I racconti del Premio letterario Energheia

L’uomo appeso_Alessio Degli Incerti, Roma

_Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005_

 

Il nonno era sparito. Improvvisamente.

Ricordo che mi resi conto della sua enigmatica assenza quando non vidi più i suoi occhi sornioni e sorridenti salutarmi da dietro la porta socchiusa della mia camera.

Ogni sera, prima di addormentarmi, sapevo con certezza che lo avrei trovato lì, fermo sulla soglia, ad assicurarsi che suo nipote chiudesse gli occhi, e sentivo poi il fruscio stanco delle sue pantofole perdersi pian piano lungo il corridoio. La muta presenza del nonno mi rassicurava e talvolta nel buio sorridevo poiché avvertivo su di me, come una carezza, il suo sguardo.

Una brutta malattia mi costringeva da parecchi mesi a letto e durante tutto questo tempo la costante presenza del nonno era stata per me fondamentale e insostituibile. Relegato in una piccola stanza, avevo perduto il contatto con gli altri. Le persone si presentavano ai miei occhi come fugaci apparizioni che improvvisamente venivano a farmi visita per poi lasciarmi nella più angusta solitudine. Col tempo avevo sviluppato una forte sensibilità per i rumori, le voci, i bisbigli.

Nel silenzio, nell’immobilità della mia condizione, l’udito era divenuto più importante della vista. Spesso ero soggiogato da febbri altissime ed estenuanti: in pieno delirio credevo che i miei familiari fossero fantasmi distanti anni luce. I sogni divenivano interminabili e una massa confusa di pensieri ottenebrava la mia mente. Oramai interpretavo lo svolgersi della vita all’interno della casa solamente attraverso i movimenti delle ombre che filtravano dalla porta socchiusa, di là della quale il mondo era solo penombra.

In tutto questo, però, sapevo che il nonno era lì, accanto a me, sempre.

Passarono i giorni e cominciai a capire che la sua assenza non sarebbe stata momentanea, che forse non l’avrei mai più rivisto, accarezzato, abbracciato.

Tuttavia ciò che più mi sorprese e inquietò fu, il fatto che nessuno dei miei familiari sembrava essersi accorto della sua prolungata assenza. Dapprincipio, conoscendone l’abituale riservatezza e la parca espansività, pensai che i miei genitori si fossero chiusi dietro un riserbo tenace e disperato, incapaci d’accettare la sua scomparsa. Io stesso non riuscivo a porre loro delle domande, ad esternare i miei timori. Malgrado la mia giovanissima età, qualcosa mi aveva sempre impedito di comunicare con essi; una strana forma di paura, di timidezza, di goffaggine bloccava ogni tentativo di aprirmi. L’unica persona con cui ero riuscito a stabilire un rapporto sereno, spontaneo era il nonno. Senza di lui sentivo una gelida, arida solitudine circondarmi.

Eppure non era assurda tutta questa faccenda? Possibile che fosse rimasta vuota la poltrona di cuoio del salotto dove sapevo solitamente sprofondato il nonno? Chi aveva gettato nel silenzio le melodiose arie delle opere liriche dei suoi vecchi dischi il cui struggente fruscio si perdeva lungo le camere della nostra casa, prima di giungere nella mia stanza e spegnersi accanto a me, come il suono suadente di una nenia lontana di cui non si comprendono le parole ma che accarezza il cuore.

Ora tutto diveniva più chiaro ed anche il mutismo di mio padre e di mia madre rispecchiava la loro ferma volontà di non dirmi nulla sulla scomparsa del nonno.

Mi sentii tradito.

Il nonno non c’era più e nessuno aveva pensato di avvertirmi, lasciando che la mia acuta sensibilità ne intuisse l’assenza attraverso gli sguardi spenti e il silenzio opprimente. Chi erano coloro che mi stavano vicino? Genitori, fratelli: chi?

C’era silenzio attorno a me prima della scomparsa del nonno; continuavo a trovare silenzio anche adesso. In mezzo, cosa ricordavo? I suoi occhi, i suoi occhi sorridenti, gli occhi del nonno che mi carezzavano dalla porta socchiusa.

A poco a poco mutai atteggiamento nei confronti dei miei genitori. Divenni sempre più svogliato, scontroso, a volte aggressivo se qualcuno mi rivolgeva la parola. Mi barricai dietro un mutismo astioso e insofferente, finché non giunsi ad eclissarmi del tutto dal resto della famiglia. Oramai tutti mi credevano una sorta di disadattato, di strana, infelice creatura.

