Opera dieci numero cinque, Stefano Vallini_Siena
Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione adulti
Karl detestava l’asetticità delle sale scommesse, lo spaventava la vastità dei padiglioni dei bingo e per questo gli dava un po’ di sollievo il pensiero che si stavano estinguendo insieme ai loro anziani frequentatori. Insomma, aveva in odio la moderna istituzionalizzazione del vizio, perché la forma che dai alle cose diventa sostanza e ne determina il destino. Karl sosteneva che se sopra il Vizio del Gioco compare il nastrino dei Monopoli di Stato è finita, non c’è più il piacere del proibito, diventa una voce della legge Finanziaria, un benefico sostegno alla fiscalità. Non c’era niente da fare, Karl era un moralista.
Quindi, coerentemente, bazzicava le bische nascoste negli scantinati fumosi, con quel sottofondo speziato e piccante che faceva capire come il ramo d’azienda fosse stato lasciato interamente in mano agli stranieri. Si sentiva al sicuro sotto lo sguardo dei gestori che passavano silenziosi tra i tavoli carichi di carte e fiches, era lo stesso passo che tenevano i professori di greco durate il compito in classe, occhi vacui dietro le lenti spesse, ma muscoli in agguato, pronti allo scatto necessario per intercettare un foglietto passato di mano, come per sfuggire a un’irruzione della polizia.
Oltre a essere un moralista senza redenzione, Karl era anche un romantico non dichiarato e quindi, al diavolo la coerenza, frequentava anche il casinò municipale.
Da qualche anno, la crisi finanziaria aveva costretto il governo liberamente eletto a incentivare il gioco d’azzardo. Sofisticate analisi sociopolitiche avevano stabilito che se inviti o, peggio ancora, obblighi un cittadino a privarsi di parte di ciò che possiede, anche se in proporzione al proprio reddito, egli si opporrà fino alla morte, se invece gli chiedi di giocarseli su un tavolo verde o di grattarli via dal tabaccaio, nessuna cifra sembrerà troppo elevata e il cittadino, l’elettore, il suddito lascerà volentieri al banco tutti i suoi averi. Potrà inveire contro la sfortuna, la sfiga nera, il destino cinico e baro, ma non gli passerà mai per il cervello di scendere in piazza e protestare, tanto meno di votare contro qualcosa alla prossima tornata elettorale. Per questo la Presidenza del Consiglio dei Ministri, d’accordo tutti i partiti della maggioranza e dell’opposizione, aveva proposto e approvato la moltiplicazione dei casinò come incentivo all’azzardo, lasciando da parte le sale Bingo, scelte sbagliate e un po’ naif di precedenti governi delle prime Repubbliche.
Casinò regionali, provinciali, comunali si erano moltiplicati in ogni dove con tempi di realizzazione da fare invidia all’estremo oriente, sei mesi ed era tutto fatto.
Karl suonava il pianoforte. Aveva qualche anno di conservatorio alle spalle e gli ingaggi che riusciva a ottenere nei locali della sua città gli consentivano di pagarsi affitto, pranzo e cena, scarpe, vestiti, insomma il minimo per non finire sotto i cartoni. Si esibiva insieme a un gruppo ridotto all’essenziale. “Signore e signori grazie, siete un pubblico meraviglioso, stasera hanno suonato per voi al basso… Lucio! Un applauso per Lucio! Alla batteria… Charlie! Grande Charlie! Quello alle tastiere sono io, Karl. Buonanotte e se volete, domani ci trovate di nuovo qui.”
Facevano di tutto, dal liscio al rock, anche se piano, basso e batteria per il liscio e il rock facevano un po’ schifo, erano perfetti per il jazz, ma il jazz non andava. Le cose più richieste erano i successi degli anni passati, roba da vergognarsi a suonarla, banali giri di do, al massimo qualche accordo di settima, ma se si provavano ad arrangiarle in chiave jazz i titolari dei locali gli dicevano subito: «Abbelli, che roba è questa? Suonate come si deve, altrimenti domani non state nemmeno a tornare.» Loro abbozzavano e tiravano avanti, perché tutti e tre erano della serie “ci servono i soldi, non ci fa schifo niente, abbiamo tanto pelo sullo stomaco, meglio se ci chiedete cose facili, lo dico per voi, perché tanto quelle complicate poi non le capite, massa di ignoranti”. Il gruppo l’avevano chiamato “Ending Chords”.
