Per dieci anziani, Irene Coldani_Rozzano(MI)
Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani
Erano tutti lì in prima fila, proprio davanti al prete. Tutti in piedi, tranne un paio sulla sedia a rotelle: chi con il treppiedi, chi col carrellino o un elegante bastone intagliato, chi appoggiato a un inserviente. Vestiti di tutto punto, gli uomini con giacca, cravatta e gilet, le donne con collane di perle e guanti. Probabilmente erano vestiti così anche quando andavano in chiesa negli Anni ‘70.
Erano in nove. Ne mancava uno. Silvia non ricordava il nome, anche se tutti i giornali e telegiornali ne avevano parlato a non finire. Era morto il giorno prima.
Era morto, dopo appena tre giorni che sua figlia aveva dato la vita per salvarlo. O almeno, pensando di salvarlo.
Era già in fin di vita quando era stato rapito insieme agli altri; c’era da stupirsi che fosse sopravvissuto. Aveva resistito giusto il tempo di firmare la lettera scritta a nome di tutti loro e di partecipare alla colletta in memoria di Alice.
Quando era arrivata la raccomandata con “Casa di riposo Santa Caterina” come mittente, Silvia aveva pensato di non aprirla neanche. Ma lo aveva fatto. Quindi, aveva visto la lettera e l’assegno, e aveva pensato di strapparlo. Non sarebbe etico accettare del denaro da qualcuno che vorresti fosse morto al posto di tua figlia.
Poi però aveva pensato a Chiara, l’altra figlia, quella che restava. Chiara avrebbe potuto farci qualcosa con quel denaro, magari pensando proprio a sua sorella. Quel qualcosa avrebbe di certo avuto un sapore molto amaro, ma era meglio di niente.
Le ricordava una sua compagna dell’università, che aveva il conto in banca pieno di soldi e li spendeva senza darci troppo peso, mentre Silvia lavorava per riuscire a pagare le rate. Un giorno, la sua compagna le aveva chiesto: “Tu hai un padre?”. Lei aveva risposto di sì. “Scambieresti tuo padre per il mio conto in banca?”. Lei aveva scosso la testa. “Vedi, io non ho potuto scegliere”.
Più avanti, prima che l’assegno scadesse, avrebbe permesso a Chiara di scegliere se accettare o no quel denaro.
Osservando gli anziani in piedi accanto a loro, fu felice di averle almeno mostrato la lettera. Non avevano ancora pensato a una risposta, eppure ora quei nove anziani erano qui, a portata di voce. Vivi e reali, come lo erano solo grazie a sua figlia. A costo di sua figlia.
Si chiese se almeno qualcuno di loro avrebbe vissuto abbastanza da poter testimoniare al processo. Ma persone così anziane potevano essere considerate capaci di intendere e volere?
Ancora una volta, si domandò se sua figlia sapesse per chi stava dando la vita. Non poteva essere. Il killer doveva averla semplicemente minacciata di uccidere dieci persone qualsiasi, se lei non avesse premuto l’interruttore. Ma come aveva fatto allora a convincerla che non stava bluffando?
Il killer. Forse era più corretto dire il rapitore. Perché, tecnicamente, lui non aveva ucciso nessuno.
I poliziotti avevano detto che aveva un disturbo di personalità, non ricordava quale. Era in cura nella stessa struttura dove si trovava lo studio della psicologa che frequentava sua figlia. Ipotizzavano che l’avesse vista lì e avesse poi cominciato a seguire i suoi spostamenti.
L’aveva presa mentre andava in università, in modo che la sua assenza non avrebbe destato sospetti per qualche ora. L’aveva portata nella cantina di casa sua, l’aveva legata e ricoperta di esplosivo, poi l’aveva chiusa lì, con un cellulare collegato in videochiamata col suo, e l’interruttore a portata di mano.
Dopodiché, aveva fatto irruzione – con un’arma finta, si era scoperto poi – nella casa di riposo, e aveva sequestrato i dieci anziani. Aveva legato e ricoperto di esplosivo anche loro, poi aveva chiesto a sua figlia di scegliere. E lei l’aveva fatto.
Non riusciva a capire come doveva considerare questa… persona. Era un malato psichiatrico, aveva le allucinazioni e prendeva dei farmaci. Si poteva considerare responsabile delle sue azioni? Ma allora come aveva potuto organizzare così bene il rapimento? E, soprattutto, come l’avrebbe considerato Alice, al suo posto?
Sperava di non doverlo incontrare al processo. Anche se, allo stesso tempo, provava un indistinto desiderio di incontrare l’uomo che aveva ucciso sua figlia. Di sapere perché l’aveva fatto, perché aveva scelto proprio lei. Ma se la risposta fosse stata che non c’era alcuna ragione… forse era meglio non chiedere.
