Momenti indimenticabili_Lawrence Lentilalu
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione di Maria Gabriella Larocca
Mi svegliai di buon mattino per prepararmi, come sempre, ad andare a
raccogliere frutti selvatici della giungla. Mi fermai sulla porta della capanna
– nkaji 1 – per far sì che i miei occhi si adattassero alla luce sfumata
dell’alba.
Era una mattina tiepida, polverosa, e gli spinosi alberi di acacia oscillavano
senza sosta nella brezza. Il sole sorgeva lentamente ad oriente;
sembrava una palla di fuoco, rossa, e dava al paesaggio una tipica impronta
di deserto tropicale.
Mi incamminai giù per il prato arido verso la giungla isolata. Portavo
sulla spalla sinistra una borsa di pelliccia. Prevedevo di raccogliere
ogni singola bacca che poteva essere caduta a causa del vento. Quando
mi avvicinai ad un cespuglio di arbusti qualcosa di strano colpì il mio
sguardo. In un primo momento non riuscii a capire che aspetto avesse
e ciò mi indusse ad osservarlo con innocuo disprezzo. Ad essere onesti,
il desiderio delle bacche mi spingeva comunque a lasciar perdere
l’insidioso oggetto.
Perciò proseguii velocemente e prima che mi fossi trovato a distanza di
sicurezza, notai qualcosa di simile ad un lungo ceppo. In realtà, la misera
figura aveva assunto la posizione di un corpo che dormiva. Era appoggiato
in modo commovente al tronco di un albero carico di bacche
selvatiche che cresceva sulla riva sconnessa di un fiume stagionale. Era
ben avvolto in una malridotta coperta. Inoltre le sue gambe si allungavano
distintamente lungo il dolce pendio della riva del fiume. Era così
visibile che qualsiasi ragazzino africano affamato, alla ricerca di bac-
che selvatiche, avrebbe potuto scoprirlo facilmente. Feci fatica a comprendere
se davvero si trattasse di un corpo privo di vita. Tentai di scavalcarlo
con un salto, ma accidentalmente lo calpestai. Allora, una polvere
brunastra mi ricoprì tutto, dalla testa ai piedi e, per un attimo, diventai
cieco come una talpa. Me la tolsi di dosso con uno scossone e
strinsi forte nella mano destra il mio rungu, un’arma di legno con un’estremità
arrotondata. Senza dubbio ero pronto a combattere solo per difendermi
nel caso la strana figura si fosse dimostrata feroce.
Mia madre, di recente, si era divertita a raccontarmi storie spaventose:
fantasmi, orchi, leoni, iene e lepri. Sono sicuro, comunque, che mia
madre mi ama e che non avesse intenzione di spaventarmi. Forse aveva
previsto che un giorno mi sarei imbattuto in un cadavere, eppure
ne ebbi paura.
Poi vidi qualcosa di bianco che colava dalle narici e dalla bocca. Purtroppo
si trattava di un cadavere; naturalmente, e si trattava di una giovane
donna. Allora la paura mi afferrò e respirai profondamente. In genere,
non facevo difficoltà ad accettare tutto ciò che vedevo. In quella
situazione provai un senso di irritazione che trasformò la mia audacia
in incapacità di superare il pericolo. Urlando per l’orrore che provavo
feci diversi balzi all’indietro. L’orlo del mio piccolo perizoma ondeggiò
e si agganciò ad un ramo che pendeva lì accanto.
Mi tremarono le gambe e non riuscii a nascondere il senso di panico che
mi assalì. Immediatamente rimasi fermo con il labbro inferiore stretto
tra gli incisivi, il che rendeva visibile la mia agitazione. Mi allontanai
dal cadavere e rimasi fermo a guardare senza sapere cosa fare. Tutto era
confuso. Percepii distintamente che la mia ostinata missione di raccogliere
i frutti avrebbe subito una battuta d’arresto. Tutto il programma
di raccolta quindi era decisamente bloccato.
Mentre il sole si alzava alto nel cielo, l’aria diventò calma e calda. Tutto
intorno non c’era che deserto e un senso di solitudine che era acuito
dalla presenza di quel corpo privo di vita.