Con loro spesso cantava Alessya, Alessya con la “y” messa lì solo a complicare la vita, come se ce ne fosse stato bisogno. Università di lettere, bellissima, fuoricorso cronica, pochi esami, molto alcol. Karl amava Alessya, Alessya non amava Karl.
Una volta, Alessya gli aveva detto:
– Le tue giocate sono come le bottiglie di birra che ci scoliamo.
– Cioè?
– A perdere, mio caro, sempre a perdere.
Risero entrambi, anche se Karl avrebbe voluto baciarla per quella cattiveria ancora più amara della birra doppio luppolo che avevano davanti, comunque avrebbe voluto baciarla.
Ad Alessya non era mai passato per la testa di baciarlo, invece avrebbe voluto abbracciarlo, perché lei voleva consolare il mondo, tutto il mondo dolente e sentiva che Karl era in pericolo, lei percepiva la disperazione sotto la pelle del suo amico. Quando lo aveva conosciuto aveva subito pensato che dietro la sua facciata di cinico si nascondesse un abisso. Gli sembrava di vederlo camminare su un crinale di montagna, un passo falso e sarebbe caduto, da una parte o dall’altra c’era sempre il baratro ad aspettarlo, restare in equilibrio per sempre le sembrava un’impresa impossibile. Cominciò a pensare che l’intelligenza di Karl non lo stava aiutando, anzi, quell’enorme capacità elaborativa spesso lo portava a perdersi dietro a ragionamenti che non arrivavano a niente, speculazioni intellettuali che non trovano applicazione pratica nella vita di tutti i giorni. Anche lei si sentiva fuori dagli schemi, ma Karl, lungo quel sentiero tracciato dalla maggioranza dei normali, prima o poi sarebbe inciampato in quel sassolino da cui inizia ogni frana.
Alessya voleva salvare tutti dal male, anche se stessa, per questo la notte, quando doveva percorrere le strade buie della città, portava nella borsetta la sua Smith & Wesson Bodyguard calibro 38 a tamburo, canna corta, cinque colpi. Era una delle poche cose lasciate da suo padre quando era sparito dalla sua vita.
La bisca dove Karl si era indebitato di più era quella di Gianny, Gianny con la “y”. Era una persecuzione. Gianny era un cinese di terza generazione che della Cina non conosceva nemmeno l’assenza della erre, aveva messo su quella bisca solo perché gli piaceva l’idea di giocare a fare il gangster.
Aveva organizzato la sua attività illegale nel seminterrato sottostante il suo avviato negozio di pelletteria che da solo gli assicurava un reddito sufficiente per farne uno dei maggiori contribuenti della zona. I tutori della legalità gli facevano almeno un controllo al mese e quella abnegazione negli accertamenti sarebbe stata definita abuso di potere verso chiunque fosse stato bianco, ma Gianny aveva gli occhi a mandorla e quella equivoca “y” finale, quindi c’erano tutti i motivi legali per procedere. Non c’era mai stata nessuna contestazione o reato, Gianny era un imprenditore modello: cinque dipendenti, tre italiani e due cinesi e quelli solo perché era stato obbligato dalle sorelle ad assumere i suoi cognati, tutti impiegati a tempo indeterminato senza scappatoie o agevolazioni fiscali, alla faccia delle leggi sul lavoro a tutele crescenti.
La sera, smetteva i panni dell’onesto manager e si trasformava in fuorilegge. Gestiva la sua bisca clandestina e tutti i servizi accessori indispensabili: prestazioni di escort a richiesta, sulle quali nemmeno applicava ricarichi, e prestiti a strozzo per chi non aveva più liquidi. Si sentiva realizzato, perché così pensava si dovesse comportare un boss della Jakuza e lui voleva essere un boss della Jakuza. Fin da piccolo gli erano sempre piaciuti i tatuaggi colorati total body che raccontavano storie, le dita tagliate per le promesse tradite e altre cose pittoresche che aveva visto nei gangster movie. Tutti gli avevano detto che quella era roba giapponese, ma lui confondeva i film di Bruce Lee con quelli dei samurai.
– Come fai a non distinguerli? – gli domandavano.
– Io vedo soltanto che quelli hanno la scimitarra e Bruce no.
– Non è una scimitarra Gianny, è una katana.
Per lui cinesi, giapponesi, coreani erano tutti uguali, non riusciva proprio a vedere le differenze e alla fine delle discussioni sull’argomento diceva sempre “una faccia una razza”.
