Moriva 50 anni fa Woody Guthrie, l’ultimo “Hobo”, padre della canzone di protesta, Carlo Muscatello
Dicono che di certo Bob Dylan ma forse anche Bruce Springsteen non ci sarebbero stati, o perlomeno non sarebbero stati gli stessi, senza l’opera di quell’omino (nome completo Woodrow Wilson Guthrie), nato a Okemah, Oklahoma, il 14 luglio 1912 e morto a New York il 3 ottobre 1967. Ma “figli di Woody” sono stati considerati anche Joan Baez, Phil Ochs, Tom Paxton, Peter Paul and Mary. Per non parlare di Pete Seeger, sorta di suo fratello minore.
Woody Guthrie, (anti)eroe del folk che alla fine degli anni Trenta ha di fatto inventato la canzone di protesta, da tempo negli Stati Uniti è considerato un eroe nazionale, è finito persino sui francobolli, la sua “This land is your land” è considerata una sorta di secondo inno ufficiale americano, ma ovviamente non è stato sempre così. Per gran parte della vita è stato un “hobo” (il vagabondo che sceglie la vita da senzatetto improntata alla semplicità, all’avventura, ma anche alla ricerca interiore), in viaggio da uno stato all’altro, clandestino sui treni merci, con un fagotto in spalla e l’inseparabile chitarra sempre in mano. Impegnato nella “costruzione di un mondo nuovo” che probabilmente non ha visto mai la luce.
Musicalmente incrociava la ballata country con il blues parlato, la ninnananna con l’epopea di Tom Joad raccontata da John Steinbeck in “Furore” e poi ripresa dal Boss. Un artista la cui influenza non è ancora tramontata a distanza di settant’anni, e non solo grazie agli artisti già citati. Tutta la musica folk e di protesta, americana e internazionale, deve infatti qualcosa a Woody Guthrie.Lo hanno chiamato il “menestrello della Grande Depressione”. Ha raccontato per primo la vita e la dannazione dei migranti, quando questi ultimi, negli anni Trenta, erano gli americani che scappavano dagli stati centrali per cercare lavoro e una vita migliore a ovest, verso la California, per sfuggire alla cosiddetta Dust Bowl. Era infatti successo che, a causa di condizioni climatiche particolari, enormi nubi di polvere coprivano campi e paesi, soprattutto in Texas e Oklahoma. E a migliaia di contadini non restava che mettersi in viaggio.
La vita di Woody, fagotto e chitarra in spalla, è continuo movimento. Con il mito della frontiera. Dall’Oklahoma alla California, poi verso est, a New York. Ovviamente Greenwich Village, pieno di militanti radicali già negli anni Trenta. Il suo duetto con il bluesman Lead Belly è storia: un bianco che suona canzoni di protesta assieme a un nero, pugno nello stomaco per i benpensanti di allora.
Scoppia la guerra. La marina mercantile degli Stati Uniti lo porta in Sicilia, assieme al cantante Cisco Houston e all’attivista sindacale italoamericano Vincenzo “Jim” Longhi. Vede le macerie di Palermo e scrive: «Constatai che cosa triste e terribile fosse la guerra. Ma capii che nessuno avrebbe impedito alla gente di cercare la propria indipendenza e la propria libertà di costruire un nuovo mondo in cui ogni persona potesse essere utile, ogni lavoratore avesse il suo lavoro, senza restare prigioniero del mondo che ti circonda».
Gli ultimi anni scorrono tristemente nell’ospedale psichiatrico di Greystone Park, morbo di Huntington, lo stesso che si era portato via sua madre. Lì va a trovarlo fra gli altri il diciannovenne Bob Dylan, arrivato dal Minnesota per rendere omaggio al maestro. Arriva anche il vecchio sodale Pete Seeger, accompagnato da Arlo Guthrie, figlio dello stesso Woody e poi eroe di Woodstock. Che ricostruì proprio quella scena nel suo film “Alice’s Restaurant”.
«Lasciate che io sia conosciuto – diceva Woody – soltanto come un uomo che vi ha detto qualcosa che già sapevate». Del manicomio scrisse: «Credetemi, è proprio questo l’ultimo posto libero d’America».