Mia_Clara Fumagalli, Macomer(NU)
_Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015.
Per tutti quelli che ancora non trovavano il loro posto.
Per tutti quelli che fingevano di stare bene.
Per tutti quelli che hanno chiesto aiuto.
Per tutti quelli che ce l’hanno fatta.
La pioggia batteva forte sui vetri appannati della sua stanza, mentre Claudia si teneva forte le ginocchia al petto. Il suo letto, poco più che un giaciglio, sembrava non poter contenere il mare di lacrime, o il peso che lei sentiva proprio al centro del petto. Quella fastidiosa sensazione che ti prende quando sai di aver sbagliato, ma non puoi tornare indietro e sei costretto a corroderti di “se..” e “ma..”. E comunque non serve niente, perché Claudia sa che ancora una volta Mia l’ha sedotta, anche se lei non vuole, anche se adesso si è pentita. E nel frattempo il mondo non si accorge dei drammi dentro le case con i vetri appannati, e continua a piovere incessantemente. Veronica ripuliva attentamente i resti del pranzo ancora incrostati alla padella, e non sentiva i singhiozzi che provenivano dalla stanzetta poco lontana. Lo scrosciare della pioggia e l’intenso getto d’acqua avevano coperto ogni rumore, e Claudia era felice che nessuno potesse sentire. Quando si piange c’è qualcosa di estremamente privato, si rimane privi di ogni protezione dal mondo esterno e ci si lascia finalmente andare a se stessi. E’ la stessa sensazione che Claudia prova ogni volta che incontra Mia, perche’ solo lei può vedere i suoi lati nascosti, come nessun altro. Mia la divora ogni volta che si vedono, e Claudia lo sa che così si sta facendo del male. Ma non le interessa, perché sa che la vita è breve, come i suoi incontri con Mia. La vita è breve e intensa, e non ci si riesce a privarsi delle sigarette e dei superalcolici, e delle relazioni distruttive che ci consumano come i vizi. E poi bisogna godersi la musica classica, che mette in pausa tutto questo caos.
Ma senza i vizi, senza le sofferenze..di cosa parlerebbero i libri, le canzoni, i dipinti? La bellezza sta nelle imperfezioni che vogliono trasformarsi in perfezioni, ma rimangono pur sempre questioni irrisolte.
E Claudia piange. E piange. E piange. Come fa da un po’, da quando si è accorta che la sua vita non va più nella stessa direzione. Da quando ha capito che il mondo non è un posto che fa per lei. Da quando ha capito che suo padre non stava facendo un viaggio, non era stato arrestato, non era stato terribilmente malato. E ogni volta che si guardava allo specchio trovava una cosa nuova che non andava bene. Mentre fissava la sua immagine riflessa, dentro si sentiva morire un po’ di più. E sapeva cosa vedevano gli altri quando la guardavano. E sapeva di essere estremamente imperfetta. E sapeva di essere abbandonata.
Ma c’erano momenti in cui tutti questi pensieri l’abbandonavano, istanti in cui tutto questo non contavano più. Solo quando era con Mia si sentiva più leggera, più libera.
Era come correre a piedi nudi su un prato verde, senza più il peso del mondo intero sulle spalle. Mia era cosi splendida e cosi dannata. Era sbagliata, eppure terribilmente giusta. Ed era questo che la rendeva irresistibile.
Ma soprattutto Mia era un segreto, gelosamente custodito. Nessuno lo sapeva, perché nessuno avrebbe capito. E dopotutto a Claudia non interessava essere capita, perché nessuno riesce mai veramente a cogliere la tua essenza, i tuoi perché.
Ogni mattina era uguale. La sveglia suonava un po’ troppo presto, i capelli erano un po’ troppo arruffati. Ma si andava avanti lo stesso. E Claudia prendeva la strada un po’ più lunga, non faceva colazione per poter ascoltare una canzone in più prima di entrare a scuola. E il tempo volava, e subito veniva il momento più atteso: l’incontro con Mia, subito dopo la ricreazione.
Claudia fingeva spesso di stare male, così poteva finalmente recarsi nei bagni, dove ancora una volta sapeva che la stava aspettando. E tutto, dopo ore e ore di attesa, accadeva così velocemente. E ogni volta le sembrava meglio. E ogni volta ne voleva di più.
Il segreto rendeva tutto più intrigante.
Nella strada per tornare a casa Claudia si pentiva di ciò che aveva fatto. Aveva ceduto ancora. Oh, come si sentiva imperfetta, sempre di più. La testa le scoppiava, e quasi piangeva. Gli occhi trattenevano a stento le lacrime, ma dentro il cuore non ce la faceva più. E gridava in silenzio, cercava aiuto. Ma nessuno poteva salvarla. Ognuno deve salvare se stesso in questo mondo. Noi stessi siamo i nostri più grandi eroi.