Tornai allora indietro per il sentiero che mi riportava a casa. Il nostro
manyatta – villaggio Samburu di forma circolare, circondata da un recinto
di rami spinosi a protezione delle persone e del bestiame – si trovava
su un terreno aperto. Quando arrivai a casa vidi, da lontano, mia
madre che entrava nel manyatta e si dirigeva verso la capanna. Portava
sul petto mia sorella più piccola e sulla schiena una catasta di legna
per il fuoco.
Generalmente, era compito delle donne andare a prendere l’acqua, raccogliere
la legna da ardere, prendersi cura del bestiame e preparare i pasti
per la famiglia, tra le altre faccende da sbrigare. Mio padre, invece,
passava gran parte del suo tempo seduto su uno sgabello a tre gambe,
giocando a ntotoi, un gioco tradizionale che si giocava con dei sassolini.
Di solito partecipava a trattative per matrimoni, sedando dispute e
proteggendo la famiglia dai ladri di bestiame. Ma, in realtà, era molto
difficile che avesse davvero qualcosa da fare.
All’improvviso un’idea mi balenò in mente. Dapprima pensai che non
fosse saggio assillare mia madre che stava lavorando. Doveva essere stanca,
aver sete e fame sotto quel sole cocente. Poi pensai di parlare del
problema ai custodi dell’ordine e della legge. Invece, preferii parlare con
mia madre poiché avevo un sacro terrore per quel padre che dispensava
punizioni. Mi era ben nota la sua rigidità nel far rispettare le regole,
specialmente quando si trattava di questioni etiche.
“Stai bene?”, mi domandò mia madre preoccupata. Aveva forse percepito
la mia infelicità dal mio insolito silenzio.
“Va tutto bene?”, mi chiese.
Feci degli scarabocchi sul terreno come uno di quei vermi che si trovano
nel terreno. Non dissi neanche una parola. Continuai a restare in silenzio.
Mia madre allungò la mano e mi diede un colpetto sulla testa
per attirare la mia attenzione.
“Sto bene, mamma”, le dissi con difficoltà.
Non ero in grado di trovare le parole giuste per farle capire la difficile
situazione in cui mi trovavo. In quel momento sentii nelle mie parole
una certa contraddizione. Mi ero espresso in modo confuso, benché lei
fosse un’esperta nel capire quello che volevo dire.
“ ma… sembri turbato”, disse, sorpresa.
Esitando le dissi del cadavere che si trovava nella giungla.
“E’ il corpo di una ragazza che è stata costretta a sposarsi presto”.
Le sue parole suscitarono immediatamente la mia curiosità.
“Un gruppo di uomini del villaggio” continuò, “ha barattato la ragazza
in cambio di mucche, denaro, liquori e coperte. Poi gli uomini hanno
bevuto muratina – una birra locale – per sigillare il matrimonio dietro
pagamento”.
Di solito, una ragazza era considerata fonte di ricchezza, mentre un ragazzo
apparteneva alla casta superiore in quanto erede. Quando una famiglia
aveva delle figlie era considerata ricca.
Era pratica comune che il consiglio degli anziani obbligasse le giovanette
a sposarsi presto. Questo sistema costituisce la cosiddetta nkauti
(la dote), che è essenzialmente un contratto che coinvolge l’intera comunità,
più che le coppie. Questo tipo di matrimonio è legato alla dote
e non all’amore.
Il pagamento della dote, ovviamente, può essere tremendamente costoso,
ma non dovrebbe mai essere messo sullo stesso piano della vita, dei
diritti, dei desideri e della libertà della ragazza.
In seguito la ragazza scoprì uno strano accordo matrimoniale e non accettò
di essere la sesta moglie.
“Decise quindi di avvelenarsi e così si tolse la vita”, mia madre continuò;
poi fece una pausa.
Infine aggiunse che la donna morta era stata gettata nel cespuglio. Provai
un profondo senso di disgusto, mentre ascoltavo senza fare domande.
“Una donna come quella, non sposata, non poteva essere seppellita adeguatamente
e, ancora peggio, era vittima di un suicidio”, aggiunse.
Non riuscivo a resistere al senso di profondo odio che mi montava
dentro.
