L’ultima stoccata_Roberta Sorrentino, Casoria(NA)
_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.
“E’ bello qui; hai scelto benissimo”.
“Davvero ti piace?”
“Sicuro”.
“Se non vuoi, possiamo anche distenderci un po’ e rimanere abbracciati”. “Io lo desidero, più di ogni altra cosa…”
In quel momento guardai gli occhi di Sara, due magnifiche mandorle verdi, illuminarsi di una luce nuova, diversa, ma forte come quella del sole di cui le ciglia, truccate con abbondante mascara, erano i raggi, caldi ed avvolgenti; ma ancora più intriganti erano i suoi fianchi stretti e adolescenti, le bianche ed esili spalle che fuoriuscivano dal top rosso (destinato a ricoprire il pavimento nel giro di pochi istanti), i seni a punta, piccoli e teneri, come due manciate di neve fresca alla quale la saliva incandescente della mia avida lingua agognava per placare la sua arsura erotica. Cominciai ad accarezzare quei neri e voluminosi riccioli che le ricoprivano la schiena fino al fondo, dove sporgevano gli scultorei glutei, ancora ricoperti dai jeans che io, senza esitare un attimo, le strappai di dosso con molta foga, ritrovandomi, di lì a poco, ad inalberare il vessillo della mia virilità nei meandri più oscuri del suo piacere, fino ad allora rimasti inespugnati come il tempio di Pallade che io, alla stregua di Aiace Oileo, mi accingevo a dissacrare nutrendomi della purezza di Cassandra ai piedi della divina statua. Avevo questa impressione mentre amavo in modo così anaspirituale quella ragazza da me considerata, fino a un anno prima, poco più che una bambina; eppure in quella circostanza dava il meglio della sua inesperta sensualità, cingendomi il collo con le sottili braccia. Sara, Sara; nome di origine ebraica che significa “principessa”, “signora”; principessa del mio cuore, signora incontrastata delle mie più perverse ed inconfessabili fantasie, signora di raffinatezza, buone maniere e di un contegno atto solo a celare il più ardente dei fuochi, inviso alla società borghese e conformista di cui aveva sempre fatto parte. Il verde intenso delle sue mandorle aveva in poco tempo offuscato i miei dubbi, come il fitto verde di una boscaglia inghiottisce il chiarore del giorno per lasciare spazio ad un buio misterioso ma affascinante; lo stesso buio che ci avvolgeva in quella lussuosa camera d’albergo che avevo scelto per aggiungere l’ultimo tassello mancante al mosaico dei nostri sogni. Il più acuto dei suoi gemiti segnò la fine di un’innocenza ormai perduta o, forse, mai esistita; così Sara si addormentò stremata.
Mentre si beava tra le braccia di Morfeo non riuscivo a smettere di guardarla e di sfiorarle le gote vermiglie d’amore: mai avevano assunto un colorito simile, abbandonando il loro consueto pallore; anzi no, era lo stesso rosso che avevo visto comparire sul suo viso quando bussai alla porta di un appartamento al settimo piano di un edificio condominiale e, timidamente, chiesi: “E’ questa casa Medina?”
“Certo! –, mi rispose la voce un po’ fioca di una ragazza in jeans e maglioncino blu. – Tu devi essere Alex!”
“Già”.
“Piacere, Sara. Sara Medina. Prego, accomodati”.
Disse gentilmente aiutandomi a sistemare il giubbino sull’appendiabiti. Sara m’invitò a seguirla attraverso un corridoio lungo e stretto sulla cui sinistra si apriva la porta di una piccola camera dalle pareti verde acqua, con tanto di letto a ponte, scrivania in legno chiaro e tre mensole verdi che, non potei fare a meno di notarlo, erano colme di trofei di scherma; questo riportava la mia memoria ai pomeriggi trascorsi dal mio amico Giuliano durante il liceo; anche lui praticava lo stesso sport e, siccome ne parlava spesso e con grande entusiasmo, aveva finito per inculcarmi le regole fondamentali e alcuni termini basilari della scherma, sebbene il mio animo semplice mi avesse sempre impedito di apprezzare fino in fondo quest’ attività che ritenevo troppo obsoleta. Ci sedemmo sulle due sedie sistemate accanto alla scrivania; Sara, da un cassetto sulla sua destra, tirò fuori una computisteria a quadretti sulla quale era solita prendere appunti di matematica (o, almeno, ci provava).
