Machete, le armi spuntate della finzione pulp
Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo
ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere,
così noi siamo in grado di intraprendere viaggi tra le sparse rovine.
Walter Benjamin_
di Giuseppe Zucco_
Una pura formalità.
Se è questo che pensate, scordatevelo: per estro, vigore, ritmo, direzione della macchina da presa, uso delle ottiche, taglio delle inquadrature, il montaggio ora morbido e levigato ora nervoso e incrinato, e tutta una serie di spettacolari accorgimenti grafici, Machete è il genere di film che sbaraglierebbe da solo il novanta per cento della produzione nostrana. Se per uno sfortunato caso del destino, il Nanni Moretti di Habemus papam incontrasse in un giorno qualsiasi Robert Anthony Rodriguez, e insieme decidessero di sfidarsi in un duello cinematografico giocandosi tutto, donne case motori e rispettivi conti in banca – esattamente il tipo di plot per cui alcuni spettatori emettono quella sottilissima varietà di gridolini protetti dall’oscurità delle sale – mille a uno vedreste vagare triste solitario y final Moretti lungo le strade e i cavalcavia, elemosinando la vostra pietà non solo per non essere riuscito a muovere le camere con lo stesso candido piglio, ma soprattutto per essere venuto meno alle prove di conoscenza cinematografica – l’arcobaleno della storia del cinema che pone sullo stesso arco lo slang della blaxploitation, i duelli spettacolari in punta di spada dei wuxia plan, l’avventurosa creatività degli horror da due lire, la sporcizia del nastro vhs della prima pornografia di massa, l’esattezza geometrica dei western, la sgangherata ferocia dei war-movies, lo sguardo nella serratura del pecoreccio italiano, e tanto per chiudere i kolossal, i film d’autore e le differenti vague che hanno ripetutamente scosso la monotonia stagnante del grande schermo. Le gerarchie estetiche, come ci ricorda l’ex ragazzo prodigio Robert Anthony Rodriguez, non sono più di questo mondo.
Strade perdute.
Qualcosa però non gira come un tempo – ed è palpabile. Machete (Danny Trejo) è un uomo avanti negli anni che vagola da una parte all’altra del confine tra Mexico e Stati Uniti. Ha la pelle butterata, i capelli lunghi neri, i baffi a manubrio, due mani enormemente tozze, una massa muscolare che incute primitivo terrore, sebbene lo sguardo sia buono, e l’aria da ergastolano del braccio della morte sia suturata punto per punto alla goffaggine dei movimenti, un incedere claudicante buffo impacciato, come se uno scienziato, in un momento di debolezza, avesse incrociato il genoma di Pippo con quello di Ivan Drago. Nomen omen, la sua specialità è l’uso virtuosistico e vendicativo del machete, ma non è un serial killer, né un assassino mercenario, né uno schizzato investito dall’aurea del supereroe. Machete è un ex agente federale – un giorno la moglie viene decapitata sotto i suoi occhi, e da allora cerca riparo, lavoretti per sopravvivere, le tracce degli uomini che hanno compiuto tanto orrore. Per questo la storia della vendetta di Machete è una lunga macabra irritante sequela di teste mozze, mani tagliate, gambe recise, arti e organi spiccati dal corpo. Per quanto sia a tratti divertente, nonostante la per nulla sottile linea rossa della vendetta incroci la storia d’amore con l’agente federale Sartana (Jessica Alba), la storia di rivolta sociale organizzata dalla subcomandante Luz (Michelle Rodriguez), la storia di corruzione politica a cui si dedicano anima e corpo il senatore McLaughlin (Robert De Niro) e Michael Benz (Jeff Fahey), la storia del dominio incontrastato del narcotrafficante Torrez (Steven Seagal), la storia della migrazione di anonimi profughi messicani lungo il confine presidiato dalla pistola facile del Tenente Stillman (Don Johnson), il film non è altro che un continuo salto di location e situazioni dove Machete può dar saggio di quanto sia terribilmente padrone di un così bizzarro strumento di morte. Non è un caso, insomma, se in sala, calati nella poltrona, rapiti dallo schermo, troppo civili e perturbati dalla varietà di gridolini emessi dal vostro vicino di posto ogni qualvolta spicchino come piccoli volatili teste e mani da corpi altrui, siate sopraffatti da una parola: videogame. Machete è un videogame anni ottanta: un film a quadri, ogni quadro più complicato e popolato del precedente. Ma la logica che presiede tanta proliferazione narrativa, il turbinio di set situazioni personaggi che culmina nella saturazione esplosiva del finale, l’un contro l’altro armati e il prevedibile happy end, resta quella: la legge iperrealista e pornografica del taglione e del machete.
