I racconti del Premio Energheia Europa

L’isola, Bernardo Fortuna Rebelo e Silva

Racconto vincitore Premio Energheia Portogallo 2024

Traduzione a cura di Maddalena Pierini

Ci sono cose che gli uomini non riescono a sopportare. A volte cose troppo complesse, altre troppo semplici. Cose tenute nascoste da una fonte sconosciuta, che non siano fatte o programmate, ma velate dalla cadenza occulta del tempo e dalle inflessioni incomprensibili dello spazio. Lì, in quei furtivi scorci di comprensione, si trova l’essenza di ciò che è accaduto sull’isola.

Mentre mi preparo a raccontare, si potrebbero tenere lunghe conversazioni sulle sue cause originarie e sulle radici dei suoi perché. Ma preferisco non arrischiarmi in supposizioni, rimanendo piuttosto nella sicurezza di narrare solamente cosa accadde.

L’equipaggio aveva già tracciato il proprio destino quando la barca infranse la superficie dell’acqua e si lanciò verso l’orizzonte. Ma in alto mare chi decide non sono i marinai né i capitani e tre giorni dopo, tra increspature e valli d’onde, manovrati dalla vertigine del mare e dal nero del cielo, infine privati del respiro e del sonno, si ritrovarono in acque estranee alla loro memoria. Acque calme, con cieli improvvisamente sereni, che creavano una pienezza di blu che solo la barca spezzava. Sebbene la quiete cullò tutti in un beato riposo per le prime ore, non ci volle molto prima che l’urgenza di sopravvivere si ripresentò. Avendo perso gran parte delle provviste, dovevano raggiungere la terraferma, qualunque essa fosse, nella speranza di trovare acqua, cibo e il tempo per elaborare un piano di ritorno. Approfittavano del leggero vento che increspava la superficie dell’acqua, ma si muovevano poco. I loro occhi, nel frattempo, non smettevano di cercare in lungo e in largo, lungo l’ultima linea, una qualsiasi sporgenza.

Per giorni non apparve nemmeno una nuvola che potesse essere scambiata per una collina o una barca e gli animi andavano spengendosi gradualmente, in contrasto con la luce cristallina del cielo e la superficie specchiata di quel mare immobile. Gli occhi erano disillusi dalla ricerca a tal punto che quando videro l’isola stavano praticamente già davanti a essa, come se fosse apparsa spontaneamente a babordo mentre loro guardavano dall’altra parte.

Improvvisamente rianimati, ebbero nei volti dei loro compagni la conferma che la terra non era un miraggio. Guardando ancora e ancora la lunga striscia di spiaggia che circondava la fitta giungla, l’ansia alimentata dalla speranza lasciava spazio alla gioia.

Ancorarono la barca e calarono le scialuppe. A turno, tirando a sorte per scegliere chi sarebbe sbarcato per primo, arrivarono a riva branchi di marinai, quegli strani pesci che finiscono sempre per cercare la terraferma. Alcuni si abbracciavano al suolo, altri si inginocchiavano sulla sabbia fine con le spalle rivolte al mare, ma ben presto si misero in piedi, osservando ammutoliti il paesaggio che avevano davanti. Il gorgheggio della vita tra gli alberi – il fruscio di ali nascoste, i forti fischiettii degli uccelli, il lungo gracchiare di anfibi lascivi, il riverbero continuo di insetti senza nome – era una fitta trama di suoni che si sovrapponeva al dolce infrangersi delle onde. Alcuni marinai, ancora increduli di fronte a tale meraviglia, ripetevano a se stessi “Sono vivo, siamo arrivati alla terra ferma” e gli altri, sentendo, mormoravano anch’essi “Sono vivo, siamo arrivati alla terra ferma”. Sì, erano vivi, ma dovevano restarlo.

Il capitano organizzò i gruppi e divise i compiti. Alcuni disegnavano mappe, altri cercavano cibo, acqua o riparo e si addentravano nell’isola, segnando sentieri e prendendo appunti su ciò che scoprivano. Tuttavia, divenne presto evidente che non sarebbe stato necessario un grande sforzo per trovare ciò di cui avevano bisogno. La sfida più difficile sarebbe stata quella di superare lo stupore fornito da ogni panorama incontaminato o sguardo attento.