“Non ne posso più! Accidenti, questa materia è davvero incomprensibile. Non capisco un bel niente di trigonometria e a Giugno c’è anche una bella maturità classica che mi aspetta!”
Esclamò Sara con un mezzo sorriso d’ironia che, mise in evidenza le fossette sulle sue guance, ancora rosse (per imbarazzo? Per vergogna? Chissà).
“Non preoccuparti, vedremo quello che si può fare…”, la incoraggiai; poi iniziai a sfogliare, non senza molte perplessità, il disordinatissimo quaderno, spiegandole la trigonometria fin dalle basi: seno, coseno, tangente, co-tangente… eccetera. Lei ascoltava con un certo interesse e sembrava persino apprezzare il mio metodo, nonostante fosse così presa dagli esercizi che non mi degnava neppure di uno sguardo.
Terminata la lezione, Sara mi pagò e andai via appena lei ebbe fissato il nostro successivo incontro pomeridiano di lì a tre giorni, sempre alla stesa ora. Così, nel giorno prestabilito ritornai in casa Medina, rendendomi conto, però, di un fatto singolare: Sara era nuovamente sola in quel grande appartamento: “Com’ è possibile? -, pensai. – E’ troppo giovane, per vivere da sola e nessun genitore lascerebbe la propria figlia in compagnia di un perfetto estraneo, per di più, in una casa vuota”.
Durante la lezione, tra un angolo e l’altro, Sara si dimostrò con me molto più cordiale della volta precedente e, quasi senza volerlo, mi svelò l’arcano: era figlia di una ragazza madre che, dal lunedì al venerdì, lavorava tutta la giornata in un’agenzia pubblicitaria: “Ho le chiavi di casa dall’età di undici anni; prima pranzavo dai miei nonni materni che abitavano nelle vicinanze, ma purtroppo sono morti entrambi, così alle scuole medie ho imparato a cucinare e a cavarmela da sola. Sai, noi donne Medina siamo forti”.
“Non ne dubito”.
Replicai con profondo rispetto. Quasi senza accorgermene anche quella lezione terminò.
Durante gli incontri successivi, nonostante ci dedicassimo principalmente alla matematica, Sara ed io entrammo sempre più in confidenza; mi sorpresi, perciò, ad accennarle i miei problemi con la tesi di laurea: “Ti stai laureando in matematica?”
“No, in ingegneria informatica. Sono ormai giunto al traguardo della specialistica”.
“Complimenti. Ma quanti anni hai?”
“Ventiquattro”.
“Ah, davvero? Bè, io te ne davo un po’ di più…”
Disse con una punta di malizia che le fece abbassare il tono della voce; la schermitrice stava, forse, posizionandosi per un attacco? Decisi di stare al gioco per capire quale sarebbe stato il prossimo colpo del suo fioretto: “Quanti me ne davi?”
“Mah, forse una trentina”.
Fece lei alzando le mandorle verdi al soffitto, per poi volgerle velocemente su di me: era la prima volta che mi guardava dritto negli occhi ed era la prima volta in cui notavo che i suoi avevano esattamente la forma di due mandorle.
“Potrei offendermi”.
Le dissi in tono falsamente permaloso o, forse permaloso per davvero, infatti, lei proruppe in una fragorosa risata, mostrando i denti color avorio e perfettamente allineati. Mi preparai ad un’energica parata: “Se ti offendi significa che non hai rispetto per l’ironia. E’una forma d’arte; pensa a Pirandello”.