Mia l’aspettava anche dopo pranzo, e quello era il momento che Claudia preferiva. Mentre sua madre ancora era al lavoro, perché aveva paura che sentisse tutto. E voleva che il segreto rimanesse tale, o tutto sarebbe caduto ancora più a pezzi.
Solo una persona sapeva di Mia. Marcella, l’unica che vedeva la tristezza negli occhi sopra la bocca sorridente di Claudia. L’unica che alla luce aveva visto i mostri che la divoravano. Che ogni giorno chiedeva se fosse finito, con l’aria che hanno le persone quando ti dicono che stai sbagliando. E ogni giorno la risposta era la stessa.
No.
E il giorno in cui tutto andò in pezzi, Marcella c’era. Era in prima fila.
Era indimenticabile quella sera. E dopo niente era più tornato come prima, e niente più lo sarebbe stato.
Era tardi, e Marcella stava sistemando le sue cose, doveva tornare a casa. Claudia le aveva chiesto di aspettare sulla porta, per controllare che sua madre non la cogliesse nel pieno del suo incontro pomeridiano con Mia.
E Marcella quel giorno aveva sentito il dovere di fare qualcosa. Perché come è vero che i nostri più grandi eroi siamo noi stessi, è anche vero che qualcuno ha bisogno di altri eroi. Ed era tutto così profondamente ingiusto, e non poteva più tenerselo dentro.
Nadia, esausta dopo la sua dura giornata di lavoro, aveva preso l’ascensore. E non pensava che pochi piani più su la aspettava l’apocalisse. E il tempo scorreva veloce, e lei non sapeva che sarebbe stato meglio prendere le scale quel giorno, aspettare che a Marcella passasse quel pensiero. Com’è divertente pensare che un momento può cambiare tutto. Che un errore di valutazione, una decisione casuale possono fare la differenza. Quella era una di quelle volte. Maledette scale, maledetto ascensore, maledetto tempo, maledetta Marcella.
Un piede ancora fuori dalla porta, un passo più vicino alla salvezza : Nadia guardava Marcella, Marcella guardava Nadia. E tutt’e due sapevano che qualcosa, a pochi metri da loro, stava accadendo. E sentirono tutto. E avrebbero voluto sotterrarsi e sprofondare nel vuoto. Scappare lontano, tapparsi gli occhi, le orecchie, la bocca.
Mentre le lacrime rigavano le guance di Nadia, e la sua espressione serena era mutata in una soffocante maschera di dolore, la porta del bagno si apriva. E nessuno aveva mai visto una scena così pietosa.
Claudia era ancora china sul cesso. E non aveva il coraggio di alzare la testa, di muovere un muscolo. La vergogna che provava era indescrivibile, era come essere nudi in mezzo alla folla.
Lo spazzolino in mano, non era più la mano confortante di Mia. Il suo universo era esploso.
E tutto il resto accadde come quando si ferma il tempo, così veloce e inesorabile. E tutto era rovinato per sempre, tutto era distrutto. E nei suoi occhi il vuoto si faceva spazio lentamente, e come quando una lampadina si fulmina, tutto diventava buio.
E Claudia sentiva le urla, e il pianto di una madre disperata. Ma non poteva fare nulla, perché non capiva più se fosse tutto vero, o se fosse solamente uno di quei sogni che si fanno quando la notte si mangia pesante. E Mia osservava compiaciuta, un avvoltoio che punta la preda. La missione era compiuta, un’altra vita era distrutta, di nuovo, ancora di più.
Quella notte nessuno aveva dormito. Claudia e Nadia avevano da raccontarsi una vita. Ci si rende conto solo aprendosi che i troppi silenzi non fanno altro che mangiarci, consumarci dall’interno. Non ci aiutano mai, ci lasciano nel dolore e nell’incomprensione. Ma quando finalmente iniziamo a parlare, si apre di nuovo uno spiraglio di luce. La solitudine inizia ad andarsene. E si ricomincia a vivere. Anche se a Claudia in pochi secondi, qualche ora fa, era sembrato di morire.
Ma poi, finalmente tutto era diventato più chiaro.
“Da quanto tempo fai di nuovo quella cosa tanto brutta?”
“Sono quasi sei mesi..”
“Perché non me l’hai detto?”
“Perché non avresti capito”
“Ti posso aiutare”
“Si, ti prego. AIUTAMI. Non ce la faccio più”
Nadia aveva capito solo adesso cosa c’era dietro l’acqua che scorreva, della musica troppo alta mentre Claudia era in bagno. Dietro Claudia che dopo cena, dopo pranzo, era sempre in bagno. E sapeva che non poteva stare lì a guardare, a fare finta di nulla. E forse avrebbe preferito non aver visto nulla, non aver sentito nulla. Ma le faceva male il cuore, perché nessuno si merita questo.