Karl doveva a Gianny cinquantamila euro. A Gianny dei soldi di Karl non importava granché, dal negozio tirava su più di un centone al mese, quindi non era una grande perdita per lui, ma non poteva far finta di niente. Se un boss non si fa restituire i soldi prestati a strozzo, che diavolo di boss è? Se si fosse venuto a sapere, tutti avrebbero potuto sputargli sulle scarpe e lui ci teneva ai suoi bellissimi mocassini di camoscio rossi all’ultima moda che vendeva nel suo negozio.
Mesi prima, quando ancora il debito era di appena diecimila euro e pensava di poterlo restituire in breve tempo, Karl aveva accettato l’invito a casa di Gianny per una partita a dama.
Bevvero qualche bicchierino di sakè.
– Il sakè è giapponese Gianny, lo sai?
– Sì, lo so, ma a me piace.
A dama Karl era molto più bravo di Gianny, però aveva troppo rispetto verso il suo ospite per lasciargli vincere anche una sola partita, per un attimo pensò che avrebbe potuto proporre di giocarsi il suo debito sulla scacchiera, poi l’attimo passò.
– La scacchiera ha caselle bianche e caselle nere nella stessa quantità, – aveva detto Gianny, – è questa simmetria che rende il gioco affascinante. Sono come i tasti del tuo pianoforte.
– Voi fuorilegge siete approssimativi e disattenti, hai anche tu un pianoforte in salotto e non sai nemmeno quanti tasti ha.
– È lì perché l’arredatore ha detto che era indispensabile per lo stile fusion.
– Nel pianoforte ci sono cinquantadue tasti bianchi e trentasei neri. Dio ci salvi dalla malavita che si dà alla matematica e dagli interior designer.
Karl non aveva resistito e aveva voluto fargli sentire lo studio che gli stava rimbalzando nella testa in quel periodo, Chopin opera dieci numero cinque, dove la mano destra suona solo sui tasti neri. Dopo un minuto e mezzo di diesis e bemolle, mentre le armoniche dell’accordo finale si stavano spegnendo, Karl disse:
– Non c’è rigore, non c’è armonia nelle slot, solo il consumismo della sfortuna, invece la ruota della roulette è il giro del mondo, la pallina siamo noi, rimbalzati dalla trottola del destino, stesse probabilità per il giorno e per la notte, come per il rosso e il nero, per la gioia e il dolore. – Fece una pausa come per raccogliere le forze e continuò, – Nel lungo termine, qualunque sia il gioco, il banco vince, per bloccare momentaneamente il destino bisogna saper scegliere la sequenza e il momento giusto, andare a tempo.
Gianny gli rispose:
– Le slot vanno forte e restano lì dove sono, invece la tua roulette occupa un sacco di spazio e non rende, prima o poi la faccio sparire e comunque, caro Karl, nel lungo termine, siamo tutti morti, lo sanno anche gli economisti. A proposito, il tuo pezzo non mi è piaciuto per niente.
Alla fine, sul sakè Karl concordò con Gianny e quando fu abbastanza alticcio, per non dire ubriaco del tutto, disse che lui e Alessya si amavano, che lei era la sua ragazza, che avrebbero inciso un album, solo piano e voce e l’anno prossimo avrebbero sicuramente fatto un tour sold out, del suo debito non si doveva preoccupare, presto avrebbe restituito fino all’ultimo centesimo.
Quando rientrò a casa si rimise al pianoforte e riprese da dove si era interrotto prima. Anche a lui quel brano non era mai piaciuto, inutilmente veloce, chiassoso come una sala bingo, in confronto a tutto il resto della geniale produzione di Chopin era ben poca cosa. Karl lo suonava e risuonava perché si era convinto che non fosse solo musica, sotto le note intravedeva in filigrana una trama di numeri. Per Chopin quello studio era stata una sfida, per Karl un’ossessione.
La prima volta che aveva letto lo spartito dello studio numero cinque era stato per un saggio al conservatorio e nella sua testa c’era ancora la registrazione di quella diteggiatura stramba che usava il pollice anche per gli intervalli di sesta. Aveva tutto stampato nel cervello a distanza di… quanti erano? Vent’anni a dir poco.
Non potersi liberare del passato, ricordarsi di tutto, brutti momenti compresi, anzi quelli soprattutto, era il suo dono.
Risentiva l’odore di sudore e vergogna di suo padre quando era tornato dalla banca con un saldo positivo sul conto corrente e un’ipoteca a pesare sulla casa, sulla sua camera, sul salotto e anche sulla finestra dalla quale, in un giorno afoso d’agosto, aveva visto sua madre appoggiare una piccola valigia bordeaux sul sedile posteriore di un’auto che non era la loro e poi salire davanti e andare via, per sempre.