Nella chiesa c’era un caldo infernale. Mentre Alice li guardava dal cielo, loro erano sprofondati.
Il prete fece segno di sedersi e avviò la cerimonia.
Era una chiesa di paese, piccola e spoglia, con un solo ingresso che ora non si riusciva a intravedere, perché era tappato dalla massa di quelli che erano arrivati quando le panche erano già tutte occupate.Chi aveva tardato più di loro, era rimasto fuori.
Era curioso, perché avevano lasciato libere le navate – se così si poteva chiamarle, in una chiesuccia del genere; forse sarebbe stato più appropriato corridoi – scegliendo di accalcarsi nello stretto spazio sul fondo.
Silvia non voleva girarsi a guardare, ma sapeva che c’erano molti dei loro vicini di casa. I parenti, gli amici di Alice, di Chiara, i suoi. E anche molte facce estranee, persone che non riconosceva, che si asciugavano gli occhi prima ancora che la cerimonia iniziasse.
Le signore previdenti avevano portato ventagli scuri e li agitavano, aumentando il suo nervosismo perché, inspiegabilmente, lo trovava un gesto irrispettoso.
Chiara, accanto a lei, si stava slacciando la felpa. Era la felpa nera oversize che Alice indossava sempre in casa.
Non accennava a toglierla, anche se da lei emanava un certo odore di sudore e le sue tempie cominciavano a inumidirsi.
Quando l’aveva vista emergere dalla cameretta vestita così, come se avesse raccolto i primi vestiti neri che le erano capitati a tiro, con i capelli raccolti in una crocchia disordinata, si era dovuta sforzare per non fare commenti.
Lei ci aveva impiegato un’ora a prepararsi. Prima aveva scelto un semplice ma elegante abito nero smanicato, scartando i vestiti da ufficio e quelli che aveva già indossato ad altri funerali. Voleva che fosse degno… dell’occasione, di sua figlia. Al contempo, sapeva che non l’avrebbe mai più indossato.
Poi, si era piastrata i capelli, si era truccata, aveva preparato la borsa e abbinato le scarpe.
Vedendo Chiara, che sembrava in pigiama e al funerale di sua sorella voleva portare solo ciò che aveva dentro, si era sentita sciocca e, soprattutto, in colpa.
Da quando Alice… da quel giorno, si sentiva in colpa sempre.
Toccarsi, con quel caldo, richiedeva una certa dose di incoscienza, ma appoggiò comunque la mano sopra quella di Chiara. Lei prese un respiro. Con la mano occupata, non poteva più strofinarsi gli occhi e le lacrime cominciarono a scivolarle giù lungo le guance. Dall’altro lato, anche suo padre le prese la mano, ed entrambi le si strinsero attorno.
Paolo, il suo ex-marito, non apriva bocca da giorni. Non quando si vedevano, almeno.
Dopo la notizia, nel momento in cui avevano realizzato in che situazione si trovavano, avevano considerato l’idea di restare tutti e tre insieme per qualche giorno. Ma, quando lo avevano proposto a Chiara, lei si era arrabbiata, dicendo che ci mancava solo avere attorno due persone che si odiavano.
Non si odiavano, in realtà. Solo che non sapevano come affrontarsi, come interagire. Perciò, già normalmente, lo facevano il meno possibile.
Ora però c’era la polizia, il processo, i giornalisti, le pompe funebri… molte cose da affrontare insieme.
Quello che era mancato era invece il riconoscimento, un corpo da seppellire o cremare. Non riusciva a immaginare cosa ne fosse stato del corpo di sua figlia.
In verità, forse avrebbe potuto scoprirlo facilmente. Il giorno prima, la polizia le aveva consegnato una chiavetta con il filmato che il rapitore aveva registrato del…rapimento. Le avevano detto che partiva da quando Alice si era risvegliata nel seminterrato. Non aveva chiesto ai poliziotti se avessero tagliato il finale.
Prima o poi, avrebbe dovuto parlare con Paolo anche di quello.
Il prete stava chiedendo a Dio di accogliere sua figlia con misericordia.
Silvia desiderò di potersene andare. Sentiva Chiara fremere al suo fianco.
Ogni tanto, il microfono fischiava e le sue sopracciglia si incurvavano un po’ di più.
Era stata una pessima idea il funerale in chiesa. Di nuovo, Silvia si sentì in colpa.
Che aiuto poteva dare a Chiara una cerimonia in cui si ripeteva continuamente che sua sorella continuava a vivere con gli angeli, se lei, se nessuno di loro ci credeva?
