Matera è un trattato di pietra, di come vanno asciugate le parole, e biforcati i sentieri, e stordito il viandante con l’essenzialità della sua bellezza
_di Fabio Stassi
Presidente giuria Premio Energheia 2007, XIII edizione_
“Della città di Matera, magnanimo Kublai, sono già state dette molte cose: che è bianca, sassosa e ben esposta alla luce della luna come Zobeide, e si compone di due metà, come Sofronia, e si aggrappa sul vuoto con funi e scale di corda, come Ottavia, la città-ragnatela. Te l’avranno descritta, mio gran Kan, come una radice sulla montagna scoscesa, nata dalla follia di un monaco brasiliano o di un apicoltore d’ingegno o di un illusionista capace di nascondere la luce nel tufo delle Gravine, e le case nella roccia, e la pioggia nella sabbia secca.
Ti avranno giurato che qui i vivi invecchiano nell’ombra e i fantasmi ballano sui tetti, e che Matera è cisterna, e alveare, e rosa del deserto, ago e ditale del Mediterraneo, più africana delle terre dell’Alto Atlante, orientale come Sana’a o la favolosa Petra, greca, con le sue chiese rupestri, e il taglio bizantino dello sguardo, e il velo nero del pianto, e spagnola come la Mancha dei suoi cavalieri dalla Triste Figura dipinti sui murales.
Saprai già che ci si arriva su muli meccanici inerpicandosi dalla piana del Basento, magro d’estate e in piena, a gennaio, insieme a pastori transumanti che chiamano le loro pecore per nome, e a caravanserragli di giocolieri, montambanchi e anacoreti, perché anche la solitudine è un’acrobazia, la più difficile, tutti in cerca della Palestina perduta. Mio nobile Kublai, è tutto vero: lì i nomi degli uomini si seppelliscono nelle nuvole e non nella terra, perché Matera conquista l’anima con la memoria, e il cielo, e il desiderio, e la voce di Sherazade, e il silenzio. Abitata com’è da gente con gli occhi gentili, che mangia formaggi e beve latte di capra e vino rosso, e quando riparti ti regala ancora il pane. Quello che di sicuro nessuno ti ha detto è che questo popolo mite e ribelle coltiva ancora l’anarchia della lettura, e la sua sovversione, e piastrella di 12 frasi libertarie le stanze, e i muri delle case, strade e strade di pagine dove per conoscere tutti i romanzi del mondo basta passarci attraverso o fermarsi in un giardino ad ascoltare i libri che ancora non sono stati scritti perché a Matera si organizzano feste notturne e variopinte per chi racconta storie e si continua a credere in una cosa così inutile come questa”.
Così, forse, Marco Polo descriverebbe a Kublai Kan la città di Matera, lasciandogli come sempre il dubbio, alla fine del viaggio, d’avere visitato l’ultima delle città impossibili catalogate dal veneziano insieme a un vecchio scoiattolo della penna perché una città così luminosa può averla soltanto sognata la nostra accesa immaginazione.
Città-letteratura, città-racconto, città-cinematografo. Matera è un trattato di pietra, di come vanno asciugate le parole, e biforcati i sentieri, e stordito il viandante con l’essenzialità della sua bellezza, lasciando fuori appena quello che serve, e scavando nel fondo la verità umida delle cose, raspando i pozzi segreti con le unghie, e trattenendoci dentro conserve di speranza e di allegria per mitigare la siccità degli anni.