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di Marzio Pieri _ tratto da Retididedalus
- muore giuliano mesa, poeta, nei giorni neutri di un ferragosto
- morte annunciata, morte segretamente covata; da dieci, da venti anni
- quasi tutti lo abbiamo pianto, veridicamente – quasi tutti ci siamo confessati il disagio in cui sapeva metterci
- era il sopravvissuto improbabile di una generazione suicida, pallida giostra di ragazzi suicidi, fra droga e vini cattivi, troppo di troppo
- in nome della morte; che del resto ebbero anche troppo poco: un nulla di quei piccoli beni che la vita ‘normale’ riserva; un computer che non si inceppi, due risme di carta, una stanza che non ti levino di sotto i piedi, qualche libro, qualche pasto; le sigarette oh quelle sì
- mesa ne accendeva una via l’altra, quando il ‘brutto male’ lo artigliò ai polmoni ci teneva a dire che non era colpa del fumo; e anche se fosse? solo mio padre avevo visto fumare quanto lui: se non lo avesse fatto, moriva prima, se uno è capace di pensare a quello che il fumo significa
- amavo la sua anarchia, m’irritava in lui un certo pauperismo rassegnatamente ricattatorio, che non era, ma assomigliava, a un cattosocialismo da cui rifuggo, scivolando sull’olio ricotto
- ma anche mi costringeva a guardare al mio diverso stato, certo pagato con una diminuzione di libertà (tanto a parole rivendicata), di ‘purezza’; mi scrisse una volta: “questa società ci ha ormai costretti al punto che uno arriva a vergognarsi di averci uno stipendio”
- era vero; barcollai – imparai a tenerne conto
- l’abbiamo pianto, ora sarà il caso che ci mettiamo a leggerlo
- lo avevamo letto anche prima; i suoi versi accampavano il diritto di essere letti, non era una concessione che gli si rendesse ma una occasione di ribellarci alla mediocrità delle parole confuse
- ognuno di noi, se appena si sappia in giro che è uomo di qualche letteruccia, è come una vasca da giardino che quotidianamente riceve troppe acque poetiche inquinate; ci vorrebbe la pena della morte per i cattivi poeti; per lapidazione; sarei disposto, allora, a cimarmi la punta dell’uccello
- non guardano mai alto
- guardava alto mesa? i suoi occhi erano come rapiti dal profondo, oltre (scendendo) il livello in cui tutte le acque si fanno nere
- mesa; non era il suo nome di nascita. veniva da gente semplice, campagnuola, che si era procurata qualche agio. si favoleggia di una sorella arpìa. ma… ‘famiglie, io vi odio’
- mesa; troppo ‘alto’ per riuscire a coprirsi con un suo gruzzoletto acchiappaloche
- basta ad essere ritenuto un fallito, un giullare, un mangiapane a tradimento; il poeta pensoso di ogni sillaba (ma non per bellettrismo) era un lettore di aree vaste ed acri, nutrito di filosofi, critico sapiente e generoso
- della sua generosità profittai, senza essergli grato a bastanza; me ne faccio rimprovero; ma poi si credeva che avremmo camminato ancora insieme
- mesa; un nome finto, all’anagrafe. non c’è verità, lo sappiamo, che non passi dalla finzione, come gli eroi delle favole da una boccia di fuoco
- finora, un rodìo; ora mi sta davanti con la irrefutabilità di un classico e l’inafferrabilità di uno scomparso.
- va ripulito il giardino, fatto silenzio
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GIULIANO MESA
quarto passaggio (e dopo)
e dopo questo suono, dopo,
dopo torna
come se nulla fosse, suona,
suona ancora
(e fa le bizze, scalcia,
muove l’aria)
[non siamo nati ieri –
imparando, abbiamo imparato a trattenere
poiché tutto muta e muterà: tatà]
e dentro questo tempo, dentro,
dentro trema
come se nulla fosse, trema,
trema ancora
(e perde tempo, trema,
per tremare)
[domani moriremo, amore mio –
avremo ancora caldo e sete
e freddo e fame e tutto il resto: resta]
* Da: quattro quaderni – improvvisi 1995-1998, Editrice Zona, 2000 |