Solo sulla spiaggia c’era una sfida sufficiente, dove la sabbia si colorava alternativamente di ori, bianchi e neri vulcanici, ripetendo e intervallando la scala di colori come un mosaico geologico che fungeva da ingresso all’isola. Superando questo soffice benvenuto, ben presto si ergevano montagne popolate da verdi esuberanti. Una fitta giungla faceva risplendere le cime degli alberi con i loro colori più vividi, foglie verdi traslucide alla luce del sole, bordi arancioni che emergevano dai tronchi e si estendevano nelle venature del fogliame, altre foglie dai toni blu facevano capolino in alto per avere diritto alla luce. Ancora più sotto le chiome, i verdi spenti sostenevano la vivacità delle foglie più in alto, scurendosi gradualmente come per un rispetto estetico dei contrasti, lavorando con il sole per far risaltare la ricchezza cromatica dell’ecosistema. Ogni pianta era una preziosa ripercussione di un disegno intricato, che si fondeva insieme alle radici e ai tronchi, emanando aromi dolci e leggeri da ogni poro. Da quasi tutti gli alberi pendevano frutti, alcuni piccoli e succosi, altri più grandi e fibrosi, anch’essi dagli odori tenui e dai colori vivaci, che invitavano all’appetito. L’equipaggio, con cura, raccolse prima ogni tipo di frutta e alcuni marinai vennero incaricati di assaggiarli, dato che non c’era in quel luogo nessuna specie di frutta che fosse a loro conosciuta. Ma la fame era così grande che subito dopo l’assaggio e vedendo il volto deliziato dell’assaggiatore, cominciarono subito a mangiare anche gli altri.

Una volta soddisfatta la fame, l’entusiasmo aumentò. Un impeto di curiosità li spinse infatti, aumentando il numero di uomini in fila con i machete in mano che si facevano strada nella foresta. C’erano alberi che sembravano edifici; liane sospese spesse come gambe; radici scolpite attraverso le quali scorrevano ruscelli d’acqua; fiori viola, rosa e turchesi che sbocciavano direttamente dai tronchi. Dopo aver risalito un pendio in cui tutti questi elementi si coordinavano in un meccanismo in perfetta sintonia, presto si scorgevano delle vette che si ergevano, nascoste dalle nuvole, intorno a una depressione del terreno da cui si dipanava la nebbia. Rimasero sbalorditi dalla grandezza delle rocce e dalla placidità delle montagne. A vedere l’acqua in continua caduta libera dal fianco scosceso della montagna, la loro piccolezza umana diveniva evidente, ovvia, e con il fiato trattenuto ripeterono a bassa voce, con gli occhi che vagavano sul paesaggio: “Sono vivo”.

Sentendosi vivi e accolti dalla bellezza, rimasero lì. Anche se nel giro di poche settimane erano state raccolte abbastanza provviste e tutti volevano tornare alla grande civiltà, c’era una certa resistenza ad andarsene. Avevano instaurato con l’isola un rapporto di ammirazione quasi devota che temevano di perdere per sempre, quindi ogni motivo che potevano trovare per rimandare il loro ritorno era sufficiente a raccogliere consensi.

Dopo pochi mesi, avevano già costruito le loro capanne, definito le loro routine e mappato gran parte dell’isola. Ma ogni piano di costruzione dispendioso in termini di tempo ricordava loro che questa non era la loro terra e che, lontano, ne avevano lasciata un’altra. Così, quando iniziarono a discutere di come costruire un sistema fognario, diventò evidente che dovevano fissare una data e partire. La nostalgia per ciò che si erano lasciati alle spalle e il bisogno di donne spinsero verso tale scelta. I rifornimenti erano pronti, il piano di rientro era pronto. Da lì a due settimane sarebbero partiti.

