Ogni parola è un’immagine e racconta il suo suono un rumore profondo!
_ di Flavia Piccinni
Giuria Premio Kaleidos Africa’s Pictures 2012_
Ogni parola è un’immagine, e racconta con il suo suono un rumore profondo. Richiama alla memoria un odore, un colore. Restituisce limpido, ripescandolo chissà dove dalla memoria, un ricordo. Il piangere disperato di un bambino, il rumore dei passi sulla terra battuta, un sasso che rotola piano, il fruscio dell’acqua di una sorgente che sgorga lenta, e poi si infila fra le foglie e racconta una storia. Ma, dicevamo, ogni parola è un’immagine. E questa immagine evoca in chi la pronuncia, in chi la pensa prima ancora di scandirne le lettere, qualcosa di unico. Perché se il mare per me può essere soltanto lo Jonio, il mare in cui ho fatto i primi bagni e in cui ho imparato a nuotare, con gli ammonimenti di mia madre che da bagnasciuga strillava di non allontanarmi – arriva fino alla boa e poi torna, diceva –, l’acqua è quella ghiacciata della doccia subito dopo il bagno prima di pranzo, quando, tremando per il freddo, con le compagne di giochi di spiaggia ci buttavamo sotto la doccia: un minuscolo soffione di metallo arrugginito che sputava a grosse gocce, che sembravano lacrime, l’acqua e sotto il quale noi ci toglievamo di dosso la sabbia e il sapore del mare. Mentre l’acqua sgorgava noi restavamo lì, saltellando da un piede all’altro, aprendo la bocca e lasciando che il sale del mare lasciasse lo spazio a quella cosa dolce, quasi zuccherina; l’acqua.
Intanto la fila alle nostre spalle si faceva lunga e l’ora del pranzo si avvicinava. Ricordo quell’acqua che mi cascava addosso come pioggia di primavera – e intanto mia madre mi diceva di far presto, che ne stavo consumando troppa – come la più ghiacciata che avessi mai sentito addosso. Ricordo anche lo sguardo delle mie amiche che aspettavano il loro turno pregandomi di muovermi, dai dai mormoravano; ma era bello stare sotto la doccia. Lì, mentre gli altri aspettavano, ti sentivi il padrone del mondo.
Non so perché ho pensato alla mia infanzia e alla doccia sulla spiaggia di San Vito, a Taranto, quando mi è stato chiesto di prendere parte a questo bel concorso dal tema complesso – scrivere di uno dei beni più preziosi dell’umanità non è affatto semplice – e dallo svolgimento non poco rischioso: associare le immagini alle parole, dare un senso univoco a quello che per assunto univoco non può essere come l’immaginazione. Mi pareva una sfida complessa e affascinante. E complessi e affascinanti sono stati i risultati finali degli elaborati che hanno partecipato al concorso Kaleidos declinando con maggiore o minore fortuna – con maggiore o minore sensibilità – cosa significa avere o non avere l’acqua. Cercarla. Trovarla. Desiderarla.
La vera sfida del concorso era riuscire a unire alle parole, e al loro suono, delle immagini funzionali al racconto. Delle immagini capaci di prendere per mano il lettore e guidarlo dentro l’immaginario di chi scriveva, per mettere momentaneamente da parte le sue. Delle immagini capaci di reinterpretare i ricordi degli altri e, anche se in modo momentaneo, sostituirvisi.
Il risultato della sfida è stato avvincente: gli elaborati sono stati in grado di associare, alla doverosa coscienza civile che un concorso di questo tipo necessità, anche la fantasia, il desiderio di giocare con le parole e di creare un caleidoscopio di colori e di emozioni. La retorica è un rischio da mettere in conto, così come l’imperfezione linguistica e stilistica. Ma quello che è stato premiato nei racconti di Ettore, Carmen e Giada, così come in quelli di Francesco, Stefania e Alessandro Pio è stata proprio la capacità di far dimenticare per un attimo al lettore la doccia fredda delle estati dell’infanzia, quando il tempo sembra infinito, per lasciar spazio alla consapevolezza che l’acqua è un bene di tutti, raro e prezioso. Un bene che bisogna difendere strenuamente, proprio come i ricordi della propria infanzia.