Noi, il testo e la parola, Beatrice Cristalli
Giuria Premio letterario Energheia 2022_XXVIII edizione.
La lettura è un’attività complessa. Leggere non significa solo “leggere” e non deve stupirci il fatto che questa pratica rifletta l’intero sistema letterario: non un recinto in cui riconoscere le proprietà distintive, ma un atteggiamento che necessariamente rimanda ad altro da sé, insiste sul ritorno. Non a caso, infatti, l’immagine della poesia, il verso, deriva dal latino vertere, che significa appunto “tornare indietro”. Il testo, in apparenza, si configura come una sequenza di parole, ma in realtà deve essere interpretato
come il rapporto tra parole e pause, o ancora, tra forma e contenuto, tra Io e mondo. Come insegna Mario Barenghi «una cadenza, un ritmo che prevede che a un certo punto si torni indietro».
Leggere non fa dell’individuo un buon lettore, ma un lettore consapevole. Non riesco a concepire nell’universo letterario delle ipotesi – non meno razionali dei dogmi scientifici – il fatto che si debba pronunciare “giusto” o “sbagliato”, “buono” o “cattivo”. Semmai si può parlare di atteggiamento “adeguato” o “inadeguato” in merito al riconoscimento del processo ricostruttivo del senso, che
inevitabilmente rimanda a dimensioni “altre”, le quali assumono consistenza solo nel momento in cui il soggetto se ne appropria.
Perché, se la collaborazione del lettore attivo alla realizzazione del significato accresce la flessibilità emotiva e cognitiva – su conferma delle neuroscienze -, rendendoci così più adatti a comprendere e a fronteggiare le necessità che ci si presentano, la letteratura non può parlare solo di sé, ma deve necessariamente parlare di sé e del suo rapporto con la realtà. Come qualsiasi simbolo o categoria, la
letteratura rinvia, attraverso l’oscillazione tra connotazione ed enfatizzazione dell’ambiguità o scarto dalla norma all’esperienza, e insieme la modella.
Nel percorso letterario e conoscitivo, al moto ricettivo si aggiunge quello produttivo, che implica una responsabilità dell’utente. Solo il tutto consente di comprendere le parti, anche se solo attraverso le parti il tutto “prende forma”. Ma il testo non solo non parla a sé stesso e di sé stesso. Il testo non parla se non viene interrogato. Dunque non è frutto di una decodificazione, ma la costruzione, unita all’oblio e alla conseguente conoscenza, di una domanda alla quale il testo può o non può rispondere, perché mentre lo interrogo, esso mi interroga a sua volta.
L’unica azione del testo è la sua “apertura” consentita dalla lettura, immanente e trascendente al testo. Serve un interprete che sappia riconoscere il momento di ricognizione solo dopo aver recepito i vari sistemi con i quali il testo è collegato. Serve un interprete paziente che, anche tornando indietro per afferrare un significante riposto o un senso sotterraneo, sappia che il suo oggetto di indagine
potrebbe catapultarlo in una nuova direzione. Fuori da sé, fuori dalle parole. In sostanza, serve anche qualcuno che insegni tutto questo, e che, soprattutto, non imponga delle risposte fisse. Perché le risposte allontanano lo stimolo, il desiderio della domanda. Non solo. Le risposte annullano
l’attività del soggetto. E se muore il lettore, muore anche l’autore (R. Barthes, La morte dell’autore), muore l’interazione cooperativa, muore il testo e muore l’umano, che è il fine a cui tende tutta la letteratura e la cultura. E insieme ad esso, svanisce il potere della trascendenza.