Con estrema facilità aveva schivato la mia difesa, tentando un allungo che, però, avrebbe richiesto molto spazio; non glielo concessi e replicai subito: “Non vorrai paragonarti a lui, mi auguro”.
“No, nel modo più assoluto. Lo citavo semplicemente come esempio. Nel suo Saggio sull’umorismo, egli attua una netta distinzione tra avvertimento e sentimento del contrario. Qualunque altro ragazzo al tuo posto avrebbe avuto piacere di essere scambiato per un trentenne, si sarebbe dato delle arie, tu, invece, hai avuto la reazione opposta. Questo avvertimento del contrario mi ha fatto ridere. Ma quando ho intercettato il tuo sguardo e l’ho scrutato con cura ho capito che sei persino più maturo di un vero trentenne. La maturità è una rarissima e preziosa controtendenza al giorno d’oggi. Questo sentimento del contrario mi fa sorridere”.
Flèche con stoccata vincente, non c’era dubbio. Pensai che fosse la cosa più naturale di questo mondo associare Sara a Catone il Censore e alla sua massima sull’oratore: “Vir bonus, dicendi peritus”. Se fossi stato Catone e Sara una fanciulla dell’antica Roma, l’avrei definita più o meno così: “Pulchra puella, dicendi perita”.
Le intimai di proseguire i suoi esercizi, ma Sara finse soltanto di ubbidirmi in quanto, appena la punta della sua penna toccò il foglio, un cinico ghigno di soddisfazione sfregiò la bontà dei suoi lineamenti ancora un po’ infantili: “Non prendertela, Alex. Frequento il liceo classico, l’ars oratoria è il mio forte”.
Fino a quel momento nessuno era mai riuscito a squarciare la spessa coltre della mia riservatezza… come aveva fatto una sconosciuta a leggermi nel pensiero? Mi sovvenne subito la risposta: mera casualità. A metà della lezione Sara mi mostrò il capitolo degli angoli supplementari sul suo testo di trigonometria, la cui trattazione, a suo dire, divergeva da quanto le avevo spiegato. Si alzò e si avvicinò alla piccola libreria a lato del letto a ponte, cercò nello scaffale inferiore e, mentre si chinava, dai morbidi pantaloni della tenuta casalinga fuoriuscì l’orlo azzurro di un perizoma: avrei tanto voluto che quel momento si perpetuasse nel limbo di un’eterna abulia; quella visione davanti a me, inaspettata, ingenerata e imperitura come l’essere parmenideo. Purtroppo le mie aspettative inconsce, furono disilluse perché tutto ebbe fine entro pochi secondi. Quando lessi quel capitolo sul libro di Sara capii che la sua incomprensione era dovuta ad una semplice giustapposizione di concetti, diversa da come io l’avevo postulata, ma che aveva messo a dura prova la forma mentis, decisamente poco scientifica, della ragazza. Anche quell’ennesima lezione giunse al termine e, mentre scendevo le scale, mi resi conto che quasi mi dispiaceva aver lasciato quella casa e aver accettato il denaro di Sara; inoltre, tutte le volte in cui avevo dato ripetizioni di matematica ad altri ragazzi non mi trattenevo mai più di un’ora: con lei era diverso; restavo seduto a quella scrivania anche più di due ore e non mi pesava.
Arrivato in strada, entrai nella mia macchina che avevo parcheggiato poco distante e, nell’inserire le chiavi, mi accorsi che la mia fantasia era ormai divenuta un pendaglio da forca, poiché, se si fosse personificata, altro desiderio non avrebbe avuto che morire impiccata all’orlo di quel perizoma. Avevo sempre ammirato Platone, così pensai che la parte concupiscibile della mia anima (il cavallo nero della biga), sarebbe stato propenso ad alzarsi da quella sedia, tenere premuto il corpicino sottile contro quella libreria e poi… ma subito l’auriga intervenne a frenare il destriero imbizzarrito delle mie pulsioni: a casa mi aspettava Clelia, la ragazza con cui stavo per festeggiare il settimo anno ininterrotto di fidanzamento.