“Fu considerata un’emarginata, abominevole e posseduta da spiriti maligni”
mi disse mia madre. Poi rimase in silenzio, scosse la testa e mi
guardò. Doveva aver notato in me un senso di amarezza. Finora mi ero
chiesto perché gli anziani del villaggio non erano stati in grado di fare
un vero e proprio funerale della comunità.
Poi mia madre aggiunse: “E’ la nostra cultura!”, e tacque.
In quel preciso istante, compresi la dura verità. Sì, le nostre tradizioni
sono caparbiamente legate al modo di vivere patriarcale. Respirai profondamente
e pensai a quella generazione ingiusta che non aveva saputo
cedere il passo ad un raffinato ordine culturale che poteva, infine,
trasformare i poco promettenti standard sociali.
Ero così dispiaciuto da sentirmi esausto. Alla fine, quando l’atroce cronaca
finì, mi resi conto di come le donne fossero trattate sfavorevolmente
e dell’assurdo modo in cui era stata considerata la donna morta.
La fresca brezza della sera spazzò il terreno polveroso, mentre il sole
scivolò splendente al di sotto della lontana linea dell’orizzonte.
Sfortunatamente non avevo una stanza tutta mia. Non c’era una stanza
dove potessi riposare al di fuori della comune capanna circolare con il
tetto di erba. Quello era, infatti, l’unico spazio disponibile dove tutta la
famiglia reclamava i suoi diritti, non importava quanto fosse grande.
Il letto era una struttura rettangolare a cinquanta centimetri dal pavimento.
Era in legno, mentre la pelle di un toro, ucciso di recente da una scheletrica
leonessa, serviva da materasso. Spesso il letto veniva rigirato e
serviva da tavolo da pranzo.
In questo ambiente tradizionale nulla poteva essere disprezzato; c’era
una sola certezza: nessuno si sarebbe mai lamentato del fatto che eravamo
in tanti, neanche io per quanto fossi schiacciato, in quel letto, fra
i miei fratelli.
Mi accasciai sul letto e rimasi immobile sotto quel nero ammasso di fuliggine
che pendeva dal tetto. In quel preciso istante una folata di vento
smosse l’erba sul tetto aprendo ampi buchi. Il fuoco brillava maliziosamente
e la cenere si era sparsa quasi dappertutto nella capanna. I
raggi del sole misti a nuvole di fumo si allungavano lentamente attraverso
le fessure del tetto nella buia capanna. In caso di disastro naturale
non c’era alcuna assicurazione sulla casa o garanzia di una qualsiasi
indennità.
Nel frattempo, una cimice affamata infastidiva me, mentre lei sembrava
a proprio agio nel letto.
Il signor Cockroach stava frugando in fretta alla ricerca di calabash, per
mangiare qualcosa. Nessuno gli aveva accennato che non avevo raccolto
nulla, il che era peggio che dover dividere il cibo.
Nonostante le mille difficoltà, mi sentivo infine al sicuro ed incredibilmente
rilassato. Mia madre mi diede quindi un calabash di latte acido
per cena che, grato, bevvi tutto. Per pura coincidenza, sbadigliai, tirai
un profondo respiro e mi misi a russare come un gatto. Avevo mangiato
come un maiale e dormivo come un bambino.
Fui tormentato dalla crudele immagine di un fantasma. Non riuscii a capire
che aspetto avesse, ma ricordo ancora la sua brutalità. Mi inseguiva
e mi spingeva giù da una ripida scogliera. Tutto sembrava tornare a
posto. Inoltre mi sentivo senza peso, nulla riusciva a sostenermi. I miei
piedi affondavano nella sabbia smossa.
Dopo aver lottato a lungo, tra uno spintone e uno strattone, barcollai su
un formicaio monumentale. Tentai quindi di scappare per sopravvivere,
ma le gambe non mi reggevano.
Un sinistro intorpidimento mi toglieva tutte le forze. Ero completamente
senza forze ed incapace di saltare al di sopra dell’orlo del burrone
o di deviare in una direzione più sicura. Purtroppo per me era troppo
tardi per salvarmi dandomi alla fuga perché il fantasma mi aveva intrappolato,
con ferocia, e mi aveva scagliato contro un imponente albero
di acacia.
Poi la debolezza si impossessò di me e mi ritrovai sospeso al centro della
grande, imponente scogliera. Il fantasma mostrava i suoi denti aguzzi,
pronti a fare di me un boccone.
