Metastasi emotive di una nazione dopata di ottimismo autodistruttivo
_di Sarah Panatta_
L’ultimo, magnifico film di Paul Thomas Anderson propone una magistrale destrutturazione psicologica degli anni Cinquanta americani, attraverso la contorta, ambigua, estrema relazione tra un ex marinaio militare disadattato e un santone manipolatore pre-Scientology. Sorretta dalla superba interpretazione dei due protagonisti Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, la pellicola è stata tuttavia esclusa dalla corsa all’Oscar, superata dal patriottico “Lincoln” di Spielberg e dal pulp-western di Tarantino “Django Unchained”.
Profeta poco social nel network correzionale del mercato cinematografico occidentale – orchestrato dallemajor politics cementate dal rimpasto esportabile degli script e serbato dalla naftalina delle più smaccatamente inverosimili, ma “quotabili”, teorie sulla medietà percettiva dell’audience – anche Paul Thomas Anderson, fulminante giovane “maestro” del seminale Magnolia (1999) e dello scultoreo osannato Il petroliere (2007), si incaglia, tra le secche del proprio monumentale sepolcro, The Master1. Snobbato nei “lidi” patri dopo il contentino in eurozona alla Mostra Internazionale di Venezia 2012 (Leone d’Argento alla Regia e Coppa Volpi, inderogabile ed ex aequo, ai protagonisti maschili), l’oscena lancinante perfezione/defezione di un film che ha già scalfito la Storia del Cinema, cola a picco. Titano fuori taglia, The Master è inghiottito nel triangolo dei bolsi dettami (non solo) hollywoodiani, tra campagne stampa oscurantiste, revival protezionistici filo-colossal e l’eclatante marginalizzazione sul tappeto rosso (dei botteghini), le Academy Awards Nominations. Dinanzi all’ennesima prodezza marmorizzata del campione-mimo retorico dell’immaginazione americana, il re Mida S. Spielberg e il suo personale omaggio a Lincoln2 (12 nominations), manifesto del liberalismo antirazzista in clima da seconda liftata era obamiana, The Master non merita le menzioni di “peso”, Miglior Regia, Miglior Film, Miglior Sceneggiatura (e Miglior Colonna Sonora, capitolo a parte3). Abbaglio da allodole in gita “premio” lenominations per gli attori, pur battezzati da una grazia imprendibile, Joaquin Phoenix – Miglior Attore Protagonista, Philip Seymour Hoffman – Miglior Attore Non Protagonista, Amy Adams – Miglior Attrice Non Protagonista.
The Master è anomalia psicanalitica4 e test ambiguo nell’America della “crisi” che ha abbattuto il nemico pubblico numero uno (attenzione alla nomination come Miglior Film a Zero Dark Thirty, sulla caccia a Bin Laden, di K. Bigelow) e che non può (più) metabolizzare l’intrinseco lutto malinconico di un Autore che aveva già trovato nelle deformazioni genetiche del volontarismo borghese (la famiglia disfunzionale diMagnolia, tra conflitti edipici ed “eredità” inconciliabili, abusi fisici e mentali sulle generazioni “minori” da parte degli adulti egocentrici e infilzati sulla ruggine dello steccato bianco) il notturno inestirpabile di un non-popolo dopato di ottimismo autodistruttivo. P. T. Anderson filtra il fulgore dissipato dei pascoli del cielo Wasp (tra J. Steinbeck e N. Ray) e li ingabbia nella poetica del “flusso” analogico e autoriflessivo che è ormai copyright dell’innovativo evaso Malick degli ultimi quindici anni. Scisma antiretorico che percorre fieramente debordato l’imbuto spettacolare del regista de La sottile linea rossa, lasciando che la storia delle parole diventi sotto testo iper-narrato e meta-dialogato dai corpi e dalle musiche, The Master svela la ratio dei freaks – già terreno di osservazione per Darren “The Wrestler” Aronofsky –, cassandre senza voce nell’isolamento dell’Impero suturato/saturato da micro feudi in espansione coatta. Il calvario psicologico dell’ex marinaio Freddie (Joaquin Phoenix feticcio magistrale), jarhead spiaggiatodal Fronte ai grandi incerati magazzini della vendita di lusso massificata. L’asilo identitario temporaneo offerto dal santone pre-Scientology Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman, bulimica meraviglia). Una ballata-sincope di uomini e topi che bramano assuefazione, autocertificazione, guadagno, purificazione compromissoria, potere virale e castelli tra mare e terra.