Quella sera, dopo aver cenato dai miei, andammo a fare un giro in macchina e, come accadeva sempre più frequentemente negli ultimi mesi, cominciammo a litigare per una banalissima questione legata alla sua morbosa gelosia: “Ti rendi conto che questa per me è un’incredibile opportunità? Il professore ha detto che se farò un buon lavoro con la tesi potrà inserirmi, senza problemi, in quest’azienda di Roma dove, nel giro di 6 mesi, avrò un contratto a tempo indeterminato. Questo significa stabilità non solo per me, ma anche per noi, per il nostro futuro!”
“Non avremo un futuro se andrai a Roma, Alex!”
Esclamò Clelia fra le lacrime.
“Ora basta, ti riaccompagno a casa”.
La serata si concluse in quel modo e i giorni che seguirono furono contrassegnati da episodi analoghi, destinati a peggiorare, dopo la discussione della mia tesi.
Nel frattempo arrivò la primavera e il mese di Maggio rese Sara isterica per la tensione dovuta alle ultime interrogazioni; arrivai persino ad invidiare i suoi problemi, tanto il pensiero delle continue sfuriate di Clelia mi attanagliava la mente: “Problemi con la tua ragazza?”
“Quando ti ho detto di essere fidanzato?”
“Non ricordo con esattezza, comunque non mi hai detto da quanto va avanti la vostra storia”.
“Da 7 anni”.
“Fossero stati di galera, li avresti già scontati!”
Sì, quella battuta arrivava decisamente al momento sbagliato; lo accennai a Sara e, quando lei continuò a pormi altre domande al riguardo, proferii poche parole confuse sulla gelosia di Clelia: “Non esiste dono più prezioso della libertà individuale. Se per un qualsiasi motivo qualcuno tenta di usurparlo, è bene sradicare, in modo netto il problema e allontanare questa persona. Scusami per la franchezza, Alex, ma non mi hai mai dato l’impressione di un ragazzo innamorato, perciò forse è giunto il tempo in cui tu compia quest’importante passo…”
“Ma cosa dici? Chiunque mi conosca, sa bene che tengo molto a Clelia; una storia di 7 anni è quasi un matrimonio, bisogna riflettere bene prima di troncarla, poi…poi… bè, sai, il futuro spaventa, ogni azione ha una conseguenza e…”
“Se tutti avessero ragionato in maniera così limitata, crederemmo ancora alle colonne d’Eracle. Inoltre quando si parla di una storia d’amore, non si può ragionare in termini di “conseguenze” e “futuro ignoto”, perché questo implica una sola cosa: abitudine, motore immobile ed eterno che attira a sé una miriade di rapporti, o meglio, li trascina faticosamente e senza senso, facendo sì che i due componenti della coppia scambino la routine quotidiana per un sentimento consolidato e indissolubile”.
“Hai lasciato a metà l’equazione trigonometrica che stavi svolgendo; continuala”.
Furono queste le prime parole che uscirono dalle mie labbra, in quel momento, ma fu un fatto meccanico, perché in realtà avrei voluto dirle che aveva vinto lei, che era la schermitrice più forte, ma poteva anche smettere d’infierire: “Perché, Sara, perché? Perché seguiti ad affondarmi il fioretto nel cuore con ripetute e dolorosissime stoccate? Riponi l’arma, hai vinto!”
Il fioretto di Sara non infliggeva solo stoccate fatali all’avversario, ma aveva anche la straordinaria e rarissima capacità di penetrare fin nei più reconditi e spigolosi anfratti del suo animo.
Dopo che l’aiutai a risolvere il suo ultimo esercizio, Sara mi comunicò che quella era stata la nostra ultima lezione, in quanto avrebbe voluto cominciare un autonomo programma di ripetizione in vista della maturità. Con la puntualità di sempre mi pagò e all’ingresso, con voce calda e suadente, mi disse: “Grazie, Alex. Senza il tuo prezioso aiuto il debito in matematica sarebbe stato assicurato”.
“Non credo proprio; hai delle buone potenzialità”.