“Aaaahh! Aaaaahh!”, mi misi ad urlare.
Dopo un pò vidi il mio corpo sbranato senza pietà dal fantasma. Per fortuna
era soltanto un sogno!
Trascorsi le poche ore che seguirono in uno stato d’animo nauseante.
Non riuscii a riposare per niente; un insolito vigore si era impadronito
di me. Per tutto il tempo, più che di sonno, si trattò di un susseguirsi di
ricordi spaventosi probabilmente provocati dal pensiero di quell’orribile
corpo privo di vita. Inaspettatamente inciampai e caddi rovinosamente
in ginocchio dietro la pietra a tre punte del focolaio. Ero tutto sudato
ed avevo la pelle irritata.
Fu di nuovo mattina. Un’altra alba brillante, con i galli che cantavano
vigili, e un cielo limpido. Gli uccelli diffondevano le loro melodiose canzoni
boscaglia, tutto intorno. Poco dopo, spinto dalla curiosità, tornai
sulla scena per vedere cosa potesse essere successo al cadavere. Ciò che
vidi mi riempì di presagi incredibili. A poca distanza c’erano delle bacche
schiacciate, sparse dappertutto. Ovviamente le bacche erano contaminate
dalla carne della donna.
Tutto era fradicio sotto quel corpo putrefatto. Il naturale colore viola-
ceo dei frutti era diventato brunastro rivelando, così, un avanzato stato
di decomposizione. Alla fine cominciai a preoccuparmi più di quel cadavere
devastato, che dei frutti.
Devo ammettere che vidi le orme di una bestia che aveva trascinato il
cadavere fra i cespugli; allora mi guardai intorno. All’improvviso scorsi
una famiglia di iene: il maschio stava vistosamente masticando un osso,
mentre il resto della famiglia “rideva” di nascosto. Mi stupii nel vedere
uno sciacallo con un osso fra i denti. Riuscii ad intravederne la superficie
nuda: si trattava indubbiamente di un pèrone.
Fui ancor più spaventato nel vedere i brandelli che pendevano e formavano
un piede umano.
Nulla avrebbe potuto indurmi a perdonare lo sciacallo per quanto la iena,
suo stretto parente, fosse maggiormente riprovevole. La vista di
quelle ossa sparse mi aveva reso insensibile. Inoltre, alcune parti erano
diventate nere come il carbone e l’odore tremendo era diventato insopportabile
sotto il sole cocente. Come se non bastasse, uno sciame di mosche
aveva completamente ricoperto il cadavere per succhiarne l’humus.
Una mosca con l’addome gonfio mi ronzò sul viso, come a consigliarmi
di non avvicinarmi oltre al suo pasto. Non avevo comunque bisogno
dell’avvertimento. Pensai che gli insetti avevano goduto di un pasto terrificante,
a mie spese. In seguito un odore tremendo mi colpì. Trattenni
il fiato per non inspirare quel terribile olezzo. Immediatamente mi
venne da rimettere avendo sviluppato una certa avversione a inalare qualunque
odore in quell’ambiente sgradevole. Tutto sommato, avevo sottovalutato
la mia possibilità di riuscire a superare quella situazione. Fino
a quel momento mi era mancata l’eroica sicurezza di seppellire il corpo.
Lo avevo considerato difficile e tuttavia la necessità di un’adeguata
sistemazione persisteva nella mia mente.
Cominciai a chiedermi perché il corpo fosse in quel posto particolare.
Avevo pensato che il cadavere fosse stato messo lì intenzionalmente
per scoraggiarmi dal raccogliere i frutti di bosco. Ovviamente non volevo
accusare nessuno di vile negligenza e tuttavia nel mio inconscio
provavo una certa animosità. La mia capacità cognitiva era disturbata
e non potevo continuare la mia ricerca. Mi ritrovai confuso ed incerto
sul da farsi.
Alla fine un martellante dilemma aveva spazzato via la mia speranza
di prolungare la ricerca dei frutti.
Per il momento non avevo altra scelta che affrettarmi a ritornare a casa.