Inchiodata nella corteccia del cervello aveva anche l’immagine del suo maestro di pianoforte il giorno in cui lasciò il conservatorio, alto, dinoccolato, stava in silenzio lì davanti a lui a guardare il pavimento e a tormentarsi le lunghe dita come se quell’abbandono fosse stata colpa sua. Avrebbe saputo descrivere nei minimi particolari tutti i segni del suo vecchio pianoforte, le ammaccature dei mille traslochi, il numero esatto dei cerchi dei bicchieri umidi e delle bruciature delle sigarette lasciate a consumarsi fino al filtro. Aveva catalogato il colore degli occhi di tutte le donne che aveva desiderato e anche di quelle che erano state con lui, alla fine il risultato era lo stesso, ma la differenza era enorme.
Al conservatorio Karl aveva studiato gli isoritmi di Dufay, la perfezione di Bach, la rivoluzione di Beethoven, fino ai moderni minimalisti e quindi sapeva che la musica è matematica, sequenze di numeri suonati per un verso, ripetuti e poi rovesciati, aumentati o diminuiti, somme e sottrazioni, ma anche anelito e poesia. Quando aveva ascoltato le due esecuzioni di Glenn Gould delle Variazioni Goldberg aveva capito che la musica è soprattutto un mistero che ti tormenterà fino a quando non lo risolvi, esattamente come l’amore.
Anche Karl, come Glenn, aveva un computer nella testa e quindi era solo questione di tempo, doveva solo lasciarlo lavorare esclusivamente su quel fiume nero di diesis e bemolle dello studio di Chopin. Per non farsi travolgere dalla piena doveva lasciarsi andare, non opporre resistenza, era quello il modo per capire il significato di quella sequenza di note. Con il giusto codice di decriptazione, i valori e le durate dei segni incastrati nelle righe del pentagramma sarebbero diventati la profezia dei diciotto numeri neri che stanno tra lo zero e il trentasei.
Karl aveva elaborato il suo progetto. Primo passo, avrebbe dovuto dire ad Alessya che l’amava, ma solo per informarla del fatto, non che avesse speranze. Era sicuro del risultato, un sorriso, una smorfia di dispiacere o di scuse, caro Karl ecc. ecc. Sarebbe rimasto stupito di fronte a un “anch’io”, molto meglio un rifiuto. E poi quelli che beccano sono i chitarristi, il piano fa razza con il basso, i più sfigati del gruppo. Secondo passaggio, il ripianamento del debito verso Gianny per mezzo dell’applicazione pratica dello studio numero cinque di Chopin al tavolo della roulette.
Una sera uguale a tante altre, dopo che i clienti avevano lasciato i tavoli per i loro letti casalinghi, lui e Alessya si erano attardati al bar. Alessya reggeva bene l’alcol, Karl, invece, oltre una certa soglia, andava in blackout etilico e la mente non registrava più in memoria. Stranamente, al risveglio da quella notte alcolica, qualcosa ricordava. Si ricordava di aver raccontato di Gianny, di Chopin, di come aveva decriptato la sequenza dei tasti neri, della teoria dei giochi e della vincita alla roulette che gli avrebbe salvato le dita che Gianny pretendeva in cambio dei soldi. Quella maledetta fissazione di essere uno della Jakuza. Quelli sono giapponesi Gianny, voi cinesi odiate i nippon, vi siete sempre fatti la guerra e l’ultima l’avete vinta voi. Perché ti sei fissato con taglio delle dita? Sul tagliere, aveva detto Gianny e gli aveva soffiato il fumo della Marboro sulla faccia. Troppo cinema aveva pensato Karl, ma la lama ce l’aveva davvero, gliela aveva mostrata, un serramanico di quindici centimetri con il manico di madreperla.
Tutte quelle stupidaggini era certo di averle dette, ma non si ricordava se aveva confessato anche il suo amore, di quella parte proprio non era rimasta traccia. La mente ha dei blocchi di sicurezza, va in tilt per proteggere la coscienza profonda, incendia la sterpaglia per salvare le radici. Niente da fare, per quanto si sforzasse non ricordava e mica poteva andare da Alessya e chiedere, “Scusa Alessya, ma non è che l’altra sera, mentre ero ubriaco fradicio e stavo per vomitare, ti ho detto Ti Amo? No, perché se non te l’ho detto allora te lo dico adesso: Ti Amo.” Patetico! Non lo aiutava nemmeno il comportamento di Alessya, lo stesso di sempre, sempre sorridente e indaffarata, né offesa, né lusingata, solo preoccupata per tutte le altre cose che anche lui ricordava.
