Mali, il cortocircuito
_tratto da Nigrizia_
L’intervento militare francese in Mali, sostenuto con uomini e mezzi anche dall’Italia, è avvenuto in seguito alla richiesta del primo ministro maliano di fermare l’avanzata dei miliziani di Ansar Eddine – tuareg integralisti, alleati ad altre forze di stampo jihadista e qaidista – che dopo aver occupato il nord del paese si stavano dirigendo a sud, verso la capitale Bamako. La mossa di Parigi – al riparo dell’articolo 51 della Carta Onu – rafforza i legami con l’ex colonia dotata di notevoli ricchezze naturali (oro, uranio, bauxite, gas) sulle quali anche il presidente François Hollande intende continuare a esercitare un diritto di prelazione.
Comprensibilmente, l’arrivo delle truppe francesi è stato accolto con un senso di liberazione dalla popolazione maliana, terrorizzata all’idea di finire nelle mani degli islamisti accusati di gravi abusi dei diritti umani all’insegna di una più rigorosa applicazione della shari’a. Le storie di crudeltà e di repressione delle libertà civili, testimoniate dagli abitanti di alcune città liberate dalle truppe francesi, confermano i timori.
Tuttavia, i successi riportati dalle forze militari dell’Eliseo in queste prime settimane non ci devono illudere sulla possibilità che l’operazione possa concludersi in poco tempo, come annunciato dal presidente francese. Pur superiori sul piano militare, le truppe di Parigi non saranno in grado di eliminare o di costringere alla fuga gli integralisti islamici sparsi su un territorio vasto quattro volte l’Italia. Jihadisti e qaidisti – molti dei quali maliani ed ex combattenti al soldo di Gheddafi, rientrati in patria a fine 2011 dopo la caduta del dittatore libico – conoscono meglio l’habitat del deserto e potranno continuare le loro attività terroristiche con tattiche di guerriglia, mimetizzandosi tra la popolazione civile. La titubanze dell’Algeria e lo smarcamento egiziano dall’operazione militare transalpina mostrano con evidenza, poi, i malumori delle potenze nordafricane.
Vi è il timore che il Mali venga presto trascinato in una guerra civile come sta succedendo in Afghanistan, dove l’intervento degli Stati Uniti, affiancati dagli alleati occidentali, contro il terrorismo non sta avendo il successo sperato, lasciando dietro di sé un paese dilaniato e nel caos.
Senza minimizzare la pericolosità del fenomeno del terrorismo islamico, siamo convinti che una soluzione militare è nel contempo inefficace e controproducente. I segnali della crisi maliana si erano manifestati anche prima dell’occupazione del nord del paese da parte dei miliziani integralisti.
La frustrazione della popolazione tuareg verso Bamako per il mancato rispetto degli accordi del 2006, che prevedono una maggior autonomia della regione dell’Azawad, e la debolezza delle istituzioni statali maliane avrebbero meritato una ben altra attenzione da parte della comunità internazionale.
Di fronte ai segnali del precipitare della crisi, Washington aveva investito risorse finanziarie per addestrare reparti dell’esercito maliano, con l’intenzione (fallita) di metterli in grado di fronteggiare l’avanzata islamista. Non si sono però fatti investimenti politici per rafforzare le istituzioni civili e per dare maggior peso e voce all’islam moderato, al quale fa riferimento la stragrande maggioranza dei 13 milioni di maliani che si oppongono a una interpretazione estremista del corano. Si dovevano appoggiare associazioni della società civile, con un’attenzione particolare all’impegno delle donne, alla leadership religiosa dell’Alto consiglio islamico del Mali e delle Chiese per la costruzione della pace e dell’unità nazionale. Incoraggiando anche iniziative concrete per una difesa popolare non-violenta. Il rafforzamento del tessuto sociale e delle istituzioni civili avrebbe permesso di isolare l’islamismo terroristico e impedito a qualche migliaio di integralisti di tenere in scacco l’intera nazione.
Ora, però, la situazione è precipitata e bisogna correre ai ripari. Bisogna evitare, innanzitutto, che l’allarme sicurezza, brandito dalla Francia con l’appoggio di gran parte delle maggiori potenze internazionali, diventi l’unica chiave di lettura della situazione maliana, dimenticando gli attori e gli interessi nazionali e regionali.
Vanno fatte le debite pressioni perché vengano deposte le armi e si avvii la fase negoziale. Ci deve essere una mobilitazione ampia e uno sforzo congiunto che coinvolga l’Onu, l’Unione africana,la Legamusulmana mondiale e le Chiese. È la sola via da perseguire, anche se più laboriosa e lunga. La violenza richiama altra violenza in un cortocircuito che potrebbe espandere il conflitto in altre nazioni del Sahel.
Il fallimento dell’operazione militare in Afghanistan a cui si aggiungono quelli della Libia e della Somalia (in parte occupata dalle forze governative del Kenya contro gli islamisti di al-Shabaab) devono indurre a riflettere e a cercare alternative all’opzione armata. Che non è estranea a logiche di conquista per l’accaparramento delle risorse naturali e di perpetuazione degli apparati militari che hanno bisogno di conflitti per produrre e svilupparsi.