Allora mi abbassai per entrare nella capanna di mia madre. In verità
dei pezzi di una calabash rotta avevano ricoperto l’entrata, rendendo
i miei movimenti alquanto difficili. Mi sedetti con prudenza e mi appoggiai
al muro di schiena con aria disperata. La parete era imbrattata
di sterco di mucca che le dava una consistenza ruvida. Dopo un pò chiusi
il capo tra le ginocchia. Una mosca vagava per la casa e si posò delicatamente
sul mento di mia madre. Mi ricordava quella mosca che in
precedenza aveva ronzato sul mio viso. Non vedevo l’ora che mia madre
la scacciasse con un gesto della mano. Cambiai posizione. Mi accovacciai
e sostenni il mento con il palmo delle mani. Non mi interessava
nulla; non feci assolutamente nulla. Mia madre, al massimo, mostrò
per me una fraterna solidarietà che ruppe la mia calma.
Mia madre si era seduta su una pelle di capra dal pelo lungo e puliva un
calabash con del fumo speziato che era un disinfettante comunemente
usato dai nomadi. Amava curare il calabash che spesso usava per mungere
le mucche. Le mungeva due volte al giorno mattina e sera.
Si avvicinava ai settant’anni, ma manteneva ancora costante il suo programma
di lavoro. Il riposo non era mai stato il suo passatempo e la rivedo
quasi sempre indaffarata in qualcosa che avrebbe potuto dimenticare
di fare. Nonostante il suo decadimento fisico era notevolmente bella.
Si adornava con perline colorate e braccialetti di rame. Ma una cosa
era certa, difficilmente le restituivo il sorriso che faceva anche nel mezzo
di una tragedia. Senza dubbio mia madre aveva per me un istintivo
amore materno. Era davvero fonte di conforto per me in quel periodo
di confusione. Devo pertanto riconoscere l’importanza della sua presenza.
“Figliolo, portaci per favore dell’acqua dal ruscello”, disse.
“Sì, mamma”, risposi annuendo.
Doveva essere stanca e assetata dopo aver spaccato legna da ardere
nella giungla.
Quello stesso giorno si avviò in fretta verso il boma (una staccionata recintata
da rovi per limitare i movimenti del bestiame) con una fune e un
calabash tra le mani, come al solito.
Era sera tarda e le mucche da latte aspettavano pazientemente di essere
munte, come al solito. La seguii silenziosamente e rimasi fermo, indolente,
mentre ascoltavo stupito il muggito delle mucche. Dall’altra parte
i vitelli affamati si agitavano e si spingevano nel recinto aspettando
la loro solita razione di latte. Sapevo naturalmente che non erano contenti
che mia madre sottraesse loro il latte delle loro madri. Se le mucche
avessero avuto degli avvocati mia madre sarebbe stata condannata
per accanimento.
Senza perdere tempo, presi un calabash di media misura e mi diressi
verso il ruscello.
Il percorso fu orribile, mentre il sole cocente non mi permetteva di andare
oltre. Pertanto mi concessi una pausa sotto dei cespugli che era l’unico
modo sicuro per evitare il caldo torrido.
Dopo pochi minuti mi diressi verso la fonte dell’acqua. Il sentiero diventò
più stretto e più diritto con cespugli ai lati. Alla fine sembrò volgere
al termine nella giusta prospettiva, mentre Liyo (il miraggio) brillava,
tanto da essere visibile anche se indistinto e difficile da raggiungere.
Sembrava davvero uno strato d’acqua visto da lontano.
Da un punto di vista culturale, i miraggi danno un’impressione di vaghe
speranze, di ambizioni insoddisfatte e rapporti non realizzati. Questo
è piuttosto un realismo ulteriore che la comunità Samburu considera,
a quanto si dice, simbolo di solitudine, isolamento.
Sì, la solitudine si insinuò in me. In seguito i gridi delle colombe calmarono
questo senso di solitudine sulla riva. Mi accovacciai sul bordo
dell’acqua pronto a spegnere la mia sete. Inaspettatamente una grassa
rana si allontanò saltando per paura del traditore che si avvicinava.
Fui sorpreso nel riconoscere che qualcosa di informe e puzzolente fluttuava
sulla superficie dell’acqua tranquilla. All’improvviso, senza preavviso,
un cattivo odore tradì la carne vomitata. Mi resi conto che la stitica
iena aveva vomitato nello stagno.