“E delle pessime basi, almeno in matematica. Bè, non mi resta che salutarti. In bocca al lupo per il lavoro e…la tua vita sentimentale”.
Ci scambiammo il consueto bacio sulla guancia, ma alla soglia della porta mi feci coraggio e le chiesi: “Se dopo gli esami ti telefonassi, per sapere come sono andati?”
“Mi farebbe molto piacere; allora…aspetto una tua chiamata”.
“Contaci. A presto!”
Le settimane della maturità trascorsero più in fretta del previsto, eppure non mi sovveniva la risposta al mio pressante interrogativo: lasciar correre l’ennesimo periodo di profonda gelosia che Clelia stava attraversando, oppure decidere che sarebbe stato l’ultimo? Non avevo la minima idea di cosa fare; inoltre sapevo già quali sarebbero stati i consigli degli amici, se li avessi resi partecipi delle mie problematiche: loro detestavano Clelia e il suo carattere istintivo; avevo bisogno di una persona intelligente ma, soprattutto, super partes. La mia scelta ricadde indiscutibilmente su Sara; così le telefonai e fui contentissimo di sapere che aveva conseguito il diploma col massimo dei voti: “Ma veniamo a noi, Alex; immagino tu non mi abbia chiamato solo per congratularti. Quando passerai a prendermi per fare di me la tua consulente sentimentale?”
Come al solito il fenomenale intuito di Sara aveva preceduto le mie parole, così le diedi appuntamento nella tarda mattinata del giorno seguente.
Verso le 10.30 mi trovai sotto casa sua e, dopo aver atteso 5 o 10 minuti, il portone si aprì e la vidi: sobriamente abbigliata con pantaloni bianco candido e un’ aderente canotta rosa dalle bretelle sottili, sandali con la zeppa alta e una borsetta in coordinato.
Tuttavia ero troppo avvilito per lasciarmi inebriare dalle dolci frivolezze di Sara; decisi di mostrarle una bellissima terrazza a strapiombo sul mare. Durante il viaggio, per smorzare l’evidente tensione, lei mi parlò del più e del meno: delle beghe accadute durante gli esami, della sua indecisione sulla scelta della facoltà universitaria ma, in particolare, si soffermò sul più avvincente episodio capitatole nelle settimane precedenti: “Sai, Alex, durante l’ultimo allenamento di scherma, prima della maturità, ho battuto Martina, l’allieva migliore del corso! Ti rendi conto? Il maestro mi ha elogiato davanti a tute le altre compagne che, per giunta, mi hanno accolto negli spogliatoi con un fragoroso applauso. Nessuna di loro ha mai potuto soffrire la presunzione di Martina”.
In quel momento mi ritornò in mente la celebre massima di Catone che avevo riadattato per Sara e mi venne spontaneo modificarla ulteriormente: “Pulchra puella, dicendi et pugnandi perita”.
Appena giunti a destinazione scendemmo dalla macchina e ci affacciammo alla terrazza: “Non ce la faccio più. Ho passato una settimana infernale! Clelia continua a dire che vuole tenermi accanto a sé, che il nostro rapporto ne risentirà troppo se lavorerò lontano da casa. Come fa a non capire che quest’occasione è troppo importante per me? Fra l’altro non saprei neppure dire se l’amo o no… senza parlare di te…”
“Di me? Cos’ha a che vedere tutto ciò con me?”
“Nulla, a parte il fatto che le tue parole sulla mia situazione sentimentale mi hanno colpito molto profondamente, inducendomi a riflettere, inoltre…”. “Perché lasci il discorso a metà?”
“Questa è una mia caratteristica peculiare; se vorrai, ci farai l’abitudine. Lascio un discorso a metà quando c’è una verità che non può essere rivelata”.
“Io voglio che tu la riveli ugualmente, di qualsiasi cosa si tratti. Su, sputa il rospo, ingegnere”.
“Hai vinto. Bè, vedi… mi sono accorto… mi sono accorto che mi piacciono alcuni aspetti del tuo carattere”.
