Ogni risveglio, una rinascita_Camille James Lepellier, Parigi
Menzione Premio Energheia Francia 2016
Traduzione di Flavia Ruscigno
Nel cimitero di Montmarte, il busto fragile e senza vita di Dalida aspetta i suoi fiori. Schiena nuda, si erge in mezzo alla collina delle tombe, il suo sguardo vuoto osserva il silenzio che riempie i viali. Da lontano, si sentono i grossi corvi gracchiare. Giocano ai mostri spaventando i pochi passanti che si avventurano tra i mausolei. Da qualche parte, come importato dall’esterno, il tempio di vetro costruito alla memoria di Michel Berger germoglia attraverso l’asfalto. I petali bianchi e rosa sembrano fuori dal tempo. È bello, sembra di essere in Giappone. Un Giappone artificiale, imprigionato in mezzo alle tombe grigie e rigide di questa Francia sbiadita dall’oblio.
Antoine, cammina davanti, con una cartina in mano. È che ci vuole un vero storico per orientarsi tra tutte le sue iscrizioni cancellate. Io lo sono, silenzioso. Non mi sento a mio agio, come striminzito in mezzo a queste false strade deserte. Una successione di pietre tombali, alcuni busti dal viso strano, fiori appassiti e l’odore del cloro utilizzato per disinfettare il posto. È un triste teatro in cui gli illustri e i grandi sono costretti a trovare riposo. Al di sopra della loro stele, un ponte di ferro sfigura il cielo. È la città che riprende i suoi diritti. Dei bambini avanzano urlando. Non notano neppure più le rovine e i morti. È mercoledì. La vita scorre davanti a loro.
C’è qualcosa di malsano a passeggiare tra le sepolture, a turbare la quiete dei morti martellando con i nostri passi pesanti l’asfalto freddo che li protegge dal tempo che passa. È come affiggere la nostra condizione di viventi a quei quadrati freddi, ai loro scheletri in decomposizione. Tra due raccoglimenti la vita continua. Harry consulta i suoi SMS, Occhie sistema la lente della luminosità della sua macchina fotografica. E io, cerco di trovare l’uscita pensando a cose futili come la scelta dell’alcool che mi si offre tornando a casa.
I deceduti s’interessano poco di sapere se sono sotterrati in un posto elegante o se quelli che restano dopo di loro penseranno di fargli visita ogni tanto. Tutto questo carico osceno di statue e di tombe ornate da vetrate, non è lì per sedurre i viventi. È un’ipocrisia intorno alla quale la società dà il suo consenso. Bisogna piangere i nostri morti e onorarli. Ma una volta che la vita lascia il corpo, lo spirito è già lontano. Non esiste più. Tutto ciò non serve a niente. I nostri ricordi sono semplici tombe in cui loro guadagnano già il loro saluto. I nomi sulle lapidi si cancellano, i nostri ricordi anche.
Harry mi guarda con affetto. Immagino che debba agitarsi per la sua sorte. Deve pensare costantemente ai suoi morti, a quelli che ha perso e a quelli che perderà. Anch’io penso a loro. Io trasporto un cimitero sotto la mia pelle. Non ho bisogno di pellegrinaggi per fargli visita. Devo solo chiudere gli occhi e sentirli. Una risata, un sorriso, un’eco. La morte non mi lascia mai. Mi accompagna, amica fedele, fino a quando anch’io mi abbandono alle sue braccia per addormentarmi serenamente.
Immagino che quando si è più vicini alla fine, il nostro sguardo sul mondo e sulla vita cambi. Quante notti, quanti morti bisogna seguire per imparare a vivere? Ogni notte è un nuovo addio. Ogni risveglio, una rinascita.
La malattia è un flirt, un valzer che si accelera con la morte. Lo so, lo sento nelle mie vene ogni giorno un po’ più forte. Una vecchiaia accelerata degli organi, una maturità forzata dello spirito per recuperare il tempo perso quando il corpo degenera, si degrada. Io non sono ancora morto.