Mio fratello e la sua musica, Tabea Hawkins
Racconto vincitore Premio Energheia Germania 2022
Mi ha sempre infastidito il fatto che mio fratello cantasse come prima cosa al mattino.
Mi alzavo dal letto, con gli occhi ancora chiusi dal sonno, e mi dirigevo verso il bagno, solo perché le mie povere orecchie venivano attaccate da lui che intonava una canzone o un’altra.
Ero al caldo, rannicchiata nel mio letto, godendomi beatamente il privilegio domenicale di dormire fino a tardi, solo che il pianoforte dall’altra parte del muro scoppiava in un’allegra melodia. E quando uscivo dalla mia stanza, maledicendolo fino al cielo, mio fratello si girava verso di me con un ghigno da far paura, mentre le sue dita non smettevano mai di danzare sull’avorio e sull’ebano.
E non è che io sia un Grinch della musica. La mia famiglia ha sempre fatto musica, mia madre semi-professionale, mio padre mentre preparava la colazione. Mia madre ha ancora le cassette di me che di me che cantavo prima di poter parlare, ho cantato davanti a centinaia di persone prima dei dieci anni… ma non canto come mio fratello.
Mio fratello canta per respirare, per sentire, per funzionare.
Non ha bisogno di un pubblico, non c’è nessuno che lo ascolti e canterebbe comunque.
E la gente continuerà ad accalcarsi intorno a lui quando lo farà, per ascoltarlo con le stelle negli occhi, o per unirsi con le proprie voci e portare un’atmosfera di gioia, che gli strapperà un sorriso smagliante, quello che gli fa stropicciare gli occhi e gli fa vedere il vuoto e la fessura tra i denti anteriori. Quello che ha da quando era piccolo.
Quindi, sì, forse c’era anche un certo grado di invidia che giocava nel mio fastidio, ma soprattutto era solo il puro e semplice rumore. Di quanto e quanto spesso, e di come fosse sempre lì.
Finché un giorno smise.
All’inizio non ci feci nemmeno caso, dormivo la domenica e mi svegliavo gradualmente la mattina, avevo la mia pace e tranquillità mentre mi lavavo i denti.
Ci volle un po’ di tempo per notare che la sua porta era sempre chiusa.
Che non lo vedevo quasi più.
Che non ricordavo l’ultima volta che l’avevo visto sorridere, non quel sorriso a denti stretti.
Seguirono mesi in cui il silenzio riempiva la casa come una nebbia pesante che sembrava cotone avvolto sulle orecchie.
Mesi in cui cercavo conforto nella musica degli altri per non piangere in treno.
Mesi in cui mi sono sentita completamente impotente, mentre io e mia madre lavoravamo a turno da casa per evitare che lui non sarebbe stato solo e non sorvegliato.
Mesi in cui abbiamo lottato per ogni promessa, alla ricerca di qualsiasi opzione, soluzione, con cui tutti noi potessimo convivere. Mesi in cui io e mia madre eravamo in cucina. Lei preparava il caffè, io mescolavo miele nel tè e lui uscì dalla sua stanza con una canzone sulle labbra e un sorriso sul viso, e sapevamo che il peggio era passato.