I brevissimi 2023 – L’inconsapevole battito d’ali di una primavera qualsiasi, Daniela Borrelli_Portici(NA)
Anno 2023, tema: La primavera
Ogni sera lo aspettavamo, seduti e composti in salotto, a volte sul balcone se il tempo lo consentiva, e persino giù, quasi come una scorta supplementare. Ed inutile. Non potevo scendere, mia madre mi poggiava la mano sul petto, con un gesto silenzioso ma determinato. Il principino scendeva con la sigaretta già accesa tra le labbra, con quel sorriso scarso che gli illuminava gli occhi e non il viso, convinto che un’immortalità di qualche sorta avrebbe protetto tutti noi, mentre l’altro usava persino le scale del palazzo per mettersi in mostra, scendendo di volata per ravviarsi il ciuffo. A lui mamma le faceva passare tutte, a me no. Mi s’insinuava nel cuore una serpe, che mi suggeriva improbabili conclusioni per quella serata di primavera: l’indomani quel cappotto -enorme ai miei occhi- che restava a penzolare sull’attaccapanni all’ingresso non ci sarebbe stato più. E le cene chiassose, con i rimproveri sarcastici rivolti ai più grandi e parolacce ad hoc che in bocca ad un altro sarebbero suonate solo volgari, e invece dette da lui sembravano oracoli di Delfi volti a spiegare l’universo? No, mi dicevo, adesso arriva e l’universo si ricompone.
La domenica successiva, forse per allontanare quello spettro immondo, ci disse di prepararci: gli piaceva guidare, forse evitava i pensieri ad ogni curva che affrontava e con l’Alfetta rossa ci portò in costiera. Io invece m’incantai: muto contemplavo una natura impervia, forse inaccessibile, che in quella domenica di marzo si svelava solo a tratti, fra le nuvole e uno sprazzo di sole a ferirmi gli occhi. I miei otto anni rendevano sovrumana quell’impresa che vagheggiavo, ma nulla allora mi sembrava troppo difficile: pur di assomigliare a lui avrei fatto qualsiasi sacrificio, e a volte questa necessità mi metteva in rivolta, come se tradissi me stesso. Così mi allontanavo rabbioso e scendevo giù a dare calci al pallone, finché la sudata ricacciava anche i pensieri e mi gettavo -incurante dei rimproveri- sulla poltrona di papà aspettando la cena. Rientrato mi prendeva per la nuca, come un gattino, guidandomi verso il bagno: avrei voluto gettargli le braccia al collo, annullare la distanza tra la sua autorevolezza e il mio amore, ma restavo silenzioso fino a un’estrema protesta che non funzionava mai. Làvati, e non c’erano repliche. Ancora bagnato restavo in piedi emulando i rituali del bello di casa, mi ravviavo i capelli, ma sfuggivano da tutte le parti, e lo specchio restituiva un istrice imberbe che si produceva in boccacce. Forse proprio quegli scatti, le ombre sul viso, li avevano indotti a iscrivermi a un rigido istituto religioso, mentre i miei fratelli erano stati destinati alle scuole pubbliche: si trovava nella parte alta della città, in realtà era una residenza borbonica appartenuta a uno dei nobili martiri dell’effimera rivoluzione del 1799, e per una beffa del destino da un padrone illuminista era divenuto un covo di suore. Il tempo scorreva infinito lì dentro, e quando d’inverno non si poteva uscire fuori anche i giochi nel salone delle suore mi sembravano noiosi, finché durante un pomeriggio piovoso non mi rifugiai nel corridoio più lontano per stare solo. Sentivo quel giorno di aver subito un’ingiustizia e m’allontanai dal mio gruppo con gesti bruschi: il corridoio finiva in uno stanzone usato per riporre negli armadietti delle quarte i cestini con il cibo portato da casa.
Vidi lei. Una lunghissima treccia color delle castagne lucenti di pioggia ondeggiava ben oltre la schiena di una bambina di certo più piccola di me: perché non era con le altre? Sembrava fosse sul punto di riporre qualcosa: le bambine avevano tutte un grembiule verde acqua e lei sembrava una creatura marina incerta se ritornare sui propri passi o guizzar via con un tuffo da quell’aria plumbea, che si spandeva d’intorno. Leggeva, tenendo il libro mezzo nascosto, con una minuscola ruga che le attraversava in verticale la fronte e un sorriso inimmaginabile. Non era lì, chissà la storia di quelle fitte parole dove l’aveva condotta: quando si voltò, mi si palesò una bambolina di porcellana cinese, il viso era dominato da occhi che avresti detto piumati per la lunghezza e la bellezza delle ciglia che incorniciavano le iridi brillanti e scure, gli occhi sorridevano anch’essi malgrado la concentrazione della lettura, erano raggi di un sole che non c’era. Fu una frazione di secondo, non ebbi la forza di nascondermi: io credevo d’essere sfrontato, invece ammutolii. Arrossì scoperta, e corse via: i suoi capelli sembravano chiamarmi, mi sussurravano di raggiungerla, rassicurarla che non avrei rivelato il suo segreto, ma i piedi non si mossero di un millimetro. Svanì.