Odette la Rossa, Alessandro Manzi_Sezze(LT)
Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione adulti
La notte e la neve avevano trasformato Parigi in un film in bianco e nero.
Clement se lo guardava attraverso i vetri appannati de Les Arlots, davanti a
una salsiccia con purea al burro e a una buona bottiglia di Chateau Latour.
Ogni volta che capitava a Parigi, se ne andava a cenare in quel bistrot pieno
di tipi strani che, spesso e volentieri, aveva ospitato come personaggi nei
suoi libri.
Così, anche quella sera, tra un boccone e l’altro, non trascurava di lanciare
qualche sguardo randagio verso gli altri tavoli, alla ricerca di qualcosa o di
qualcuno che potesse accontentare quel prurito di scrivere che lo prendeva
all’improvviso.
Seduto al solito posto aspettava – perché no!? – che si aprisse la porta e con
le folate di nevischio entrassero pure i frammenti sparsi di una storia da
ricomporre, pur se, dopo ventisei anni trascorsi a scrivere romanzi e
racconti, per lui restava un mistero capire da dove arrivassero le storie…
Così, anche stavolta, la porta-vetrina con la vernice scrostata restò chiusa e
tutto iniziò, invece, alle sue spalle.
Dal vecchio pianoforte a muro, in fondo al locale, partì una musica che
sapeva di nostalgia. La riconobbe subito: Que rest- t’ il de nos amours?, una
vecchissima canzone di Charles Trenet. Una canzone che parlava di amori
finiti e di vecchie fotografie.
Fu una voce di donna a raccogliere l’invito di quelle note e a fondersi con
queste in un abbraccio languido. Ben presto musica e parole, così dense di
anni, fumo e malinconia, cominciarono a fluttuare nel locale, spegnendo il
brusio delle voci e il rumore dei bicchieri.
Senza voltarsi, Clement chiuse gli occhi, portò il bicchiere alle labbra e
assaporando il vino e la perfezione di quell’attimo, provò a immaginare il
volto nascosto dietro quella voce che soffiava via la polvere del tempo.
Era abituato a giocare con l’ immaginazione. Lo faceva soprattutto con le
voci sconosciute che gli portava in casa il telefono, strumento che Clement
considerava pieno di mistero, convinto che solo la voce può portarci
un’assenza a cui l’immaginazione è chiamata a dare vita e corpo.
Fu per questo motivo che, diversi anni prima, dopo innumerevoli
conversazioni telefoniche con una delle segretarie della casa editrice, aveva
finito per innamorarsene, senza però averla mai vista, solo perché
conquistato dai graffi di quella voce di cui era convinto di sentire addirittura
il profumo.
Incontrarla poi di persona e conoscerla, anche fisicamente, tolse ogni senso
di mistero a quei suoi sentimenti precari, costruiti sulla sabbia della fantasia.
Inès, amore telefonico e impossibile, una mattina, dormiva nuda nel suo
letto e lui la guardava, confuso, perché aveva capito, all’improvviso, di
essersi in realtà innamorato solo delle mille promesse della sua voce. Non
che fosse rimasto deluso dalla bellezza di Inès o dal modo prodigo con cui
lei faceva l’amore, ma era come se quel corpo, che ormai gli si offriva
senza inibizioni e senza alcun mistero, avesse perso consistenza e lui avesse
scoperto che l’unica cosa che contava era l’assenza.
Ecco perché, adesso, ascoltava quella canzone senza voltare la testa e senza
aprire gli occhi, che tenne chiusi fino a quando l’applauso dei presenti non
coprì le vibrazioni dell’ultima nota.
Nell’attimo in cui lui si voltò, la donna risollevava la testa dopo un inchino
che aveva provocato una cascata di capelli ramati. Lei se li raccolse con le
mani e se li portò indietro. Stava in piedi, poggiata al pianoforte, con un’aria
da tigre malinconica. E Clement ebbe subito la sensazione di averla già
conosciuta, da qualche altra parte, forse addirittura in un’altra vita.
Istintivamente alzò allora il bicchiere. Lei guardò dalla sua parte, sorrise,
giunse le mani in un gesto di preghiera e fece un altro inchino. Leggero. Poi
andò dritta verso il suo tavolo.
Sedutasi, gli si rivolse con tono deciso, quasi brusco «Io e te ci siamo già
conosciuti! Ricordi?»