Il giorno dopo Karl disse a Gianny:
– Stasera ti restituisco tutto.
– Ti è morto lo zio d’America?
– Vedrai, ho decriptato Chopin e la roulette del casinò risolverà tutti i nostri problemi.
– Io non ho problemi bello, i problemi ce l’hanno le tue dita.
– Stasera, devi aspettare solo stasera.
Per questo Alessya lo stava seguendo, per capire se le cose che le aveva detto la sera prima erano solo farneticazioni di un ubriaco o se pensava davvero di metterle in pratica. Lei non sarebbe andata a letto con lui, ma le era amica e gli amici devono essere salvati, anche da se stessi. Si ricordò di quando, poco tempo dopo che lo aveva conosciuto, lo aveva sentito suonare il pianoforte sicuro che non ci fosse nessuno ad ascoltarlo. Era rimasta nascosta con le lacrime agli occhi e alla fine del pezzo era scappata via per dare sfogo al pianto. Le piaceva tanto la tragedia e dentro quelle note ce n’era in quantità.
Proseguì lungo il viale fiancheggiato da palme malaticce e rassegnate, come tutti gli esseri viventi portati fuori dal loro habitat naturale. La schiena di Karl mandò lampi quando fu sotto i riflettori dell’ingresso del casinò. “Proprio una giacca di lamé si doveva mettere?” Pensò Alessya.
Sul marciapiede dall’altra parte della strada stava Gianny nella posizione della gru, una sola zampa a terra e l’altra appoggiata al muro, in bocca una sigaretta. Il fumo saliva lungo la faccia, irritava l’occhio destro e andava a schiantarsi sulla tesa del cappello.
Alessya si sarebbe buttata nel fuoco per salvare chiunque e Karl era molto più di chiunque.
Gianny non poteva sottrarsi al dovere del gangster e, se pure a malincuore, aveva l’obbligo di dimostrare che chi non paga paga ancora più caro. La luccicante giacca del suo amico Karl aveva appena varcato le porte girevoli del Casinò. Chissà dove l’ha trovata quella bellissima giacca? Dopo glielo avrebbe chiesto. Però, se fosse uscito a mani vuote Gianny sapeva cosa doveva fare, aveva immaginato la scena mille volte. Aveva il serramanico nella tasca posteriore dei pantaloni, ne sentiva il peso.
Alessya sapeva che Karl davanti a una scelta dicotomica non aveva speranza. Si era convinta che i geni, quando si trovano di fronte a zero e uno, vita e morte, guerra e pace arrivano inevitabilmente alla stessa conclusione degli idioti. Appena varcata la soglia del casinò, Karl avrebbe dovuto scegliere tra rosso e nero, per questo Alessya era così disperata. Avrebbe dovuto fermarlo prima, magari mentire dicendo che lo amava, ora forse era troppo tardi.
Sul marciapiede opposto al suo, vide lo strozzino a cui Karl doveva tutti quei soldi. Forse c’era modo di farlo ragionare. Anche quella sera Alessya aveva portato con sé la pistola, la teneva nella borsetta a tracolla.
Nemmeno trenta secondi dopo che Karl era sparito nella hall del casinò, Gianny vide arrivare la ragazza. Bella, con capelli corvini alla garçonne, calzava degli anfibi slacciati e la gonna svolazzava ad ogni falcata. A tracolla portava una borsa, si fermò e incollò lo sguardo su di lui. Era sicuramente la ragazza di Karl, la descrizione corrispondeva. “Chissà cosa avrà in testa?” si chiese. Si rispose di stare attento, perché le ragazze innamorate sono imprevedibili e di riflesso si toccò la tasca posteriore.
Appena il croupier disse: – Faites vos jeux. – Karl puntò tutte le sue fiches sulla casella che Chopin aveva scritto subito dopo la chiave di violino.
Alessya attraversò la strada fissando negli occhi Gianny, intanto infilò la mano nella borsetta e impugnò il calcio della pistola. Il calore della plastica che combaciava esattamente con la sua mano le si diffuse per tutto il corpo, come il fuoco di uno shot di whisky.
Gianny vide avvicinarsi quegli occhi di ghiaccio. Il passo veloce non preannunciava niente di buono. Gettò a terra la sigaretta, la schiacciò con la suola del mocassino rosso e tirò fuori il coltello tenendolo nascosto dietro la schiena.
La ruota girava, la pallina rimbalzava in ogni spigolo.
– Rien ne va plus, les jeux sont faits! – disse il croupier.