Morbid creature_Antonella Sciancalepore, Bisceglie(BAT)
_Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005_
“Io sono Shana, io sono Shana.
Bacio lo specchio e mi allontano lentamente.
Nella mia casa vuota accarezzo le ragnatele di vetro dietro i miei occhi e parlo alle sedie e a me stessa della mia terra che terra non è, della mia vita che vita non è, e di tutta la strada per arrivare là”.
Sshhhh, la mia testa…
I piedi magri e scuri avvolti fino ai talloni negli orli grigi cicatrizzati dei jeans. Il luogo bianco tra due porte. Campane.
Le cose non dovrebbero andare così. Non questa pigrizia.
Tenten-ch lievi e un po’assonnati della batteria, dita sulle corde. Non è difficile capire perché gli Smashing piacciano a molti, dato che assomigliano tanto alla colonna sonora di un film adolescenziale. È che quando sono triste non riesco nemmeno a lottare o gridare, quando sono triste riesco solo a pensare alla bellezza nelle nuvole.
Mi stiracchio liberandomi dalla crisalide sgualcita.
La porta sogghigna improvvisa nella stanza in penombra, entra odore di caffè e di pulito. La lumaca di Burroughs cola dall’occhio. La porta smette di cicalare e si richiude.
Fff continuo del ventilatore che ha perfidamente desertificato in poco tempo la mia scrivania.
… corsa infinita nel deserto, le origini dei sacri fiumi si annodano e mutano. Il suonatore di sitar distorce le dita nell’odore di candele al cedro e le bolle di papaveri occhieggiano e rimbalzano nell’atmosfera atomizzata, stracci di un viso si scollano lenti dalla parete, strisciando verso il basso.
La nebbia si alza sempre a quest’ora sulla superficie viscosa dell’acqua ferma…
Insetti neri d’ombra sradicano la stanza e la luce campeggia nitida e un po’artefatta su di me, come i raggi stilizzati gialli e rossi di un sole orientale.
– Oh ma che diavolo… che ti sei fumata? Prendi lo spazzolino da denti e qualche vestito, esci da questo putridume e sali in macchina, povera pazza…
Mi ricordo di lei? Mi ricordo di lei?
Vento striscia il cielo smaltato mentre la campagna trema nel sobbalzare dell’auto sulla strada.
Lungo asfalto polveroso e assolato, miliardi di ginestre e lavande e papaveri a sfamarsi di mezzogiorno, davanti continue strisce ipnotiche d’acqua che scompaiono appena ci si avvicina, lasciando solo polvere e sole ad avvolgere le ruote.
Non c’è tempo per pensare ad altro.
Rea tiene una mano sul volante e con l’altra mantiene fuori dal finestrino una sigaretta quasi al filtro, sa che odio la puzza di fumo ma questo è il massimo che possa fare i Nirvana nello stereo malmesso i miei braccialetti tintinnanti il finestrino tenuto su con il nastro adesivo i dadi rossi appesi allo specchietto retrovisore il nostro arrotolato e sudaticcio abbigliamento degli ultimi sei giorni e dei prossimi ventiquattro sul sedile posteriore la sciarpa gialla di Rea il mio sguardo riflesso nel finestrino she eyes me like a pisces when I’m weak I’ve been locked inside your heart-shaped box for weeks I’ve been drawn into your magnet tar pit trap I wish I could eat your cancer when you turn black seguo il movimento lieve delle mie labbra Rea che getta dal finestrino quella maledetta cicca di sigaretta ne avevo proprio bisogno ti stai uccidendo lo sai vero sta’ tranquilla che frego tutti e un giorno di questi mi schianto contro un albero oltre al fatto che su questa macchina ci sono anch’io e poi che discorso indegno e puerile Ah! e che significa ah? significa che non m’importa I’m worse at what I do best and for this gift I feel blessed our little group has always been and always will until the end hello hello hello how low? i gioielli d’argento antico da gitana il poncho macchiato rintanato sotto il sedile e il mio libro il mio libro la strada la strada nella voce di Rea.