“Per esempio?”
“Meglio non continuare questa conversazione, potresti diventare presuntuosa”.
“Come preferisci. Quanto a te e al tuo cuore pieno di dubbi, conosci già la mia opinione. Repetita iuvant, ma in questo caso non ne vale la pena; è tutto fin troppo chiaro”
… Fra mille pensieri, che non osavo esplicitare alla mia stessa anima, riaccompagnai Sara a casa e mi allontanai velocemente dal palazzo.
Il giorno seguente, in un afoso pomeriggio domenicale, Clelia m’invitò da lei; la casa era libera perché i suoi avevano deciso di trascorrere un po’ di tempo al mare, mentre il fratello era a Londra per una vacanza studio. Quella telefonata mi rese stranamente euforico: forse al nostro rapporto avrebbe giovato un po’ d’intimità che Clelia, ormai, rifiutava da svariati mesi.
Arrivato lì, lei non perse tempo: mi avviluppò in un passionale abbraccio e mi sfilò la t-shirt; poi mi sussurrò all’orecchio: “Io ti amo davvero tanto; promettimi che non andrai via”.
“Possibile tu non riesca a concepire un pensiero diverso da questo? Il tuo cervello si è ristretto, è diventato monotematico!!!”
“Basta, Alex. Così mi spezzi il cuore!”
“Basta lo dico io! E’ finita, Clelia. E’ finita per sempre! Non cercarmi in alcun modo… ”
Infilai rapidamente la maglietta e scesi in strada.
Vagai senza meta per molti metri, poi d’istinto presi il cellulare e chiamai Sara: “Se ti dicessi che sto venendo da te?”
“Ti risponderei che non ci credo”.
“Sara, ho bisogno di parlarti, è un’emergenza. Per favore, fra 5 minuti vienimi incontro, sto arrivando in piazza”.
Senza neanche accorgermene, mi ritrovai a parlare nuovamente con lei, seduto ai tavolini di un bar poco distante da casa sua. La informai che avevo definitivamente troncato con Clelia e Sara ascoltava in silenzio. “Mi sa che adesso devo lasciarti; tra mezz’ora ho un appuntamento con un’amica e non ho ancora finito di preparami”.
“Scusami, sono piombato qui all’improvviso e…”
“Non dirlo neppure: per te trovo sempre un po’ di tempo”.
Arrivammo al cancello del suo condominio; lei lo aprì con le chiavi ed io la seguii nell’androne. Lì, Sara fece per avvicinarsi e salutarmi quando strinsi veementemente la sua vita da libellula, la guardai cogliendo un certo stupore nelle sue mandorle verdi e, in un batter d’occhio, la mia lingua stava già facendosi largo oltre la chiostra dei suoi denti, disegnando ripetute ed intensissime volute di saliva che culminavano in abbracci sempre più stretti.
Toccai il suo fondoschiena liscio e leggermente sudato e stavo per risalire con la mano sotto la maglietta, quando Sara si scrollò il mio peso di dosso: “Ho capito quali aspetti del mio carattere t’interessavano”.
D’un tratto sentii quelle sottili dita diventare pesanti sulla mia guancia. Sara mi aveva dato uno schiaffo e si era allontanata, senza dire una parola. Come avevo potuto deluderla in quel modo? Da quando erano terminati gli esami, non aveva fatto altro che dedicarsi e me: la tempestavo di e-mail, le telefonavo a tutte le ore e lei era sempre lì per me! L’avevo persa? Ma perché l’idea di non vederla più mi spaventava così tanto? In fondo, chi era Sara Medina? Per un anno scolastico era stata una mia allieva, ma come persona la conoscevo da poco più di un mese. Cosa pretendeva da me? Una dichiarazione d’amore con l’anello di fidanzamento?