Era sicuro che tutti progettavano di tornare sull’isola, alcuni addirittura di trasferirvisi definitivamente dopo aver stabilito le rotte e averla inserita nel mappamondo. Ma c’erano altri che diffidavano nel successo di un simile ritorno e consideravano questi giorni in quella terra come gli ultimi. Uno di loro, un primo ufficiale, decise di esplorare ogni angolo dell’isola prima di partire. Non voleva andarsene con il rischio di credere che da qualche parte in mezzo all’Oceano ci fosse un luogo inesplorato dove nessun altro sarebbe tornato. Non è stato per curiosità che stava affrontando questa missione d’addio, ma per un senso di responsabilità. Dal momento che nessun altro si sentiva di condividere questo fardello, si avventurò da solo attraversando l’interno dell’isola, evitando i sentieri già tracciati dagli uomini e imbattendosi in nuove piante e animali.

Farsi strada nella giungla fitta era difficile, soprattutto da soli. Così camminava e dormiva in un rifugio improvvisato ogni notte, addentrandosi sempre di più nella foresta inesplorata. Lui non avanzava nella speranza di trovare nel cuore dell’isola un tesoro o un mistero perduto. Andava avanti per ostinazione, perché aveva bisogno di sapere di aver visto quella terra nella sua interezza, come se stesse svolgendo un compito che gli era stato assegnato alla nascita, che era essenziale soddisfare per sentirsi umano. E ancora una volta si sentì piccolo, umano, dopo due giorni di calpestio di terreni inesplorati quando si imbatté nel paesaggio: circondato dalle montagne vi era una gola profonda che bucava la terra; la vegetazione che ricopriva l’intera roccia, sporgendosi e scendendo attraverso quell’apertura. Il sole splendeva attraverso la maestosità dei monti, intervallato dall’ l’umidità che la terra emanava; i minerali scintillanti che si intravedevano all’ombra di alberi millenari, risplendendo nei toni dell’azzurro e del verde perlaceo; il terreno fangoso dal colore rosso, la roccia nera da cui sgorgano cascate senza numero e al centro quella caverna a cielo aperto, ruggendo con il rumore delle onde intrappolate, intorbidendo l’aria densa sopra di essa.

Rapito dal fascino, si avvicinò al bordo di questa apertura colossale. Davanti ad essa il cinguettio degli uccelli si fondeva con le onde ricreando un suono sciamanico e il terreno tremava per la forza titanica del movimento delle acque. Mentre stava per inciampare nell’abisso, si rese conto che lo circondavano diverse costruzioni in pietra. Ogni dieci passi c’era uno di questi piccoli rettangoli sostenuti da altre tre pietre circolari. All’interno di questi rettangoli, spostando la lastra che gli fungeva da copertura, c’era un piccolo baule fatto di una pietra scura e leggera. Il primo ufficiale cercò di aprirne uno e poi un altro, ma la pietra si era fusa in una sola e ci sarebbe voluto più delle sue mani per romperla. Quando sarebbe tornato, avrebbe presto scoperto il contenuto, pensò tra sé e sé. Rimase lì per la notte, in modo che il giorno dopo potesse iniziare il viaggio di ritorno alla barca e il ritorno definitivo a casa. Era questo, per lo meno, quello che aveva pianificato. Quella notte, prima che il sole sorgesse, un urlo umano squarciò il silenzio della luna, ma con esso si alzarono tutti i suoni della giungla, come se si arrampicassero gli uni sugli altri per attutire il rumore. Il primo ufficiale si spaventò, ma illuso dalla sicurezza che il rumore gli offriva, ignorò la sua preoccupazione e iniziò il suo viaggio di ritorno.

Il sentiero ben battuto è più facile da percorrere e, anche con uno baule in mano, non impiegò nemmeno la metà del tempo per tornare alla spiaggia. Tuttavia, la spiaggia a cui stava tornando non era la stessa da cui era partito. Sì, la barca era ancora ormeggiata lì, le scialuppe sospese sulla sabbia. Ma non c’erano uomini. Le capanne vuote, improvvisamente abbandonate. Non potevano essersene andati, la barca e le provviste erano negli stessi posti, ma dove se ne sarebbero andati allora? Il primo ufficiale si addentrò nuovamente nella foresta, cercando di seguire i sentieri battuti, i luoghi di sosta comuni, le cascate che venivano comunemente utilizzate. Ma la giungla aveva già riconquistato buona parte dei sentieri e questo significava che nessuno li percorreva.

