L’intervento, Beatrice Lininger_ Pinerolo(TO)
Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani
Il treno sarebbe partito di lì a momenti: si percepiva nell’aria quell’odore di carbone bruciato, segno che il mezzo era pronto; le rotaie avrebbero dovuto iniziare a fischiare e tutto il meccanismo si sarebbe messo in moto, pronto a giungere verso una nuova destinazione, un nuovo paese, nuove persone. Dico “avrebbero” perchè quel rumore mai nessuno lo percepì, così come nessuno sentì l’urlo del capotreno nell’annunciare la partenza, i passi affrettati dei passeggeri che si accalcavano alle porte per prendere i posti migliori.
Completo silenzio.
Ecco cosa regnava in quella stazione: un sottile e malinconico silenzio, che si districava tra gli spazi senza curarsi del resto.
Vi starete chiedendo come sarà possibile tutto ciò? Non può essere il mondo reale…vero?
Nulla in realtà era cambiato, solo che ormai già da tempo i rumori non esistevano più. Da quando era scoppiata la prima bomba nucleare, il Governo aveva deciso che per prevenzione tutta la nazione si sarebbe dovuta sottoporre ad un breve e semplice intervento. L’appuntamento era lo stesso per tutti e si sarebbe tenuto il 9 novembre. La TV, i giornali e le locandine appese in ogni dove erano state chiare: “
Tutti i cittadini dovranno recarsi al St. John’s Hospital di Londra alle ore 9:00 del 9 novembre per sottoporsi ad un intervento necessario alla sopravvivenza. “. Noi per l’occasione avevamo preso la macchina perchè sì, abitavamo a Londra, ma verso la periferia ed eravamo in cinque in famiglia, quindi la macchina sarebbe stata decisamente più comoda. Ci presentammo davanti alle porte dell’ospedale alle 8:35, nel tentativo, invano, di andarcene quanto mai prima. Davanti a noi si stendeva una fila immensa di donne che schiamazzavano, bambini frignanti attaccati alle gonne delle madri e padri che continuavano a borbottare.
Ci divisero in tre grandi gruppi, i soliti: uomini, donne e bambini. Ci fecero togliere tutto ciò che era ritenuto da loro superfluo ( ossia qualsiasi cosa eccetto i nostri vestiti e le nostre scarpe) e ci fecero accomodare nelle rispettive sale d’aspetto.
Mi guardavo attorno, e nonostante mamma mi avesse spiegato chiaramente cosa avremmo fatto quella giornata, e così anche tutti gli altri, io fremevo dentro, covavo nel profondo quella sensazione di ansia e di vuoto, mi sentivo all’oscuro di qualcosa che mi prefiguravo come ancora più macabro.
A dire la verità non ero mai stata sottoposta ad un intervento: il mio frequentare l’ospedale, così come quello della mia famiglia, si limitava alle banali visite annuali di controllo: “ Si, va bene, la ragazzina è apposto, può andare.”. diceva sempre il dottore. Intanto i gruppi si stavano sfoltendo e le persone che uscivano dalla sala operatoria mi sembravano pressoché uguali, non c’era nessuno che lamentava particolari dolori.
Venne il mio turno.
Un’infermiera mi chiamò: “ Caroline Smith?”. Mi avvicinai alla donna, senza fiatare, all’epoca ero molto timida. Misi piede nella stanza dove a breve avrei fatto l’operazione: era un’enorme stanza bianca, pareti bianche, mobili bianchi, pavimento bianco. Nessuna finestra. L’infermiera mi fece sdraiare su un lettino, anch’esso bianco e aspettai finchè non arrivò il dottore. Il lettino su cui ero sdraiata venne incastrato all’interno di un grande marchingegno, dal quale vedevo solo bianco. Quel mostro di metallo mi sovrastava, facendomi sentire vittima di chissà quale complotto.
A dire la verità i ricordi di quel giorno sono nella mia mente un po’ offuscati o forse semplicemente non fu così tragica come tendo a descriverla, forse non occupò neanche tanto tempo. Venni accompagnata gentilmente fuori dalla stanza color latte dalla altrettanto cortese infermiera e prima di lasciarmi ricevetti un paio di paraorecchie bianchi. Sulla parte sinistra presentavano le iniziali dell’ospedale : St.J.H. “ Indossali fino a stasera prima di andare a dormire tesoro caro, e mi raccomando, non toglierli durante il resto della giornata per alcun motivo, o ne andrà della tua stessa salute. Non vuoi stare male, vero tesoro caro?” aggiunse la donna in bianco, sorridendo.
Quando finirono tutti nella mia famiglia, ci incamminammo, ciascuno rigorosamente con il proprio paraorecchie bianco, verso la macchina. Papà aveva l‘aria tranquilla, mamma chiaccherava con mia sorella e mio fratello sonnecchiava a fianco a me.
Non capivo. Tutti sembravano a loro agio, come se l’essere appena stati sottoposti ad una operazione ignota fosse cosa da tutti i giorni. Stessi visi, stesse persone. Io ero un’altra. Per di più lamentavo uno strano dolore proprio alle orecchie, ma non avevo né il coraggio di togliere i paraorecchie né tantomeno di preoccupare mamma.
Quando però mamma mi porse poco dopo una domanda, riuscì a malapena a risponderle. “ Ei Rory, ( così mi chiamano in famiglia fin da quando sono piccola ) che ti prende, stai bene?” . Sentivo la mia testa come immersa sott’ acqua, l’equilibrio che mi mancava nonostante fossi seduta sul sedile, la gola secca e i suoni erano completamente ovattati.