Del resto il mio precario stato di salute non contribuiva certo a screditare tale opinione…

Ricordo che non era passato molto tempo dalla scomparsa del nonno quando la nostra casa cominciò progressivamente a riempirsi di numerosi personaggi, di ospiti, conoscenti, le cui voci mi erano del tutto estranee e indifferenti.

Imparai ben presto a riconoscerne i timbri, le sfumature, finché dai loro discorsi non compresi un fatto significativo: tutta quella gente non aveva mai davvero conosciuto il nonno.

Cosa volevano? Perché i miei avevano lasciato che essi entrassero? Rammento voci stentoree, scoppi improvvisi di risa sguaiate, un vociare perenne e indiscreto.

Una sera vidi la porta della mia camera aprirsi lentamente, nella penombra avanzare una figura. Sussultai. Era il nonno che tornava da me!

Grande fu la mia delusione, allorché, alla luce della lampada, riconobbi il volto di mia madre. I suoi occhi, che per un momento mi avevano ingannato, erano gli stessi del nonno, ma la loro luce era pallida. Ella doveva aver pianto poiché intuii sulle sue gote i segni ancora vivi delle lacrime. Dopo un momento di imbarazzo in cui chinai il capo, mi sentii d’improvviso circuire tutto; le mie tempie incontrarono una parete gelida che sussultava sommessamente: la mamma mi abbracciava.

Per quanto intuissi il suo dolore, non riuscii ad amarla nemmeno in quel momento: ero confuso, inquieto, ansioso. Solo quando ella ebbe lasciato la stanza tornai sereno.

Poteva essersene andato così, senza dirmi nulla? Poteva avermi abbandonato per sempre, senza che un suo sguardo o una carezza venissero in anticipo ad avvisarmi della sua repentina scomparsa? Tali domande tormentavano il mio cuore e la mia mente ogni giorno.

Una notte vicino al mio letto avvertii come un fruscio, un sussurro, non saprei dire bene, ma avevo la sensazione che qualcosa tentasse di muoversi accanto a me cercando di non fare troppo rumore. Presto mi resi conto che lo strano fruscio proveniva dalla stanza attigua, il corridoio, e si era mutato in un lamento dimesso, una specie di litania che a tratti sembrava un pianto soffocato. Il lamento aveva delle pause molto lunghe, durante le quali, tornavo a sentire il monotono brusio delle voci dei miei familiari. Tuttavia avevo l’impressione che, se avessi teso un po’ di più l’orecchio alla parete, avrei continuato a percepire quell’enigmatica litania, quasi fosse stata una voce perennemente vagante e disposta a farsi più chiara di fronte al mio interesse. Da allora la mia fertile immaginazione di bambino fu rapita dal misterioso lamento. Con il passare dei giorni esso divenne più flebile, come se inesorabilmente si avviasse a morire. Tornavo a percepirlo in modo netto solo nel dormiveglia o nel sonno più profondo, allorché sognavo di scorgere nella parete una crepa che a poco a poco si dilatava finché non ne usciva una mano ad afferrare il mio letto e a trascinarlo dentro, nell’oscurità, lontano dal brusìo isterico che governava la casa.

Un giorno mi alzai dal letto perché avevo bisogno di andare in bagno. Per arrivarci avrei dovuto percorrere il lungo corridoio e passare di fronte alla sala da pranzo dove i miei genitori erano in compagnia dei soliti conoscenti.

Non volevo che mi vedessero e rivolgessero tutte quelle stupide domande che già intuivo appese come scialbi stendardi sui loro volti anonimi. La mia intenzione era di arrivare nei pressi della sala da pranzo e poi precipitarmi come un fulmine in bagno. Avevo già superato l’imponente savonarola che troneggiava nel corridoio, quando udii alle mie spalle il lamento.

Sembrava che qualcosa volesse raggiungermi, fermarmi. In preda all’emozione mi voltai di scatto, ma di fronte a me non c’era nessuno; nella penombra si distinguevano solo alcuni quadri e, in un angolo, un grosso attaccapanni di legno. Proprio quest’ultimo era sovraccarico di abiti, cappotti, cappelli, pellicce e sembrava, nella semioscurità, la schiena irta e folta di peli di un orso gigante. Giunto davanti all’imponente attaccapanni mi fermai e tesi l’orecchio: il misterioso lamento era cessato.