Riaprendo senza ritegno vecchi legami, gridò i nomi dei suoi compagni e, mentre strappava le foglie con il suo machete, si maledisse per essere partito da solo in una spedizione inutile ed egoista che non serviva a nessuno se non alla sua ostinazione.

Pensò tra sé e sé, in preda all’angoscia, che tutti gli altri erano stati salvati da un’altra nave e che non avevano potuto aspettarlo. Cercò di tranquillizzarsi pensando: “forse sono semplicemente andati a cercarmi. Sì, non mi lascerebbero qui”. Ma questa calma durò solo un momento, perché quando vide altri due percorsi senza persone, ricominciò a preoccuparsi e a predicare contro se stesso e contro l’equipaggio che lo aveva abbandonato.

Con il calare della notte, calarono anche le sue forze. Si sdraiò esausto contro il tronco di un albero, guardando dritto davanti a sé senza davvero far caso a ciò che vedeva. Lì, tra le fronde sovrapposte, con radici che spuntavano dal terreno, c’era un volto. Lo vide senza vederlo davvero, ma quel viso restituì un debole sguardo che lo fece trasalire. Era un volto, una persona. Il capoguardia.

Era disteso lì, inghiottito dalla vegetazione, lui stesso quasi vegetazione. Si avvicinò a lui, toccandogli il polso, ascoltando il respiro. Era vivo, ma era come se non lo fosse. Gli chiedeva in preda al panico cosa fosse successo, ma si scontrò con quegli occhi aperti, giallastri, sospesi nel vuoto.

Come se sbloccasse uno schema fino ad allora ignorato, iniziò a camminare verso la spiaggia, ritrovando i volti dei suoi compagni nella giungla. Sospesi in aria in bozzoli di liane, corpi fusi ai tronchi, gambe e braccia sostituite da steli. Correva per questa foresta di marinai intrappolati dalla terra senza scelta, e cominciava nuovamente a maledirsi per averli abbandonati.

Pensava, dominato dalla superstizione, che sarebbe stato quel baule, spogliato del suo luogo di riposo, a far cadere sugli uomini l’ira di qualche divinità. Quel maledetto baule. Ma il baule era solo una pietra sigillata che custodiva qualche oggetto dal mondo fisico. Non c’era alcun legame mistico che potesse attribuirgli la responsabilità di eventi più grandi.

In procinto di raggiungere la spiaggia, il primo ufficiale si guardò indietro e vide che non c’erano solo uomini consumati dalla foresta. Uccelli giacevano inerti al suolo, rane a centinaia percorrevano rigide i corsi d’acqua, alcune piante si contorcevano e le loro foglie annerite appassivano. I disegni dei fiori, dei frutti e delle erbe cambiavano a occhio nudo. E così l’intera isola si evolveva, accogliendo docilmente una nuova specie, promuovendone lo sviluppo e l’equilibrio, nutrendola con questa o quella pianta per poi farne nascere un’altra uguale che avrebbe portato morte invece che nutrimento. In un lampo di lucidità, si rese conto che l’isola li aveva sedotti, nutriti, sostenuti con un ordine che permetteva alla vita di prosperare. Si adattarono a quest’ordine, promossero persino la vita con l’ingenuo pensiero che questa appartenesse a loro-inconsapevoli della sua reale natura e fedeltà: il caos.

Credendo che l’isola fosse la fonte di questa perversione, il primo ufficiale cercò di fuggire salendo su una barca con il baule. Ma riuscì solo a soccombere, esausto, in riva al mare. Non avrebbe lasciato l’isola, ma il baule avrebbe attraversato l’Oceano fino a raggiungere la civiltà.

Mesi dopo, i titoli dei giornali avrebbero recitato: “Scoperto il fossile del più antico antenato umano”.

Questa scoperta sarebbe diventata nota come la Scatola di Epimeteo.

Bernardo Fortuna Rebelo e Silva