Freddie, prometeico schiavo di un Sé fantasmatico, che ha perso, o non ha mai posseduto né vuole indietro vincoli sociali (“suo” soltanto l’amore rurale, fiorito nella giustificatoria attesa e nella dolce astinenza, per un’adolescente angelica ma carnale che non può ricambiarlo nel futuro civile). Pellegrino senza ruolo né aspirazione, prestato prima alla Seconda Guerra Mondiale, poi alla invisibile destrutturazione ideale degli anni ’50, epoca dell’individuo reificato dalla corsa all’oro-merce. Freddie è il parassita sempre in fuga disperata, che non scorge nicchia in cui consumarsi indisturbato.
Inabile alla società lubrificata da compartimenti stagni e impieghi inamidati, converte la fame auto-cannibalica di ritorno al nulla, in sete di fallibile approvazione. Affidandosi cavia (in)esausta e febbrile aDodd, Freddie si dimostra non-maschera, animale anfibio dissodato eppure illuminato dalle rughe di un cristo irredimibile. Icona vampirizzata magneticamente inconoscibile. Il mistero dell’autenticità sbrindellata e sradicata di Freddie è croce e delizia per Dodd, che lo sfrutta, paterno aguzzino, per gli sperimentali azzardi di deipnotizzazione (prove per futuribili tecniche di convincimento-inganno-vendita subliminale delle economie occidentali). Sedotto dalla dionisiaca propensione alla sottomissione amicale di Freddie, e dal suo talento per cocktail suicidi (re-mix di alcol, farmaci e solventi vari, precursori delle droghe on the road), Dodd, boss (omo)erotico e predatore sessuale, dispotico e insieme progressista, prete laico di un credo multidimensionale e settario, quindi potenzialmente milionario, assorbe l’energia del suo paziente/figlioccio. Aggiogandolo, sotto la stretta sorveglianza della moglie, virago in sordina, in una relazione trafitta da amplessi catartici e da litigi violenti. Ladrone appeso sulle sporgenze molate di unlegno-gogna-martirio perenne, ricacciato nel confine ignorato del quadro storico e urbano, Freddie si ammala nella cura del para-antropologo Dodd, fuori dal prospettico punto di fuga del pietistico abbraccio collettivo pro-reduci stanchi e confusi. Lo scacco dell’anarchico, libero nella follia travisata dal consesso “intorno”. Freddie inconsapevole antitetico beatnik molestato dalla routine artificiosa, figurina tridimensionale scollata dal Tempo, veggente senza radici in un paese per vecchi che rischia di tramortirlo e tumularlo, vince abbandonando il sistema di redenzione punitiva, di pacificazione embedded, che gli travasano a stento, sopraffatti, Dodd e “famiglia”. Uomo da marciapiede sobrio nell’allucinazione, superstite penitente che non ha strappato ma che non venera neppure le strisce e le stelle delle Flags ofour fathers, Freddie ha la forza/sanità dei disadattati estranei alla normalizzazione, che non si negano, non si lasciano estinguere dalla società dei grattacieli e delle monofamiliari divise da ponti scricchiolanti.
Letteralmente spalancato sui piano sequenza grandangolari, che aspirano l’ossigeno della scena avvolgendola in una pelle di limpida mobile stasi, e trascinato da immense carrellate orizzontali che demarcano la geometria liquefatta, porosa degli ambienti e degli animi, The Master esamina lekubrickiane metastasi del delirio moderno, dentro le architetture omicide della middle class5, le turbe emotive nascoste di una nazione orfana, le iridi migranti di Ego faulkneriani, volatili, impressi nel limbo, tra McCarthy, i fratelli Coen e ramificati esili di un (m)isterico Tree of life. Paul Thomas Anderson, fine enciclopedico artista della mdp, e qui di oltraggiosi 65 mm, firma la propria fervida condanna all’indipendenza dalla mainstream culture, beffandola indirettamente nell’ultima inquadratura-“scia”.
