suoi occhi erano dello stesso colore dell’inchiostro sul plateau, tutti tacquero.
Il professore infilò la mano destra in una tasca del suo grembiule, estrasse con disinvoltura un altro piccolo blocco di acciaio rugoso, che velocemente finì tra le ganasce della morsa. I suoi occhi celesti rotearono intorno, il tempo necessario a convincere tutti a ritornare al loro posto di lavoro, meno io, invitato con un gesto perentorio a “vedere come si fa”. Dopodiché impugnò la lima, inclinò il busto a quarantacinque gradi, roteò lo sguardo sciabolando l’intera officina, quindi riprese a limare con una armonia ancora più intensa di quella che avevo visto prima. La lima accarezzava l’acciaio, cantando, leggera, e quel ritmo sicuramente preordinato, sicuramente frutto di un’armonia interiore, era sempre più seguito da tutti. Tutti limavano sempre più alla stessa maniera, sempre più all’unisono come una grande orchestra, di cui lui, il professore, era l’indiscusso maestro.
Quando si fermò lui, tutti si fermarono, quando lui tolse il blocchetto dalla morsa tutti lo tolsero, quando lui lo passò sul plateau, tutti lo imitarono, quando lui lo sollevò per dimostrare l’incomparabilità del suo blu, tutti lo sollevarono, e più o meno tutti avevano raggiunto un soddisfacente grado di uniformità blu.
Il professore mi guardò diritto negli occhi, trapassandomi, poi depose anche il secondo blocchetto sul banco e se ne andò con la solita andatura verso il suo ufficio di vetro, sulla porta rivolse un ultimo sguardo a tutti, poi lo vedemmo sedersi al suo tavolo a scrivere sul suo registro azzurro.
Ora i compagni guardavano me, mi guardavano con un misto di compassione e di invidia, da quel momento ai loro occhi ero profondamente cambiato. A fine anno scolastico il professore passò tra i banchi di lavoro, un bidello lo seguiva spingendo un carrello a due piani, sui quali erano allineati i blocchetti che ognuno di noi aveva lavorato, con tanto di nome e cognome. Tutti erano stati accuratamente puliti. Il professore si fermava davanti ad ognuno di noi, prelevava i blocchetti corrispondenti e li strofinava sul plateau: il giudizio era pubblico e inappellabile, se la maggioranza dei blocchetti non era perfettamente blu.
Ero già serenamente preparato al peggio quando si fermò davanti a me, i blocchetti che mi riguardavano erano quattro, il numero più basso della classe, ma tra loro ce n’erano due perfettamente blu e il verdetto fu favorevole. Dopo aver apposto la votazione relativa sul registro azzurro con la sua grossa stilografica, il professore alzò lo sguardo su di me, trapassandomi. Passai giorni di tremenda umiliazione, mi sentivo piccolo, inferiore, cattivo. – Perché lo aveva fatto? -, mi domandavo centinaia di volte al giorno, e non era possibile darsi una risposta.
Poi l’Estate, traboccando dalle montagne dell’est riempì la città, e quel dolore e quel desiderio lentamente si ammorbidirono nel sole, volarono via nell’aria profumata che ci schiaffeggiava con violenza a me e a Sandro il “rosso”, nelle lunghe scorribande sulla sua moto giapponese.
Un giorno che giravamo sbadati, annoiati, per la città, verso sera Sandro diresse verso una zona residenziale, viali, alberi, giardini quieti, case ordinate.
– Dove andiamo?
– Vedrai
Girammo intorno a due isolati e fummo in un cortile non molto ampio, con piccole aiuole e alberi di palma. Sandro si orientò per un attimo e poi mi parlò sottovoce, indicando una finestra del piano rialzato.
– Guarda là…
Dietro i vetri, in una luce morbida, un uomo suonava il violino.
– Hai visto?
Le note giungevano fino a noi, facilmente, e il cortile trapunto di finestre illuminate, le conteneva con naturalezza. Forse era Mozart o Beethoven o Paganini, o che so io… ma lui era lui, il professore di aggiustaggio meccanico, con la testa semicalva dal color biondo sbiadito reclinata sullo strumento, che trapassava su e giù, soavemente, con l’archetto.
Sandro mi dette una gomitata di intesa e bisbigliò: – Hai visto? E’come una lima…
Lasciammo il cortile pieno di musica tenendo il motore al minimo.