« Sì… sì che lo ricordo! Ma purtroppo… non ricordo il tuo nome, né dove,
né quando sia successo.»
« Non importa… la memoria non sempre è amica degli scrittori e in alcuni
casi è meglio così.»
Lui cominciava a darsi dello stupido…
« Scusami, sono imperdonabile! Posso chiederti di cenare con me?!… Mi
farebbe davvero piacere e, magari, pian piano son sicuro che potrebbe
tornarmi anche la memoria » e così dicendo le versò del vino in un
bicchiere.
Lei brindò, bevve un lungo sorso, poi poggiò il bicchiere sul tavolo.
Si portò una Gitane alla bocca e gli chiese se avesse da accendere. Quando
le porse la fiamma dall’accendino, lei trattenne a lungo le sue mani su quelle
di Clement e lo fissò nel riverbero della fiamma. Riusciva a dire tutto senza
nemmeno una parola.
« Stasera non mi è possibile… »
« Ricordami almeno il tuo nome…»
« Saprai e ricorderai tutto di me. Basta avere pazienza… domani ci
incontreremo ancora»
« Ma dove? A che ora?».
Lei ignorò quelle domande e si strinse nelle spalle con un’espressione
infantile «… A domani!».
Si infilò nel suo cappotto, calò il berretto di feltro nero sulla testa e uscì in
strada, scomparendo in mezzo alla neve.
Era già un bell’inizio per un racconto…
Clement avvertì però che verso quella donna, così misteriosa, non aveva il
distacco necessario che deve esserci fra il narratore e un suo personaggio.
Ne era consapevole, non gli sarebbe stato possibile. Lei o, forse, il suo
fantasma, lo avevano catturato e gli avrebbero dettato ogni parola e lui,
obbediente, avrebbe scritto.
Tra le mani, che lei gli aveva stretto poco prima, era rimasto solo il suo
profumo e un vago appuntamento.
***
Il giorno dopo, Clement presentava il suo ultimo libro.
La sala era affollata. Quando salì sul palco, insieme con il relatore, il brusio
della sala si smorzò. Vedeva chiaramente le tante persone sedute davanti a
lui.
Il relatore lesse le note che aveva accuratamente preparato, infiorettandole
con qualche notazione biografica e poi gli lasciò la parola. L’applauso
iniziale, come sempre, rappresentava un cordiale invito a non deludere le
aspettative, uno “stiamo a vedere” che, ogni volta, gli creava qualche ansia.
Ma sfruttando l’esperienza dei lunghi anni di insegnamento accademico,
Clement iniziò a parlare, lanciando sguardi un po’ in tutte le direzioni della
sala. Seguiva il flusso delle parole senza fissare nessuno in particolare,
finché, proprio in una delle ultime file, non colse il riflesso dei capelli
dall’inconfondibile color rame. Appartenevano proprio a lei, alla misteriosa
cantante della sera prima. La sconosciuta che – ormai ne era più che sicuro –
lui aveva già conosciuto…
Per diversi secondi il suo sguardo si soffermò sulla donna e da quel
momento continuò a parlare come se fossero di nuovo soli, seduti ancora al
tavolo de Les Arlots. Non appena lei fu certa che Clement l’avesse
individuata, gli inviò un saluto impercettibile con la mano.
Accennando un sorriso, lui continuò a parlare, volgendo in continuazione lo
sguardo verso di lei, che, però, quasi al termine dell’intervento,
improvvisamente si alzò e, costringendo quelli seduti nella stessa fila ad
alzarsi, sfilò nel corridoio camminando in punta di piedi per guadagnare
l’uscita, come se volesse evitare il rumore dei tacchi sul parquet e
desiderasse fuggire inosservata.
Ma non c’è nulla che attragga di più l’attenzione di una donna che finge di
fuggire.
Clement saltò allora alcuni passaggi del discorso per giungere più in fretta al
termine e accolse l’applauso finale come una liberazione. Il silenzio
imbarazzante che di solito prelude a qualche immancabile domanda dalla
platea, sembrò infinito. Clement aveva fretta. Rispose con gentilezza alle
poche domande, compresa quella rivoltagli da un tizio che la fece precedere
da una incomprensibile quanto interminabile premessa e, dopo le firme sulle
copie del proprio libro, i convenevoli e i saluti di rito, l’orologio gli
confermò purtroppo che sarebbe stato impossibile raggiungerla.