1 Scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern,Ambyr Childers, Rami Malek, Jesse Plemons, Kevin J. O’Connor, Christopher Evan Welch, prodotto da Joanne Sellar, Daniel Lupi, Paul Thomas Anderson, Megan Ellison, produttori esecutivi Adam Somner, Ted Schipper, direttore della fotografia Mihai Malaimare, Jr, scene Jack Fisk, David Crank, montaggio Leslie Jones, ACE; Peter Mcnulty, costumi Mark Bridges, musica Jonny Greenwood, una produzione Joanne Sellar, Ghoulard Film Company, Annapurna Pictures, girato in 65mm. Usa 2012, durata137’. Concorso Ufficiale alla 69a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: Leone D’Argento perla Miglior Regia- Paul Thomas Anderson, Coppa Volpi perla Miglior InterpretazioneMaschile – Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman. Academy Awards Nominations: Joaquin Phoenix – Miglior Attore Protagonista, Philip Seymour Hoffman – Miglior Attore Non Protagonista, Amy Adams – Miglior Attrice Non Protagonista.
2 Cortocircuito millimetricamente calcolato, a urlare sul silenzio assentito di The Master escluso dalla cinquina d’oro, compresenti nella corsa agli Oscar, tra i nominati per Miglior Film, il pulp-ex-western di Tarantino, Django Unchained, e l’ultimo documento spielberghiano, Lincoln. Django riscrive l’estetica del regista “post moderno” per eccellenza, filologo del B-movie e dell’intrattenimento intellettuale da recuperata grindhouse, film parzialmente “muto” nella pronuncia, ovviamente cinefilo, decostruita metaforica sfida sin nel titolo, tacciato di propaganda razzista da Spike Lee con transoceanica polemica mediatica, mentre i riflettori dell’insediamento ufficiale del secondo mandato obamianopredispongono “scene” da un melting-pot di nuovo in marcia. L’epos senza macchia del biopic-colossal Lincoln muove da/su vecchie secessioni e nuove restaurazioni, occupato dall’annunciato ultraumano sacrificio attoriale di D.D. Lewis e mappato dall’etica spielberghiana dell’antropocentrismo democraticamente sostenibile. Entrambe opere che compendiano l’ontologica diaspora degli Stati (uomini) mai Uniti, dei cavalieri sulla rotta (di collisione) del West barbarico, contraddittorio, depurando. Sceriffi selvaggi perché controcorrente, per vendetta o per illuministiche velleità, tuttavia destinati alla stella del “pioniere” sul petto, da antagonisti della sopraffazione come schema sociale a leader eleggibili. Mentre il Freddie di Joaquin Phoenix (The Master), punteggio sottostimato nel self-made-men-boom, quindi spalla/spauracchio radioattivo dei guru del domani, non può scalare le caste e ricevere allori ufficiali, né tramandare la propria non detta ricetta di sopravvivenza. Che resta shakerata in barattoli per drink allucinogeni, sommersa negli occhiwide open di un senza fissa dimora troppo americano.
3 Il compositore Jonny Greenwood ha subito probabilmente l’“onda” d’urto (nemesi analogica per un’opera di abissi neuronali disegnati in sottili increspature acquatiche) del rifiuto commerciale scontato dal film. Il metallico flusso-jazz, la glaciale cristallizzazione dei piani sequenza e delle fughe di Freddie, degli allacciati dialoghi tra Freddie e LancasterDodd, sono il connettivo vibrante e reattivo di un’opera che naviga verso l’arte totale.
4 Quanto la cinematografica miniserie Boss, prodotta nel 2011/2012 da Gus Van Sant e interpretata da altro ventennalemaster, della comedy Usa, lo shakespeariano Kelsey Grammer, appena fluttuata attraverso i palinsesti internazionali. Sanguinosa ferita nella dinastia politico-psicologica dell’edonismo protestante-capitalistico, dunque ferocemente inattuale nel teatro neo rivoluzionario della America oggi.
5 Recentemente stigmatizzate nello struggente delirio amoroso di The Yards (2000) e di Two Lovers (2008) del talentuoso James Gray, il cui attore feticcio è ed è stato sin dagli esordi, non a caso, l’attore del momento, Joaquin Phoenix. Corpo di/da cinema, colonizzato e colonizzatore, vittima e carnefice, close-up devastante che calamita dolore e ansie coeve con innata sconvolgente naturalezza.