Nelle cave di Matera la memoria del pianeta
di Pasquale Doria_
Lasciarsi guidare dalle sensazioni olfattive. Mettere in moto le narici e seguire la scia profumata che avvolge il prospiciente altipiano di Matera diventa presto un percorso in grado di spingere chiunque ben oltre il proprio naso. Che spettacolo in primavera le verdi distese picchiettate da fiorellini rosa di timo. La piccola pianta aromatica abbonda sulla Murgia, un’isola di roccia sedimentaria a cavallo tra Puglia e Basilicata. Geologicamente si tratta di calcarenite, ricchissima di fossili. L’etimologia del termine Murgia è già rivelatrice, murices vuol dire conchiglie. E una volta, dalle sue pieghe più intime, è saltato fuori addirittura il gigantesco scheletro di una balena. Primordiale cetaceo lungo più di venti metri. È rimasto sepolto oltre un milione di anni. Qui c’era il mare. Adesso, sotto il peso del tempo, quella massa di acqua si è pietrificata. Si è trasformata in natura carsica, severa, decisamente matrigna. Ma, a modo suo, è materia ancora viva. La superficie, ricoperta da uno strato vellutato di muschi e licheni, protegge una bava calda e friabile, quella sparsa nella notte dei tempi da Poseidone, il primo padre del tufo. Le abitazioni del centro storico sono costruite con questa pietra docile. Una materia che respira e tramanda a futura memoria l’epopea di infinite distese di alghe, immensi banchi corallini lentamente emersi e, poi, tagliati in blocchi ben squadrati, faticosamente sottratti al sottosuolo per dare forma ad ardite costruzioni capaci di sfidare nei secoli la forza di gravità. Il tutto senza neppure l’ombra di uno schizzo di cemento.
Sono anche questo gli antichi rioni Sassi di Matera, un intricato reticolo di stradine, vicoli che si aprono in piccole piazze interne, i vicinati. E ancora, su tali slarghi spontanei, dove mai mise mano un architetto, si affacciano case di tutte le dimensioni, antiche mura, torri, magazzini, cantine, cisterne. Un dedalo senza fine di scavato e costruito. Difficile distinguere dove comincia una residenza e dove il masso roccioso mantiene il suo aspetto fermo, muta sentinella di un improbabile ritorno nelle acque profonde in cui è stato generato.
Oltre gli archi e le eleganti volute, al di là del paesaggio urbanizzato, lungo i tranquilli rilievi grigio-verdi della Murgia, di colpo fanno la loro apparizione enormi pareti tagliate perpendicolarmente. Affondano nel terreno in un impressionante moto di discontinuità geometrica e cromatica. Il loro colore chiaro spezza la monotonia carsica, prevale il candore della tufara ora silenziosa, ma non muta, perchè parlano i segni consegnati da generazioni di uomini dal viso imbiancato non meno dei loro fratelli impegnati nei vicini mulini. Due simboli certi sui quali si è costruita Matera: la pietra che, lavorata, ha dato rifugio ai suoi figli, e il grano, che trasformato in farina, è diventato pane per nutrirli e sostenerli nel lavoro di tutti i giorni.
Al primo impatto visivo, superato il contrasto abbagliante con il paesaggio circostante, dentro le cave si avverte la vertigine di uno spazio improvviso, più grande delle piazze e più alto delle abitazioni edificate nella vicina città. Sale un’emozione che diventa indescrivibile quando si cerca di leggere su quella matrice antica la sequenza dei gesti misurati impressi da anonimi cavamonti. Si scivola verso lo spaesamento allucinato se poi si prova a cogliere i respiri profondi ritmati dai colpi di piccone e imprigionati per sempre nei solchi del tufo. No, non è impossibile cogliere il mormorio lontano, il lamento dello sforzo amplificato in quel megafono di pietra e immediatamente calcificato nella polvere di una storia che potrebbe essere stata scritta da giganti. Pare quasi udirli: un respiro, un colpo. Protagonista un esercito di polmoni e braccia attanagliati dalla fatica. E già si distingue un dai e vai che a tratti riecheggia ovunque come un ansimante concerto lubrificato dalle stille di sudore impastate in un latteo mare di tufo macinato.
Attraversare l’instabile silenzio di una cava, adattarsi gradualmente al lucore delle sue intimità esposte all’ossidazione naturale, è come essere risucchiati in un’altra dimensione, dove diventa possibile mettersi all’ascolto degli intimi ingranaggi che regolano l’universo. Esperienza unica: si sottrae ad uno stato di subalternità chi si commuove al cospetto di un simile spettacolo. Ma non si eleva più di tanto se in qualche modo non muove le sue pur deboli forze per impedire che queste testimonianze, autentici monumenti/documenti dell’infanzia del nostro globo terracqueo, degradino fino all’umiliazione che le consegna alla tragica sorte di fetide discariche.