Come faceva a non capire che stavo appena uscendo da una storia lunghissima e che era stato già abbastanza difficile lasciarmi tutto alle spalle? Decisi di concentrarmi sul lavoro, così partii per Roma e feci un’ottima impressione all’azienda che il relatore della mia tesi mi aveva consigliato. Tuttavia, mi venne comunicato che, almeno per tutta l’estate, avrei dovuto lavorare presso la sede della mia città. Sembrava che la mia vita continuasse a scorrere eppure, quando la mattina accendevo il cellulare o dall’ufficio controllavo la posta del mio pc, fomentavo dentro di me, la segreta speranza di leggere un sms o una mail di Sara; mi sarei accontentato anche solo di trovarmi una sua chiamata ma… niente da fare: le sue mandorle verdi erano solo un lontano ricordo o, forse, addirittura un miraggio.
Ad un certo punto cominciai a domandarmi se fosse realmente esistita. Mi mancava? Niente affatto! In fondo, chi era Sara Medina? La risposta a quest’interrogativo tardava ad arrivare, contrariamente alle continue telefonate del mio ex collega universitario Ivano, il quale mi supplicava di partire con lui e suo cugino per un inter rail a fine Agosto: “Dai, Alex. Si tratta solo di due settimane!”
Senza nemmeno sapere perché, un bel giorno telefonai ad Ivano, dicendogli di aver accettato la sua proposta. Così, quel mattino del 29 Agosto, zaini in spalla e ciascuno con le proprie aspettative nel cuore, salimmo sul treno e partimmo per l’Europa dell’Est.
La compagnia di Ivano e Moreno mi era graditissima ed ebbe un effetto rilassante sulla mia mente travagliata. Ad ogni modo mi tormentava il pensiero che avrei voluto salutare Sara prima della partenza. L’avrei rivista? Forse no. E allora? In fondo, chi era Sara Medina? Era solo la ragazza che avevo visto, o creduto di vedere, in ogni vetrina dei quartieri a luci rosse di Amsterdam. Era solo la ragazza che avevo visto, o creduto di vedere, nelle enormi sale del palazzo di Schombrum a Vienna, con i vaporosi vestiti ottocenteschi della principessa Sissi, mentre le sue mandorle verdi irradiavano luce per un cavaliere che non ero io. Avrei voluto esserlo? Niente affatto.
Da Vienna partimmo per Monaco, penultima tappa della nostra avventura estiva. A poche ore dall’arrivo mi alzai e girai un po’ per il treno; quando ormai eravamo quasi giunti a destinazione notai una graziosa ragazza bionda. Mi avvicinai: “Hi! Where are you from?”
“I’m from Liverpool. And you?”
“I’m Italian. My name is Alex. Nice to meet you!”
“I’m Sarah”.
“Ma è una persecuzione!”
Urlai.
La ragazza mi guardò esterefatta; ovviamente non aveva capito una parola.
In quel preciso istante il treno si fermò alla stazione di Monaco.
Corsi dai miei amici a prendere lo zaino: “Ragazzi, mi dispiace ma non posso più seguirvi”.
“Cosa? E’ uno scherzo di pessimo gusto!”
Esclamò Ivano, sgranando tanto d’occhi per la sorpresa.
“Invece è vero. Aspetterò il prossimo treno. Devo tornare a casa quanto prima”.
“Ma perché?”
Chiese Moreno in tono seccato.
“Poi vi spiegherò”
… Trascorsi la notte alla stazione di Monaco, poi, finalmente, all’alba arrivò il mio treno. Lo presi al volo e in pochi giorni di viaggio approdai alla stazione della mia città; lì, siccome avevo avvertito la mia famiglia alcune ore prima, trovai mio fratello Diego ad aspettarmi in auto: “Ti serve?”
Chiesi appena giunti a casa.
“Cosa?”
“La macchina”.
“A dire il vero, sì. Devo andare da un collega universitario per farmi prestare degli appunti”.
“Fra quanto ritornerai?”
“Non lo so. Suppongo tra un paio d’ore. Ma perché tanta fretta? Sei appena arrivato”.
“Diego, è urgente. Ho bisogno dell’auto, perciò fai prima che puoi”.