Quei bravi ragazzi.
Una battuta però non ci permette di liquidare così in fretta il film. Soprattutto se la battuta è infilata tra le labbra di Robert De Niro – ormai un pallido sosia di se stesso. Siamo all’ultimo quadro, il film sta finendo, le micce narrative accese in qualsiasi parte del film stanno per dare fuoco alle polveri della più classica catarsi, e il senatore McLaughlin, cioè Robert De Niro in persona, imbeccato da Robert Anthony Rodriguez, dice: “Volete far fuori quei bravi ragazzi? Allora sono con voi”. E potrebbe filare liscio, il finale. I mitra cantano, le teste saltano, i messicani sparano, i gringos vanno giù, le cisterne avvampano nell’aria la pirotecnia della benzina esplosa – eppure quella battuta non smette di girare e stridere tra i pensieri, come se ci avesse recapitato chissà quale scottante verità avvolta nella cartapesta di un film poco riuscito. Perché quella battuta proprio in bocca a Robert De Niro? Come mai nella battuta in bocca a De Niro, con raggelante ironia meta-cinematografica, è messa in scena la sfida totale a Quei bravi ragazzi, il Goodfellas di Martin Scorsese, un film decisivo di uno dei migliori registi della storia del cinema? E cosa c’entra Martin Scorsese in tutto questo? Tra gli anni novanta e i primi dieci degli anni duemila, la monotonia stagnante del grande schermo è stata scossa dallo tsunami della pulp fiction. Quasi in contemporanea, Quentin Tarantino e Robert Anthony Rodriguez, un film dopo l’altro, film in alcuni casi divenuti pietre miliari, Pulp Fiction e Sin City in testa, hanno rivoluzionato non solo le forme del cinema, quanto la percezione della storia del cinema. Non è un caso se dal loro passaggio in poi, qualunque spettatore non abbia più remore morali nel guardare film di bassissima lega con i popcorn in mano e l’aria compiaciuta. Sembra quasi che Tarantino e Rodriguez siano la prova manifesta delle teorie di Slavoj Zizek: nei film, in qualsiasi film, perfino nelle operazioni smaccatamente commerciali, si agita lo spirito del tempo, lo spettro dell’inconscio collettivo, le acque più scintillanti e torbide della creatività. Se la vendetta è il tema canonico di buona parte della filmografia pulp, con buona pace di chi pensava che il conflitto sociale e il cammino della storia fossero arrivati a un punto morto, a livello estetico è la fusione di elementi stilistici eterogenei la cifra essenziale, la mescolanza sorvegliata e controllatissima di generi sentimenti valori che solo in teoria non potevano stare vicini senza elidersi a vicenda. Fornendoci così l’immagine fulminante dei corsi e ricorsi storici che ci tocca a abitare. Conflitto e condivisione, conflitto e mescolanza, attaccamento alle proprie abitudini e propensione alle abitudini altrui, desiderio di confini stabili e continui sconfinamenti di campo, il capitalismo avanzato dei territori chiusi e del libero mercato. In una sola parola, globalizzazione. Le forme della tragedia a cui ci avevano abituati registi del calibro di Martin Scorsese e Brian De Palma continuano incessantemente a parlarci, ma hanno poca parentela con l’allegria disperata da fine dei tempi che respiriamo giorno per giorno. Così, la battuta scritta da Robert Anthony Rodriguez e pronunciata da Robert De Niro – grandissimo attore e corpo-paesaggio del cinema scorsesiano – disegna il passaggio di testimone, lo strappo ironico e maldestro del testimone tra vecchi e nuovi maestri del cinema. Bravi ragazzi, in fondo: con gli occhi di ghiaccio, il sangue freddo, la mano ferma, è dall’inizio della loro carriera che Rodriguez e Tarantino uccidono e omaggiano i propri padri. Ubriacandosi subito dopo, però. Annullando all’istante qualsiasi senso di colpa.
Face off, le due facce di un assassino.