Decise così di cambiare i suoi programmi. Prima di rientrare in albergo,
avrebbe passeggiato a zonzo sul lungosenna – che era proprio lì davanti – ad
osservare le chiatte e i battelli che solcano il fiume, fra Pont Neuf e Pont
Saint Michel, nei luoghi cari al commissario Maigret, anche se la Parigi e le
atmosfere descritte da Simenon, se n’erano andate da un bel pezzo. Quindi
sorrise al pensiero che il poliziotto più famoso della letteratura francese, gli
sarebbe stato provvidenziale per rintracciare la donna misteriosa che si stava
divertendo con lui in un beffardo gioco di nascondino.
Fu mentre si abbandonava a queste riflessioni, che la giovane hostess
dell’organizzazione, gli si avvicinò porgendogli una busta « Questa è per
lei… l’ha lasciata una donna, dai capelli rossi. Ha detto solo di
consegnargliela, senza aggiungere altro …».
Clement ringraziò, la prese e se la infilò nella tasca del giaccone.
Si decise ad aprirla quando fu solo, affacciato dal Pont Neuf, gli occhi fissi
sulle acque torbide della Senna.
La grafia era inclinata come raffiche di pioggia in una giornata ventosa.
«Il mio nome è Odette. La canzone che ho cantato ieri sera al Les Arlots è
stata scritta nel 1942. Se vuole cenare con me potremmo farlo stasera al 39,
di Rue Lepic. L’aspetto lì per le 21.00.
Spero che nel frattempo abbia riacquistato la memoria…».
Guardò l’orologio. Segnava ancora le sei e venti del pomeriggio.
Adesso aveva in mano alcuni tasselli di un mosaico che si andava
ricomponendo, pur se nella testa si affacciavano ancora troppe domande a
cui, almeno per il momento, non avrebbe saputo dare risposte.
Tornò in albergo e cercò nel p.c. un racconto che aveva scritto, ancora agli
esordi, quando mai avrebbe immaginato il successo e la consacrazione
arrivata anni dopo. Era una storia d’amicizia, d’amore e di guerra, con
l’occupazione nazista di Parigi a fare da sfondo. Un racconto fino ad allora
rimasto inedito, anche se la casa editrice, sull’onda del successo da lui
raggiunto, aveva in programma di riunirlo insieme con altri, anch’essi
inediti, in un libro che sarebbe stato pubblicato a breve.
Dopo averlo letto e riletto, si preparò con cura.
Nervoso, come un adolescente al primo appuntamento. Si rasò di nuovo,
nonostante lo avesse già fatto quella mattina, ed esagerò di sicuro con il
dopobarba, se è vero che quando scese dal metrò, alla stazione di Abesses,
furono in molti a girarsi al suo passaggio. Controllò in una vetrina i capelli e
si incamminò sulla Rue Lepic, una vecchia strada che dal Boulevard di
Clichy sale fino a Montmartre.
Attento ad individuare il numero trentanove, appena lo trovò ebbe però una
sorpresa. Sotto quel numero c’era, infatti, un portoncino completamente
sbarrato, sormontato da una finestra con gli infissi fatiscenti. La casa
sembrava disabitata da tempo…
Dubbioso che non fosse il numero giusto, tirò fuori la lettera lasciatagli dalla
misteriosa ragazza dai capelli rossi, ma ebbe la conferma che
l’appuntamento gli era stato dato proprio lì, in quella casa.
Per non lasciare nulla di intentato, provò anche a bussare, sempre più forte,
ottenendo solo che dalla casa accanto si affacciasse una vecchia. Questa,
schiudendo appena le imposte, lo rimproverò « La smette di fare tutta questa
confusione?! Non vede che in quella casa non c’è nessuno?! … È disabitata
da tempo…».
« Scusi, per caso qui abitava una ragazza di nome Odette?».
« Certo. Ma sarà stato più di cinquant’anni fa, durante l’occupazione
tedesca… Dopo che i nazisti arrestarono il suo fidanzato, è sparita sia lei che
l’altro amico che viveva con loro… poi ci hanno abitato altre persone, ma da
tempo la casa è rimasta vuota e sta cadendo a pezzi…». E chiuse stizzita la
finestra, senza nemmeno salutarlo.
Clement sedette allora sui gradini, aprì il piccolo notebook e iniziò a
leggere.
Parigi, gennaio 1943.