Appena tornati a casa salii le scale per raggiungere camera mia. Mi tolsi i paraorecchie e presi sonno verso le 9.
La mattina seguente il mondo era come prima, io ero come prima. Scesi giù dal letto, infilai pantofole e vestaglia, mi avviai verso la cucina e lì, girata di spalle, c’era come sempre mamma che trafficava tra i fornelli. Come tutte le mattine la chiamai: “ Buongiorno mamma!”.
Zero.
Nessuna risposta.
Continuai altre tre volte.
Niente. Il nulla cosmico.
Mi avvicinai verso di lei e cercai di farmi notare ma il suo sguardo era perso, fisso nel vuoto, occhi spalancati e bocca chiusa, come le saracinesche dei negozi. Quando mi vide mi salutò, ma faceva fatica a sillabare poche parole: “ C-i-a-o t-e-s-o-r-o.”. Che strano. Forse era stanca. Ripetei l’esperimento con gli altri quattro membri della famiglia. L’unico che pareva sentirmi era Toby, il nostro San Bernardo.
Quella mattina mi preparai da sola la colazione: pane, burro e zucchero. A fatica papà mi disse che mi avrebbe accompagnato quel giorno lui a scuola con la macchina: non accadeva quasi mai poiché ero solita prendere il pullman. Non parlammo per tutto il tragitto, o per meglio dire io cercai di intavolare qualcosa ma papà non mi ascoltava, aveva come l’udito non funzionante.
Lo salutai e mi avviai verso scuola. Ero leggermente in ritardo e quindi corsi per raggiungere il più in fretta possibile la mia classe, ma nel farlo inciampai e caddi addosso alla porta della mia classe, creando un baccano allucinante che si sarebbe potuto sentire dal giardino.
Nessuno venne a controllare cosa fosse successo. Entrai in classe e si ripetè la stessa scena della mattina, la stessa che io in macchina avevo provato il giorno prima ma che ora mi appariva completamente estranea. I bambini fissavano i loro fogli, la maestra scriveva alla lavagna, nessuno parlava e nessuno sentiva. Io, un fantasma.
Ma un fantasma non potevo esserlo giusto? Alla fine sia mamma che papà mi avevano vista e anche se a fatica avevano risposto alle mie domande, il banchetto di scuola rimaneva per giunta sempre lo stesso.
Era il resto ad essere cambiato. Quello che ai miei occhi era monotona quotidianità, era per gli altri diverso. O forse era il contrario? Io continuavo a sentire, gli altri sembravano sordi, io parlavo e nel farlo scandivo apertamente le parole, gli altri facevano fatica a formulare mezza frase.
Viaggiai nei miei dubbi per settimane fin quando il 15 dicembre, a dieci giorni da Natale, su tutti i giornali inglesi venne pubblicata in prima pagina una notizia: “ Uomo quarantenne trovato morto sul luogo di lavoro, con entrambe le orecchie recise. I medici confermano a seguito dell’autopsia che non si era sottoposto all’intervento prestabilito.”. Ovviamente l’intervento a cui la stampa faceva riferimento era quello del fantomatico 9 novembre.
Stentavo a credere che quell’uomo non si fosse sottoposto all’operazione obbligatoria, e nel farlo mettevo in dubbio anche la sua stessa morte, in particolar modo il dettaglio delle orecchie. Mi chiedevo se fosse stato come me, se magari si fosse sottoposto all’intervento ma semplicemente non avesse ottenuto i risultati uguali agli altri, se fosse stato ancora in grado di sentire e di parlare. E fu proprio da quel momento che cominciai a sentirmi in pericolo, a percepire la mia diversità come difformità. E più vivevo, più mi sentivo esclusa, in un mondo dove i rumori non esistevano più e le parole si dissolvevano nell’aria, sempre più flebili e sfocate.
Perché sentivo? Perché gli altri avevano dimenticato di possedere l’udito e invece le mie orecchie funzionavano ancora? Cosa era veramente successo quel 9 novembre? Volevo essere come il resto, omologarmi alla massa e non uscirne mai più e per riuscirci dovevo fingere, o sarei finita sicuramente come l’uomo del giornale.
L’effetto dell’operazione sulla gente era ormai chiaro: niente parole, niente ascolto, niente ascolto, niente parole. Sarebbe però sbagliato immaginare la nuova realtà in cui ero più o meno consciamente immersa come silenziosa; semplicemente non c’era più rumore. Le regole erano cambiate perchè quando si comunicava lo si faceva per iscritto e in casi di estrema urgenza si usava il linguaggio dei segni, anche se ciò raramente accadeva. Il non riuscire ad ascoltare aveva portato le persone a dimenticarsi come si parlava e così via come una reazione a catena: la TV era solo un insieme caotico di immagini, la radio non esisteva più e le manifestazioni si erano completamente sciolte come un ghiacciolo sotto il sole estivo.
Innegabile l’evidenza, inspiegabile l’accaduto. Gli esseri umani non erano più quelli di una volta ; ciascuno andava per la propria destinazione a passo costante, senza mai voltare lo sguardo per soffermarsi su di un particolare che fosse al di fuori della propria traiettoria, non uno contro corrente, omologati nelle loro espressioni plastiche, nel loro essere così perfettamente uguali.
Il Governo tramite le testate giornalistiche pubblicava con sempre più frequenza notizie di uomini e donne che morivano in circostanze “sospette”; causa del decesso: soggetto mancante di intervento; dettagli orecchie ( come al solito) recise.
Ero certa che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a sapere della mia condizione, quella di una bambina “prodigio”. Qualcuno da qualche parte e in qualche luogo mi udiva e io udivo lui.
Aspettavo la morte, e intanto ascoltavo.