– Che hai?
– Sono distratta, sbadata, distruttiva in ogni cosa che faccio.
Non prendo mai la decisione giusta. Non riesco nemmeno nel vittimismo.
– Una cosa talmente vanesia.
– Già. Ho lasciato fuggire tante cose, my dear. Sono caduta e la morbid creature del panico sale strisciando, mi trascina e mi liquefa. Il tempo mi si sta allungando nella testa come gli orologi di Dalì. In cosa credo? È giusto così? Ora, tutto è già stato detto, Rea.
A mulatto an albino a mosquito my libido
– Shana. C’è una ricetta per fare la cosa giusta? Per rendere migliore il mondo? Io so solo la ricetta della torta al cioccolato.
Sorrido. – È già un buon inizio, suppongo.
– Vedi Shana… L’incostanza, l’insicurezza… se non fosse così mi schiaccerebbe.
La sua voce si è andata man mano affievolendosi. La guardo. With the lights out it’s less dangerous here we are now entertain us
– Sarebbe una responsabilità troppo grande per me. Non voglio creare, voglio che le mie azioni siano il fine, non il mezzo, se mi segui.
Il tono è diventato più profondo e carezzevole, quasi di una madre surreale. I feel stupid and contagious
– Certo. Non condivido ma ti seguo.
– Le cose prendono una strana piega se le guardi da lontano. I colori si alterano, Shana… chi torna… perfetto? La strada, la strada, il libro.
Dylan smise gli abiti sporchi di terra e, vestito di tutto punto, scese nella rimessa. Era lì il posto, quella l’ora. Forse gli uomini bianchi dello spazio avevano deciso finalmente cosa avrebbero fatto di lui: troppo tempo era passato da quando gli avevano iniettato il siero nelle vene e già sentiva il suo sangue più nero. Avrebbe detto la verità a qualcuno, prima o poi. “È tutto più bianco il giorno dopo ieri”, pensò guardando il cielo ingombro di nuvole, così bianco da accecare per la sua luce insensata. “In fondo”, si disse mettendosi le mani in tasca e avanzando di un passo fuori della rimessa, verso il campo alto di granturco, “In fondo non dovrei attardarmi in questa nebbia, ora che la notte cala senza preavviso”. Alzò la testa e annusò l’aria. “Non c’è più nulla che possiamo dare per certo”, concluse saggiamente, abbassò lo sguardo e, tornato dentro, si sedette sul suolo sterrato, la schiena contro il muro. Diede un ultimo sguardo attorno e si addormentò.
– … autogrill, ma che fai dormi?
Cerchi verdi ondeggiano nell’acqua fluorescente, intrecciandosi e componendosi e scindendosi come cellule, caldo polveroso chiuso che sporca i nostri umidi organi; le mie labbra tremano e non riesco a deglutire saliva amara, sporgo la testa dal finestrino.
– Oh merda, che cazzo fai, Shana!
Ho gli occhi chiusi e il vento rapprende il vomito sulla mia bocca. Rea sterza bruscamente, uscendo fuori strada e frenando su un cespuglio odoroso. Tossisco mentre cerco con le mani la maniglia della portiera.
– Cazzo, Shana, mi hai sporcato la fiancata dell’auto.
– Scusami – mormoro uscendo dall’auto. Puzza di vomito che mi riempie le mani e le narici e la gola che pizzica. – Almeno non t’ho impiastricciato la tappezzeria.
– In quel caso ti avrei già ammazzata. Cazzo, che schifo.
Ehi, stai bene?
– Mai sentita peggio.
Mi appoggio al cocente cofano celeste. Respiro profondo, gli adesivi sbiaditi sul metallo.
– E ora? – chiedo socchiudendo gli occhi nell’aria piena di luce. Rea mi guarda.
– Sali in macchina, va’ – mi fa, mentre mi sto già sedendo.