Quella mattina Germain era uscito molto presto dall’appartamento al 39 di
Rue Lepic, che divideva con la sua Odette e l’amico Benoit.
Camminava con passo lesto sul tappeto di foglie sparse dai platani del
lungosenna, canticchiando una canzone malinconica, che parlava di amori
finiti e vecchie foto. Le prime gocce di un cielo cupo, così basso da
nascondere i pinnacoli di Notre Dame, lo sorpresero davanti alle bancarelle
di libri usati di Quai La Tournelle, dove trovò riparo, accolto dal sorriso
rugoso del vecchio Bernard e dall’aroma di tabacco della sua pipa.
Nello stesso istante una Citroen Traction Avant, nera come il cielo di quella
mattina, accostava al marciapiede opposto, mentre, poco più in là, alcuni
soldati della Wermacht, contrattavano con due delle tante puttane arrivate
a battere il Lungosenna dai paesini della Bretagna e della Normandia.
A Germain piacevano i libri usati. Amava sfogliare le pagine già percorse
da mani e occhi sconosciuti, leggere le parole appuntate dai lettori accanto
a quelle stampate. Lo intrigava immaginare chi avesse scritto quella frase,
d’amore o di rabbia; cosa fosse successo in quella data segnata in fondo
alla pagina. Lo incuriosivano le sottolineature e le parole che vi
galleggiano sopra. E poi le cartoline, i biglietti, i fiori secchi, le macchie
scolorite imprigionate da anni dentro quei libri.
Insomma, le vite dei lettori che si intrecciano con quelle dei personaggi.
Era stata questa sua passione per i vecchi libri, a suggerirgli l’idea di
utilizzarli per nascondervi dentro i messaggi cifrati destinati ai partigiani e
alle spie dei servizi segreti alleati, che operavano in piena segretezza a
Parigi, durante l’occupazione nazista iniziata ormai dal giugno di tre anni
prima. Un sistema collaudato e praticato dal suo gruppo di partigiani della
resistenza francese.
Germain accarezzò con lo sguardo i dorsi dei libri allineati in ordinata
sequenza, sfiorandoli con l’indice. Fra questi, avrebbe finito per scegliere il
decimo partendo da destra, sul primo scaffale. Avrebbe chiesto con gli
occhi conferma a Bernard e questi avrebbe annuito, con sguardo complice,
per confortarlo che proprio lì dentro si celavano i messaggi da portar via,
insieme col libro. E così fece anche in quella fredda mattina di gennaio,
nell’ultimo giorno di libertà della sua vita.
« Quanto costa? » chiese Germain, mostrandolo all’anziano libraio.
« Venti franchi, ma ad un cliente fedele come te lo vendo a quindici!».
In quel preciso istante, dalla Citroen Traction Avant, Benoit indicò Germain
ai due uomini della Gestapo, in mezzo ai quali lui era seduto sul sedile
posteriore. Disse semplicemente « Eccolo. È lui…».
Dal finestrino una mano dentro un guanto di pelle scura, si sollevò in un
cenno.
Germain aveva fatto solo pochi passi, riponendo il libro nella tasca interna
dell’impermeabile, quando due uomini, sotto lunghi cappotti, il volto
semicoperto dalle falde di due cappelli scuri, presero a seguirlo.
Giunti alle sue spalle, si divisero e, lasciandolo in mezzo, lo affiancarono,
premendogli sui fianchi la canna delle loro pistole.
Benoit aveva venduto il suo amico Germain alla Gestapo.
Lo aveva tradito, non per denaro, ma per amore. Un amore impossibile
come, secondo Cortàzar, può esserlo l’amore fra la mano destra e il guanto
sinistro.
Fu l’amore silenzioso che Benoit nutriva da tempo per Odette a dividerlo
per sempre da Germain.
Lui e Germain, prima di allora inseparabili, proprio come due guanti, così
uguali fra di loro, ma così opposti.
Germain il guanto destro, Benoit quello sinistro.
Odette, che li divise per sempre, era, invece, tra loro, solo la mano destra…
Clement spense il p.c. e tornò in albergo.
Si tolse il cappotto e si gettò sul letto. Il fantasma di Odette lo stava
rincorrendo. Odette, la donna a cui lui aveva dato la vita tanti anni prima
nello scrivere quel racconto.
Lo squillo del telefono si infilò come una lama dentro i suoi pensieri
affannati, facendolo sussultare.