Quella notte nessuno aveva dormito, perché c’erano tante cose da mettere in valigia.
Un cuore a pezzi, sogni infranti, delusioni.
E si partiva per la clinica, e le cose brutte questa volta dovevano rimanere tutte là. Chiuse nella valigia. E al ritorno ci sarebbe stata una valigia nuova, grande come una casa.
Quella mattina il cielo era ancora buio mentre Nadia e Claudia partivano.
Il viaggio era lungo, ma il tempo passava in fretta. Quando viaggi verso te stesso, chi conta i minuti, le ore?
Gli alberi verdi, altissimi, incorniciavano il lunghissimo viale che si faceva strada sulla collina. Le pietre scoppiettavano sotto le ruote, e il cuore batteva più forte. E ormai erano arrivate.
L’aria pulita le aveva accarezzate mentre scendevano dalla monovolume argentata, e un po’ di serenità cominciava a farsi spazio in mezzo a tutta la confusione della sera prima.
L’infermiera, sorridente e pacata, aveva preso nota di ogni piccolo dettaglio che riguardasse Claudia, e subito aveva trovato un posto per lei. L’aria del cambiamento forse aveva un po’ quell’odore strano di ogni ospedale, ma profumava di ottimismo e felicità.
La stanza era piccola ma confortevole, e Claudia aveva già sistemato tutte le sue cose.
Nadia l’aveva salutata poco prima, perché non voleva entrare nelle camere: non voleva sentire il dolore di dover lasciare sua figlia, seppure per una buona causa. Non voleva rivedere i corpi quasi senza vita che l’ultima volta affollavano la clinica. Voleva solo che tutto finisse presto.
Si chiamava Chiara, ed era così delicata e fragile. Il letto sembrava risucchiarla talmente era sottile.
“Ciao, io sono Claudia. Sei nuova? Io manco da sei mesi, ma qua conoscevo tutti. Non credo di averti mai vista..”
“Ciao, io sono Chiara. Si, sono nuova da queste parti.. ma alla fine questi posti sono tutti uguali! Tu perché sei qui, e perché sei mancata sei mesi?”
“Perché se n’era andata e poi è tornata.”
“Scusa, ma di chi parli? Chi è questa?”
“E’ Mia.”
“No, non ho capito.”
“Bulimia.”
I giorni sembravano tutti uguali, ma le cose andavano finalmente meglio.
Le sedute comuni erano le preferite di Claudia, perché la facevano sentire meno sola, meno sbagliata. E ognuno si raccontava e si capiva che tutti erano come un puzzle con un pezzo mancante, e che si stavano impegnando per trovare quel pezzo. E non era mai facile.
E solo alla mensa ci si rendeva conto di quanto la sofferenza fosse realmente: gli sguardi vuoti, i piatti pieni, i bicchieri traboccanti di lacrime.
Le medicine erano diminuite rispetto a sei mesi fa, ma Claudia proprio non le sopportava. Non sono i legami chimici e i principi attivi che curano le persone. Le persone curano le persone, con le parole, con l’amore.
La notte si andava a letto presto, e tutti sembravano stanchissimi, anche se nessuno aveva fatto niente più che stare a letto, andare alla sala comune, alla mensa, e poi tornare a letto.
“Ancora qui? Ma non ti fanno mai alzare?”
“Dicono che è pericoloso, che potrei cadere, o che mi potrei agitare e che poi il cuore non ce la farebbe. Ma io non ci credo, secondo me non è vero.”
“Allora adesso ci proviamo. Ti porto a fare un giro.”
“Ci proviamo? Tu sei matta! E se ci trovano? E se mi emoziono?”
“Cos’hai da perdere?”
Piano piano, quasi senza respirare, Claudia era sgattaiolata fuori dal letto, ed era andata verso Chiara. Aveva tolto con delicatezza coperta e lenzuolo, e non era rimasto nulla su quel letto. Poche ossa, sottili come stuzzicadenti.
Claudia prese Chiara in braccio e uscirono dalla stanza, dirette alla grande porta finestra che si trovava nell’atrio.
La notte era illuminata dalla luna piena che si intravedeva dalle spesse tende, e il cielo era talmente limpido che sembrava ancora più immenso, con tutti quei puntini luminosi dispersi chissà dove nell’universo. Tutto era silenzioso.
“Claudia, cosa vuoi fare quando esci da qui?”
“Tornare a casa, subito. E buttarmi nel mio letto, e abbracciare mia madre.”