Ovviamente, non basta – se Freud andasse al cinema, avrebbe da ridire. Perché sì, da una parte è vero, Tarantino e Rodriguez ne hanno avuto la forza, hanno ucciso i propri padri, si sono misurati con il presente per proiettarsi nel futuro – ma è vero anche il contrario, forse non hanno eliminato simbolicamente proprio nessuno, e anche da semplici spettatori non è difficile comprendere il lato oscuro della forza. Il cinema pulp ha questo di speciale: possiede due occhi. Contemporaneamente, guarda in avanti con uno, con l’altro all’indietro. Se è scontato sostenere che da Le iene e El Mariachi in poi i due registi abbiano disteso un nuovo futuro per il cinema, è altrettanto scontato sostenere che questo scarto in avanti è stato compiuto sia per la spaventosa padronanza tecnica e narrativa del mezzo, sia per la loro disinvolta cinefilia – una venerazione continua, un amore maturo e viscerale per la più piccola creatura della storia del cinema, al punto da spingere i due registi a citare usare reinterpretare nei propri film sequenze e movimenti già impressi su altre pellicole. È così: la benzina che brucia nel motore del cinema pulp è invecchiata da tanto di quel tempo che lo spettatore medio, e buona parte degli specialisti, fatica a capire da dove arrivi. Ma c’è di più. Come le altre avanguardie estetiche, oltre riproporre e riformulare movenze e stilemi propri della cinematografia dimenticata o lontana dal mondo occidentale o esplicitamente di serie b, Tarantino e Rodriguez puntano i riflettori sul cinema stesso, il cinema inteso come mezzo, come dispositivo. Se sotto la minaccia di un microfono chiedeste ai due registi cosa sia per loro il cinema, molto probabilmente non ricavereste solo nomi di attori caduti in disgrazia, o di opere introvabili, o di registi impossibili da pronunciare – con molto affetto, una certa luccicanza degli occhi, sicuramente accennerebbero a tutto quel corredo di errori e intoppi che la pellicola di un film si porta dietro. Bruciature, macchie, righe, capelli, sfocamenti, fuori-quadro, salti audio-video, e altre amenità del genere. Buona parte dei loro film, infatti, perfino in un mondo evoluto come quello del cinema contemporaneo, seguita a portare impresse le stimmate superficiali di un’epoca inesorabilmente trascorsa. Molto furbamente, direbbe qualcuno, avrebbero elevato il passato a stile, collaborando alla messa al punto del vintage, cioè alla riproposizione di oggetti trascurati e desueti dentro le maglie del mercato – il ciclo e il riciclo della merce, insomma. Tuttavia, i due registi non sembrerebbero turbati da tanto feticismo. Il corredo di errori e intoppi della pellicola dispiegato nei loro film riporta a galla il cinema così come veniva percepito da un generico spettatore davanti alla proiezione di una pellicola, cioè la loro stessa esperienza di spettatori bambini e poi ragazzi tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Tutto questo pulp, così, poggerebbe su un’insopprimibile nostalgia dei bei tempi andati. E se la nostalgia è una chiave di lettura delle loro opere, i padri prima sfidati e poi simbolicamente eliminati resistono al loro posto come fantasmi implacabili.
Ritorno al futuro.
Il pulp, così, e buona parte del cinema postmoderno, soffre di questa impasse: guarda avanti, e nello stesso tempo guarda indietro, scatta nel futuro e allunga nel passato – e in questo doppio movimento finisce per rimanere sul posto, senza andare da nessuna parte. Sembra un destino già scritto, invece tutto deve ancora iniziare. Mai come nell’ultimo film di Tarantino, Bastardi senza gloria, la riformulazione della nostalgia e delle vestigia del passato si è trasformata in un’appuntita arma etica. Come se per tutti questi anni Quentin Tarantino avesse ripetutamente riavvolto il nastro della storia del cinema e della sua percezione solo per arrivare in un punto determinato dello spazio-tempo, facendo scattare una colossale vendetta postuma contro Adolf Hitler. È chiaro: non si può accomodare ciò che è stato, né omettere per un attimo la Shoah e tutto il dolorosissimo carico di morti e massacri. Però si può giustiziare un’ideologia. Se il cinema, dice tra i fotogrammi Tarantino, è stato un mezzo di propaganda politica, ugualmente può diventare una trappola infernale per gli oligarchi e il loro modo distorto di considerare il mondo. Il contrario, invece, per Robert Anthony Rodriguez. Già il finale di Machete somiglia a una dichiarazione di resa. Alla fine del film due titoli annunciano che vedremo presto sugli schermi Machete uccide e Machete uccide ancora. Rodriguez ha attraversato le molteplici forme della nostalgia e della storia del cinema per infilare il punto di non ritorno di un auto-parodia. Non bastano questa volta i graffi della pellicola per allontanarlo dalla prospettiva del fallimento. Così, se è già difficile immaginare un prossimo glorioso futuro per il cinema pulp, rimasto sul posto mentre sfida il paradosso di correre contemporaneamente in due opposte direzioni, ancora più difficile per noi spettatori sostenere questo tipo di presente, del tutto vuoto, molto vintage, very cool, per nulla rischiarato dallo sfarzo dell’etica e da una qualsiasi urgenza espressiva. Più che il machete, allora, su questa pellicola si è abbattuta la mannaia.