– Grazie al cielo c’è un autogrill tra qualche chilometro. Eh, t’immagini la faccia di quelli appena ci vedono arrivare? Cristo, però potevi dirmelo che stavi male. È che non dovresti leggere in auto, e poi com’è che si chiama il libro? La nebbia nell’Oklaoma… insomma, che merda di titolo…
– Sto meglio ora. Davvero. E poi non è colpa del libro. O almeno, non credo. Comunque hai ragione, fa pietà.
Chiudo il libro e accenno a buttarlo dal finestrino. No, ho un’idea migliore. Tiro fuori dal cruscotto l’accendino di Corto Maltese quasi scarico e accendo una pagina.
– E questo cos’è, voo-doo?
– Sì, più o meno. Una specie di esorcismo contro la cattiva letteratura. Non ti spiace se rischio di incendiare l’auto, vero?
– Sentiti libera.
Rea si mette a cantare una nenia popolare mentre, pagina dopo pagina, il volume prende fuoco, si incenerisce e in irriconoscibili pezzi di carta bruciata vola via a posarsi sul vento.
Ora la mia mente è di nuovo pura.
Prego nella lingua della Terra. Rea continua la sua triste ed elaborata nenia da zingara, mentre con la testa fuori dal finestrino lotto contro l’aria veloce che mi fa chiudere gli occhi.
Non cedo e lascio che la polvere mi asciughi, ricoprendomi e cancellandomi. Voce oltre il mondo, tu mi stringi bruciando.
Voce oltre l’estasi e il dolore, non inghiottirmi nel silenzio, non esiste morte per noi.
– AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
Mi rintano in macchina, chiudo il finestrino rimettendo a posto il nastro adesivo e incrocio le braccia sul petto. Rea conclude la sua canzone incomprensibile mentre guida, gli occhi fissi in un punto qualsiasi sull’orizzonte, un punto così piccolo e lontano da non esistere quasi.
… il mio libro il mio libro, ho deciso di scriverlo da quando avevo otto anni, il mio libro, e da allora accumulo fogli su fogli, pezzi di carta imbrattati di grafite due-bi, spunti e inizi di capitoli che non oltrepassano le trenta righe. In fondo io non sono una narratrice. Non sono una scrittrice, non sono niente. È solo che a volte mi piacerebbe davvero, essere brava in qualcosa…
Le pareti sono beige, uno di quei colori rilassanti e deprimenti che si devono usare per gli interni di posti come le lavanderie a gettoni, i bagni pubblici, le scuole. Entra una donna con prole a seguito, il viso infantile appesantito dall’improvviso invecchiamento, il corpo deformato dalla pinguedine delle gravidanze, i gesti bruschi che descrivono le grida contro suo marito, i marmocchi che non stanno mai fermi, le buste della spesa, la cucina, la lavanderia, i pranzi coi parenti, le sacre chiacchiere; l’accento popolare e stridulo mentre richiama per l’ennesima volta i bambini dagli occhi luminosi che sembrano quasi puri, sembrano non essere stati contaminati dalla grettezza di ciò che li circonda. È questo il motivo per cui guardo la gente che entra nelle lavanderie a gettoni: lezioni di pura antropologia. La signora mi guarda in cagnesco con la severa suscettibilità da matrona di provincia, adocchia i miei piercing, i miei bizzarri monili, i vari colori dei miei capelli (oscillano dal nero delle radici all’azzurro, al viola, al rosa), i miei occhi cerchiati di matita nera, e infine i miei vestiti, pittoresco e armonioso incrocio tra un revival della Summer of Love, interferenze Fantasy-China e un vago Gothic, e all’istante decide che sono una drogata–accattona–ladra e acchiappa con una mano le manine dei tre figli mentre con l’altra riempie la lavatrice continuando a tenere inchiodato il suo sguardo alla mia immobile figura smagrita in controluce. Dio, non vedo l’ora che torni Rea.