“Io non lo so se me ne voglio andare. A casa starei sempre da sola, qua almeno c’è sempre qualcuno. Non mi sento mai sola come prima.”
“Non devi sentirti sola, questo è un punto fondamentale. Vedi tutte quelle stelle, la luna? Secondo te, se nel mondo esistessi solo tu, se fossi veramente sola e se fossi l’unica a poterle vedere, tutto questo esisterebbe?”
“ Ma quando ti senti sola, anche quando tutti vengono a trovarti quando sei malata, tanto non le puoi vedere queste cose. La finestra è troppo lontana dal mio letto.”
“Si, però esistono lo stesso.”
A passo felpato, erano tornate il più in fretta possibile in camera, e tutto per fortuna taceva ancora.
“Claudia, grazie. Mi fai sentire viva, anche se lo so che sto morendo.”
La notte era trascorsa velocemente, e Claudia ripensava a tutte quelle stelle, che ieri sembravano brillare ancora di più. Le cose andavano meglio, le medicine diminuivano, il piatto piano piano si svuotava, e i brutti pensieri andavano via. I vestiti non erano più due taglie più grandi, e quando si guardava allo specchio si vedeva finalmente bella. Sapeva che mancava poco. Eppure, le dispiaceva. Non voleva abbandonare Chiara, che invece lentamente si stava consumando. Tutto di quel corpicino era ormai deteriorato, ma una sola cosa continuava a essere vivissima : gli occhi azzurri, sempre allerta, sempre sorridenti, sempre vivi.
Quel giorno finalmente anche Claudia poteva uscire a fare una passeggiata. Aveva pensato di portare qualche fiore nella stanza, per colorare un po’ il grigiore di quelle quattro mura ormai veramente troppo strette. Tutta contenta, con un mazzetto rosso e verde in mano, percorreva sorridente il corridoio.
Ma arrivata in camera, qualcosa era diverso. Ma cosa? Sembrava tutto apposto, e poi..
Chiara, dov’era Chiara?
I fiori rimasero sparpagliati per terra, mentre Claudia correva, correva forte verso l’infermiera.
Con uno strattone bloccò Lucia, la prima che aveva trovato in corridoio, e iniziò a urlare, a buttarsi per terra, a piangere.
“Cosa le avete fatto? Dove l’avete portata? Perché lei? Perché non io? Perché?”
Tutto era buio. Di nuovo. E il cuore raggrinzito faceva male al pensiero che qualcuno o qualcosa avesse potuto fare del male a una creatura così fragile e indifesa. Eppure forse il mondo doveva andare così. Per una che si riprendeva, una doveva soccombere. Ma chi decideva?
I giorni passavano sempre più in fretta, e Claudia non sentiva più quella voce flebile che la chiamava al mattino, che la salutava alla sera, che la accompagnava durante la giornata.
Ma finalmente era giunto il momento di tornare a casa. Tutto era passato, e questa volta per sempre.
Il viaggio di ritorno fu così calmo e intenso, e pieno di buoni propositi. E Mia non era più seduta nel sedile posteriore, o dentro la valigia. Mia non esisteva più.
Il primo giorno di scuola dopo la clinica, tutto era andato benissimo. Claudia aveva preso coraggio e aveva parlato davanti a tutta la classe del vero motivo per cui era stata via tanto tempo.
E tutti l’avevano ascoltata in silenzio, e nessuno aveva avuto il coraggio di farle una domanda. Sembrava così felice, così raggiante, che nessuno avrebbe voluto ricordarle dei momenti bui.
E quella mattina era tornata passando dalla strada più lunga, così poteva ascoltare ancora un po’ di musica. Tanto non c’era fretta.
Nadia la aspettava a casa, aveva preparato un pranzo con i fiocchi per quella giornata tanto speciale.
“Tutto bene a scuola?”
“Si, mamma. I miei compagni erano felici di vedermi..così!”
“Sono contenta, e anche tu dovresti esserlo. Ma vedo che c’è qualcosa che ti turba.. vuoi parlarne?”
“Mamma, come si fa quando una persona muore?”
“In che senso, Claudia?”
“Come fai a non pensarci, a sostituirla?”
“Non puoi, cara. Devi solo aspettare che il dolore passi, e certo non è facile. Ma poi passa, niente è per sempre.”
“Mamma, io in clinica non ci voglio più tornare. Voglio sempre stare bene. Voglio essere guarita. Chiara è morta, e io non posso pensare di rivedere il suo letto vuoto, di non poterla più prendere in braccio. Non riesco a mandare via il dolore.”
“Sembra difficile, ma alla fine viene naturale. Hai presente quando la pioggia ti bagna? Ecco, è tipo così. Tu non ti devi preoccupare. Poi scivola via. Si asciuga.”