D’un tratto l’animale si svegliò e fu sopra di me.

Un ampio soprabito era scivolato finendo sulla mia testa.

Lo raccolsi e tentai di riappenderlo sopra gli altri ma, vista la mia ancor misera statura, non ci riuscii. Il lungo attaccapanni anzi barcollò e per un attimo pensai che mi sarebbe crollato addosso; per mia fortuna, dopo un breve sussulto, si arrestò.

Il soprabito scivolato a terra aveva procurato come una piccola ferita nel dorso ispido della grossa bestia e attraverso questo buco scorsi un movimento furtivo. Una mano gelida mi afferrò il braccio all’improvviso. Mi fermai di botto, alzai lo sguardo e i miei occhi incontrarono due lampi azzurri pieni di lacrime. Mi ritrassi spaventato e urtai la lunga asta di legno da cui caddero alcuni cappotti. Stavo per fuggire quando il misterioso lamento, che ora percepivo come un pianto vero e proprio, tornò a farsi sentire. Allora i miei occhi videro ciò che non potrò mai più dimenticare.

Il nonno era lì: gettato, buttato, appeso.

Il capo chino, gli occhi non più rivolti ai miei, ma mestamente sprofondati nel vuoto, in un abisso di solitudine e oscurità.

Messo lì, dimenticato, come una vecchia camicia che s’appende con noncuranza e in modo sbrigativo, come un cappotto lacero e sdrucito che si nasconde sotto una montagna di altri vestiti, il bavero del suo pastrano ricurvo sul gancio di legno.

Egli era lì, desolatamente appeso e penzolante.

Lo fissai a lungo, incapace anche di fare un solo passo verso di lui.

D’un tratto un bagliore, un lampo, disperato, in fondo ai suoi occhi.

Il nonno ebbe per un momento la forza di rivolgermi lo sguardo. Gli occhi, che un tempo carezzavano il mio sonno, ora si imponevano sulla mia coscienza come un monito carico di amarezza infinita.

Io non ti ho dimenticato”, dicevano quegli occhi.

Provai ad avvicinarmi al vecchio mantello che conteneva le fattezze di mio nonno, di ciò che rimaneva di lui.

Cosa ti hanno fatto? Cosa ti hanno fatto”, dissi tra i singhiozzi.

Uno scoppio improvviso di risa squarciò il silenzio opprimente.

Dalla sala da pranzo fuoriuscirono come formiche impazzite gli amici dei miei genitori. Mi rintanai nella mia stanza.

Dalla porta socchiusa li vidi avvicinarsi all’attaccapanni, raccogliere i cappotti, le pellicce e i cappelli caduti a terra.

Ora vedranno! Ora sapranno! Tutti!

Il cuore mi batteva all’impazzata.

Nella confusione per un momento non vidi più nulla, poi mi accorsi che l’attaccapanni era rimasto vuoto. Uscii come una furia dalla mia camera, mi mossi tra tutta quella gente che mi guardava con stupore e curiosità; alcuni mi scompigliavano allegramente i capelli, mentre cercavo disperatamente di scovare il vecchio mantello, il logoro pastrano, ciò che era divenuto mio nonno.

Afferrai l’impermeabile di un giovane uomo, gli gridai di darmelo. Stupito dal mio accanimento, questi, me lo lasciò, ma subito mi resi conto che lì dentro il nonno non c’era.

Mia madre, allarmata, cercò di calmarmi, mi abbracciò ma, divincolandomi, me ne liberai.

D’un tratto lo vidi!

Un signore stava aiutando un anziano avvocato ad infilarsi il pastrano. Sotto il bavero riconobbi gli occhi del nonno.

Fermati! Fermati!”, gridai, e stavo per saltargli addosso, quando un sonoro ceffone, di mio padre, mi colpì in pieno viso.

Umiliato e sconvolto mi fermai, alzai gli occhi solo per vedere l’anziano avvocato sorridermi, volgermi le spalle ed uscire con mio nonno rannicchiato sulla sua schiena. Per un momento ancora lo seguii con lo sguardo mentre scendeva le scale, il vecchio pastrano che ondeggiava ad ogni passo, poi l’uomo scomparve portandosi via il nonno, portandomelo via per sempre.

Loro lo avevano dimenticato.