… il mondo è una folla su una cruna di spillo, in fondo non c’è alcuna differenza tra un posto o l’altro. La mia necessità di scappare è sorta nel momento in cui mi sono accorta di essere una di quelle persone che sanno fare tutto ma non eccellono in niente. Perché scegliere una facoltà e non un’altra? Perché una casa e non un’altra? Perché un ragazzo e non un altro?
Perché una maschera e non un’altra? E soprattutto, perché dover scegliere?…
Guardo Rea che rannicchiandosi nel sedile del guidatore, la testa appoggiata all’altro sedile e il cambio vicino alla gola, dorme insaccata nella sua enorme maglia dei Guns ‘n’ Roses.
Non riesco a dormire, io.
Mi guardo in giro e la strada è alla nostra sinistra oltre gli alberi e le stoppie tutto intorno alla macchina e una C di luna da manga giapponese nel cielo e i versi di quel pazzo di Ginsberg che grida come ogni cosa sia santa, santa, santa, “Santo il mare santo il deserto santa la ferrovia santa la locomotiva sante le visioni sante le allucinazioni santi i miracoli santo il globo oculare santo l’abisso!”.
So che è un mondo difficile. So che scappando non miglioro la situazione. Ma so di aver fatto la cosa giusta, perché tutto è molto più semplice ora, so che nulla di male può succedere ad una persona onesta, e vedete, dev’essere così. Potrei morire adesso, io. Felice. Felice come chi non ha mai “ascoltato il Terrore al di là della parete”. A Rea è successo, prima di iniziare ad andare in giro con la cadillac color cielo per le strade infinite insieme a me, che da parte mia stavo già abbastanza scazzata di quel bailamme incomprensibile di vita, Rea sentiva il Terrore al di là della parete, e quando è così non hai molta voglia di dar retta al mondo.
La guardo che si muove nel sonno e mi ricordo dei giovani giorni in cui stavamo tutti a casa di Dan, appallottolati e appollaiati in sei sullo stesso vecchio divano bordoux a parlare di poesia, di amicizie, della legittimità del sesso orale, di marijuana e di sedute spiritiche, ora che ci penso, mi ricordo anche quella nottata in bianco per non far addormentare Rea sull’orlo del coma etilico chiedendole di raccontarci la sua vita, e la storia di Kurt Cobain ancora e ancora. Prima o poi, quando saremo più vecchie di quanto già non ci sentiamo, glielo dirò, tutto questo, glielo dirò. E magari lo scriverò anche nel mio libro.
Apro lo sportello in silenzio, esco e lo lascio socchiuso per non disturbare Rea. Dove vado? Respiro l’aria umida, riapro la portiera, recupero il poncho macchiato di cioccolato e me lo infilo sopra alla T-shirt “Genio al lavoro”, nella tasca dei jeans tre monete da cinquanta cents e una foto di famiglia sbiadita dalla lavatrice. Sospiro al pensiero che presto dovremo fermarci per guadagnarci qualche dinero. Oh, non importa, mi piace lavorare, si conosce gente e ci si addormenta stanchi la sera. Cos’è che odio di più? La retorica. Siamo scappate entrambe dalla retorica mediocre della middle class conservatrice, e l’ipocrisia bigotta, e il conformismo maggioritario, e la cronica pigrizia che tutto contamina e imputridisce. Dice un detto cinese “Se non studi da giovane, da vecchio che farai?”, ma poi mi viene in mente la Plath e il suo albero di fichi, i bei frutti che anneriscono e cadono pesanti e liquidi al suolo mentre lei sta lì a valutare quale prendere e alla fi ne muore di fame. Capite? E anche se non capite, è un problema vostro.
Non posso stare a casa ora, non posso perdere tempo ora, ora leggo e ascolto e vedo quello che voglio io. Punto.
Giro su me stessa. Ho aperto le mie mani di burro e ho lasciato andare il vento.