“Va bene. Quanto sei petulante! Avresti fatto meglio a girare ancora un po’ per l’Europa!”
Appena Diego uscì, afferrai la cornetta del telefono e composi il numero di Sara; fu proprio lei a rispondermi: “Ciao, Sara. Sono Alex. Come va?”
“Bene. E a te? A cosa devo questa chiamata? E’un pezzo che sei sparito”.
“Potrei dire la stessa cosa”.
“Il lupo perde il pelo ma non il vizio! Hai una faccia tosta, ineguagliabile!”
“Sara, per favore, non voglio litigare con te, mi piacerebbe solo rivederti. Se tra 2 ore venissi a prenderti e trascorressimo la serata insieme?”
“Cosa ti fa pensare che accetterò?”
“Ho da dirti qualcosa di veramente importante”.
“Bè, puoi farlo anche ora al telefono”.
“No, è una questione molto delicata. Sara, ti prego…”
“D’accordo. Purchè tu la smetta di lagnare”.
“Grazie. Allora a tra poco…”
Corsi sotto la doccia più in fretta che potevo, rasai la barba accumulata in giorni e giorni d’interrail, indossai la stessa camicia nera che avevo il giorno della laurea, un paio di jeans, sistemai i capelli con un po’ di gel, e quando Diego rincasò, non gli diedi neppure il tempo di varcare la soglia della porta: afferrai le chiavi e corsi in macchina a prendere Sara. Appena lei si sedette notai che quella minigonna abbinata all’aderente corpetto le donava più di tutti gli altri capi d’abbigliamento che le avevo visto indossare nei mesi precedenti; inoltre un leggero colorito ambrato valorizzava ulteriormente le sue mandorle verdi. Mi raccontò che era stata 10 giorni in Sardegna con sua madre e che nel villaggio animato si era divertita moltissimo.
La lasciai parlare fino a che non arrivammo alla terrazza, la stessa della prima volta in cui eravamo usciti insieme: di sera tutto era più magico; l’atmosfera sembrava surreale.
“Come ti ho già anticipato telefonicamente, devo parlarti. So che l’ultima volta non ci siamo lasciati proprio nel migliore dei modi, così come sono consapevole di non aver assunto il più corretto dei comportamenti nei tuoi confronti. Sai, sono appena tornato da un interrail. In realtà ho anticipato il rientro, lasciando i miei amici a Monaco e… se l’ho fatto, c’è una sola ragione”.
“Quale?”
“Desideravo conoscere la tua risposta ad una domanda: vuoi essere la mia ragazza?”
Sara rise, rise di gusto.
“Ho atteso un’intera estate che tu me lo chiedessi, ma alla fine ci sei riuscito. E’ valsa la pena di aspettare”.
… Non potevo credere alle mie orecchie e… ai miei occhi. Sara si stava avvicinando a me, posando delicatamente le sue labbra lucide sulle mie. Senza la minima esitazione capii che le sue sorprendenti parole e il suo gesto inaspettato erano stati l’ultima stoccata, la stoccata vincente, quella che le permise di esibire il mio cuore come trofeo, sulla punta del suo fioretto. Trascorremmo giorni indimenticabili, finché non mi chiese di farla diventare donna, di farla mia…
“Che ore sono, Alex?”
“Non ha importanza, hai dormito solo una ventina di minuti, possiamo usufruire della camera ancora per 2 ore”.
“Davvero?”
“Davvero. Ma se tu mi dicessi che sei stanca e volessi andar via, lo capirei…”
“Stanca? Io, stanca? Non credo proprio”.
… Mi strinse a sé e ci amammo di nuovo, mentre io non facevo neppure in tempo ad accorgermi che aveva perso quel poco d’ingenuità che la caratterizzava.
Sara si dimostrò un’amante focosa ed esigente, come se fosse nata solo per l’appagamento dei miei piaceri. Ora potevo completare la massima catoniana che le avevo dedicato: “Pulchra puella, dicendi, pugnandi et amandi perita”.