« Buonasera Clement, sono Odette, ti aspetto nella camera 226. Vieni pure,
la porta è aperta…» e riagganciò.
Lui non ebbe nemmeno il tempo di meravigliarsi e si ritrovò davanti a
quella porta.
Quando entrò, lì dentro il tempo sembrava essersi fermato. Lo notò dal
telefono nero in bachelite, dalla vecchia lampada con il vetro verde,
dall’appendiabiti tonet e dalla patina di polvere depositata sui mobili. Vi
stagnava un forte odore di chiuso e di legno. Odette era seduta in una
poltrona, nella penombra creata dalle pesanti tende che nascondevano alla
vista la finestra.
« Buonasera Clement, ti è tornata la memoria?
Ho voluto, prima di ogni altra cosa, offrirti le prove che io fossi davvero
Odette, la tua creazione. Come hai visto, tutto coincide con il tuo racconto,
il mio nome, la canzone, l’indirizzo della mia vecchia casa, i fatti accennati
dall’anziana vicina… tutto coincide con il tuo racconto che, proprio perché
inedito, solo tu ed io avremmo potuto conoscere.
Non sono affatto diversa dall’Odette del 1943: per me il tempo non è
passato! Noi personaggi non invecchiamo mai. Quello di bloccare il tempo è
uno dei pochi vantaggi che abbiamo.
Per il resto, però, viviamo schiavi della fantasia di chi ci ha creato, da lui
dipende tutto: la nostra vita, i nostri caratteri, le nostre scelte, i nostri amori,
persino i vestiti che portiamo addosso. Non viviamo la “nostra” vita, ma
solo quella che lui ci impone. E per tutti restiamo una finzione, nient’altro
che una finzione! ». Odette parlava con il tono compassato di chi aveva
studiato a lungo cosa dire, quasi fosse un monologo teatrale.
Clement l’ascoltava, impassibile e confuso. La sua voce gli giungeva
remota.
« …Credimi, Clement, non è giusto che io debba perdere l’amore di
Germain, così come non è giusto che Benoit debba essere giudicato da tutti
un traditore e io la donna fatale che scompagina le vite altrui.
Con il tuo finale di racconto, Clement, hai distrutto le nostre esistenze!».
Fece una lunga pausa, poi riprese.
« Io sono venuta qui, per chiederti solo di cambiare quel finale. Sei ancora
in tempo…
Fallo prima che il libro venga pubblicato. Dopo, sarebbe troppo tardi e tu lo
sai bene.
Una volta che le parole saranno impresse sulla carta, si sarà chiuso il cerchio
della narrazione e tutto, per magia, diventerà vero agli occhi di chi legge!
Esiste solo ciò che si racconta e scompare tutto ciò che ne resta al di
fuori…».
«Chiunque tu sia, Odette… dammi la prova che esisti e che non sei solo un
parto della mia fantasia malata… ».
«Clement, io sono solo un personaggio, un “tuo” personaggio che è uscito
dalle pagine di un racconto e ha trovato la forza di ribellarsi ad un finale
scritto e deciso da te!
Ma io potrei sorprenderti, perché nulla mi è precluso…
Voltati e guarda fisso dentro quel grande specchio, mentre io esco dalla
stanza. Non guardarmi andare via… non muoverti, per nessun motivo!».
Clement si girò e cominciò a fissare nello specchio il suo volto pallido.
Lo sparo risuonò fragoroso e lo specchio andò in pezzi.
Impietrito Clement vide i frammenti sparsi sul tappeto e sentì la porta della
stanza che si richiudeva alle sue spalle.
Nell’oscurità risuonava una vecchia canzone che parlava di amori finiti e
vecchie fotografie.
***
L’addetto alla reception cominciava a mostrare verso Clement e le sue
domande qualche segno di impazienza «Le ho già detto che la stanza 226 è
chiusa da tempo… Non è occupata da nessuno… dentro vi sono solo
cianfrusaglie, vecchi arredi e mobili antichi da restaurare e le assicuro che
non c’è, né vi è mai stato nessuno specchio! Comunque, se proprio vuole
controllare posso accompagnarla…».
« No grazie, non c’è bisogno…».
Clement si arrese, rassegnato a vivere con il fantasma di Odette, uscito dalla
sua penna. A lei, a Odette, avrebbe concesso di cambiare il finale di quel
racconto.