Guardate le stelle, non sono magnifiche? In certi momenti credo di potervi leggere un’incredibile storia, tutte le storie, come una sacerdotessa celtica, o una sciamana indiana, o una veggente greca, o una maga africana. Lo scriverò, questo, nel mio libro, penso accarezzando le margherite notturne sotto la mia testa.
Dazed and confused. Mi sveglio con il collo anchilosato e il sangue che batte sulla nuca.
– Non è per essere petulante, però potevamo anche trovarcelo un posto letto su cui poggiare le nostre stanche membra, ieri notte.
– Nessuno ti ha detto di dormire sull’erba. E poi preferirei sorvolare, io per l’umidità sono tutta un dolore.
– Ah, stai invecchiando, eh Rea?
– …
– Eh eh, Nonna Rea…
– Ti pesa tanto vivere?
– No no.
I drive on the street ‘cos she’s my companion I walk through the hills ‘cos she knows who I am, i Red Hot che grondano dallo stereo, la scatola di quelle zuccherosissime schifezze rosa e bianche gommose che tremola poggiata sul cruscotto e si svuota sempre di più tra i nostri due mastichii salivosi, odore di caramelle, arbre magique, sigaretta e salsedine I don’t ever wanna feel like I did that day take me to the place I love take me all the way, cielo bianco e pesante, all’orizzonte un immenso falco nero di nuvole nasconde i lampi viola alla terra.
– Agli uomini fu affidata la terra, affinché governassero su ciò che come loro è ottuso ed eternamente pregno.
– Lo scriverai nel tuo libro?
– Forse. No.
– Toglimi una curiosità, a chi furono affidati l’aria, l’acqua e il fuoco?
Guardo Rea con sguardo diffidente.
– Antico e saggio detto delle mie parti: “guardati sempre dalla ragazza zingara al volante che cerca di metterti in difficoltà”.
– Chang! – fa Rea, imitando una campanella cinese sentenziante, e sogghigna.
Andiamo avanti così, io e Rea, lei che, riemergendo da tutto il suo disordine, da tutte le sue maschere, trascina me, in uno strano equilibrio di forze, in una sorta di appariscente yin yang.
Rea è molto più in gamba di quanto non sembri, tutto qui. A volte ho l’impressione di essere solo il suo bagaglio in questo lungo viaggio, però poi mi dico che è lei che mi ha voluta portare con sè… e ora sono cazzi suoi, vomito e tutto.
La cassetta è finita e Rea canta un ballabile senza parole, il suo mhmm che ronza nelle modulazioni ricadenti come nastri di shantung nell’abitacolo, la pioggia ammanta il finestrino e fa’ da filigrana al canto.
– La pioggia mi portò in dono il lungo viaggio.
– Sì, ora si dice così, vero?
La guardo mentre sogghigna con il profilo arabescato dai rivoli di pioggia sul vetro, le ruote che frullano nelle pozze d’acqua, gli orecchini e i bracciali che tintinnano, la scatola di caramelle che sobbalza sul cruscotto, i dadi rossi e l’arbre magique che dondolano, la pila di vestiti che si accresce oscuramente ogni giorno di più dietro i sedili, lo stereo che ronza in stand by. Per un attimo mi tenta il desiderio di coronare la scena con una battuta brillante e pungente, poi ci rinuncio. Chang.
– Già, ora diciamo così.
Ora diciamo così, noi Vagabonde Incallite dell’Oltre, mentre la Marea sale.
– Ma sì, ma sì – mi fa Rea, rendendo un po’ più serio quel suo ghigno – La mia terra è polvere nel vento, la mia vita è musica, e tutto il resto strada. Cosa potrei volere di più.
Si ferma un attimo e modula un sorriso consolante.
– Sai che ti dico? È un mondo difficile, però nel complesso abbastanza bello.
Sorrido anch’io, tiro fuori un nuovo libro dalla borsa e fingo di iniziare a leggere, cercando già le parole.
Perché questa frase, e questa auto, e questa storia, perché tutto quanto ci sarà, nel mio libro.