Ero più che disgustato. Il tessuto spugnoso di quella sostanza marcia mi
fece tornare in mente il corpo in decomposizione. A dire il vero, quella
strana cosa mi scioccò. Puzzava come un uovo marcio. Non aveva importanza
cosa fosse, nulla avrebbe potuto spegnere la mia sete o la necessità
di portare a casa un pò d’acqua.
Giù, in fondo all’acqua vidi la mia immagine. Si increspava a tempo sotto
la spinta delle onde. A proposito, se un riflesso poteva significare la
pura verità, vidi la sfortuna dipinta sul volto, giù nell’acqua. Il truismo
superstizioso dei Samburu “meata nkare paya” (l’acqua, naturalmente
non puzza) mi indusse a bere l’acqua nonostante la presenza di quel fetido
pezzo di carne. Immediatamente, raccolsi l’acqua con un calabash.
Uno strano oggetto riempì, invece, il calabash e con un profondo sospiro
lo lasciai poi andare e quindi ricadde nel ruscello con un tonfo.
Mi voltai e improvvisamente mi resi conto che non avrei potuto soddisfare
la mia sete, per il momento. A quel punto, feci un passo indietro
e poi mi misi a correre come un ragazzo insensato che insegue uno scarabeo
smarrito. Un ceppo colpì il dito del mio piede. Caddi di peso e
sprofondai nel fango con un tonfo. Mi ritrovai all’improvviso, goffo e
disperato, con una ferita alla testa. Senza rendermene conto gemetti, inzuppato
fradicio. Ero debole e privo di sensi. Quando riaprii gli occhi
ero circondato da molte persone. Tra loro una donna vestita di bianco,
un’infermiera. Indossava un vestito bianco ed aveva una sciarpa intorno
al capo. Qualcuno allungava il capo sopra di me per esaminare la ferita
in ogni particolare.
Ero comunque preoccupato per quello strano posto e per la strana donna
che mi assisteva. Mi diede delle compresse da ingoiare, quando ebbe
finito di farmi un’iniezione.
Ero sorpreso da quel luogo straordinario.
“Signora”, dissi, “dove mi trovo?”, chiesi a mia madre.
Il tetto era fatto di lucide lamine di ferro, le pareti in pietra, dipinte di
blu. Il letto in metallo era comodo ma stretto se confrontato con quello
tradizionale.
“Sei svenuto ed un buon samaritano, la signora Naanyu, ti ha prestato
le prime cure prima di chiamare i soccorsi”, aggiunse.
In verità non avevo mai conosciuto la buona samaritana, come mia madre
aveva lasciato intendere, ma non dubitai della sua gentilezza. La signora
Naanyu, nostra vicina, colse la palla al balzo per descrivere come
ero arrivato lì.
“Ero dietro di te quando sei inciampato in un pezzo di legno”, disse. Spiegò
che ero inciampato ed ero caduto battendo la testa. Il luogo in cui
era accaduto l’incidente era roccioso e mi ero tagliato la fronte con lo
spigolo di una pietra. La signora Naanyu aveva allora lasciato cadere i
suoi calabash ed era corsa verso di me per aiutarmi. Aveva strappato il
panno che indossavo e ne aveva messo un brandello su una ferita aperta,
per fermare il sangue. Il sangue gocciolava dalla guancia sul terreno;
colava in modo incontrollabile, specialmente in quelle ore del giorno,
così calde. Quindi la signora Naanyu mi aveva prestato soccorso prima
di chiamare aiuto. Aveva suscitato agitazione ed una gran folla era
accorsa immediatamente.
“Alla fine ti abbiamo portato qui, al vicino dispensario, per farti curare.
Ma, non preoccuparti, figliolo, tutto si sistemerà”, aggiunse con
calma.
Avevo piena fiducia in queste donne e pertanto non volevo dar loro fastidio.
Mia madre, in particolare, era curiosa di sapere cosa avesse causato
l’incidente ma era perfettamente conscia della mia debolezza.
Rimasi lì per circa tre ore. Infine, non appena mi sentii meglio, fui dimesso.
Non dimenticherò mai quel terribile incidente, della mia vita.
(1) nkaji: termine del dialetto Samburu, comunità nomade della pianura del Nilo che vive
nel Kenia settentrionale.