Era anche terrorizzata dalla possibilità che il prete facesse qualche accenno al fatto che sua figlia si era… suicidata. Perché, tecnicamente, era così.
Ma, per fortuna, non lo fece. La dipinse come un’eroina, una persona naturalmente altruista, che si era sacrificata per salvare gli altri. Non sapeva niente di Alice. Lei non frequentava la chiesa dai tempi dell’oratorio estivo, non li accompagnava neanche alla messa di Natale.
Lesse un brano sul sacrificio di Gesù.
Silvia si accorse che non ricordava neanche il suo nome.
Una mano, dalla fila dietro di lei, le strinse la spalla. Voltò appena la testa, ma sapeva a chi apparteneva: Gabriele, il ragazzo di sua figlia. O meglio, il suo ex-ragazzo. Si erano lasciati appena un mese prima. Era stato un processo lento e doloroso, però alla fine avevano capito che separati sarebbero stati meglio entrambi. Una conclusione che lei e il padre delle sue figlie ci avevano impiegato tutta la loro infanzia per raggiungere.
Gabriele era andato a trovarle non appena aveva ricevuto l’invito al funerale. Si era scusato per non essersi fatto sentire prima, ma non c’era stato bisogno di spiegazioni. Aveva chiesto di vedere la stanza di Alice per l’ultima volta, le sue cose. Tutti e tre avevano pianto. L’avevano invitato a fermarsi a cena, ma lui aveva preferito andare via.
Quella casa era il posto di Alice, e i fantasmi non aiutano chi sta cercando di resistere al dolore.
D’un tratto, il prete smise di parlare. Attese qualche secondo, poi annunciò che, chi aveva qualcosa da dire in memoria di Alice, poteva farlo.
Calò il silenzio. Silvia sentì le teste che si giravano verso lei, Chiara e suo padre. Sentì Chiara irrigidirsi.
Ma certo… aveva passato un’ora a prepararsi, gli ultimi giorni con nient’altro che Alice in testa, e non aveva pensato a quali parole avrebbe usato per dirle addio. Si portò una mano alla bocca.
Non voleva dire addio a sua figlia. Voleva che tornasse a casa, come faceva sempre, dopo il lavoro o l’università, lamentandosi dei mezzi pubblici o della pioggia. Voleva che le dicesse che era passivo-aggressiva, come faceva sempre quando litigavano, spiegandole per filo e per segno cosa ciò comportava per il loro rapporto. Voleva che la rimproverasse per come faceva la raccolta differenziata e perché al supermercato comprava le confezioni monoporzione.
La voleva indietro e non c’era molto altro da dire. Non poteva semplicemente lasciarla andare, immaginare la sua vita senza di lei. Tutto il resto della sua vita. Tutta la vita che Alice non avrebbe potuto vivere. Dio solo sapeva cos’avrebbe dato per far cambio con lei.
Chiara fece per alzarsi, ma si fermò quando vide che uno degli anziani stava lentamente avanzando verso l’altare. Sembrava abbastanza solido sulle gambe e non aveva né bastone né treppiede. In una mano teneva un basco, mentre con l’altra stava tirando fuori dal taschino della giacca un foglio di carta ripiegato.
Il prete si fece da parte e il vecchio si avvicinò al microfono. Ora Silvia vedeva il suo viso, le guance cadenti, le macchie cutanee sulla fronte, le labbra prosciugate.
Si schiarì la gola. “Per prima cosa”, esordì con voce limpida, “vorrei dire che io non credo di meritare ciò che Alice ha fatto per me e gli altri. Anzi, ne sono sicuro. Avrei dato volentieri la mia vita per lei, e in questo penso di parlare a nome di tutti noi. Ma non credo conti tanto se noi lo meritiamo, quanto ciò che il suo gesto ci dice di Alice. Io non la conoscevo e, purtroppo, non potrò avere l’onore di incontrarla”. Si interruppe e da un’altra tasca tirò fuori un fazzoletto di tela. Si asciugò gli occhi. “Ma Alice mi ha fatto l’onore di dare la sua vita per la mia, per quella di tutti noi. E non c’è nulla che possiamo fare per essere all’altezza di questo. Tuttavia, vorrei dedicare il tempo che Alice mi ha donato ad onorare e rispettare il suo gesto. Vorrei che la sua famiglia sapesse che io farei qualsiasi cosa per loro, come sono certo avrebbe fatto anche Alice. E, se loro fossero disposti a perdonarmi, per ciò che il mio essere vivo comporta per loro, mi piacerebbe sapere di più su Alice, sulla persona che era. Ecco, mi piacerebbe conoscere la persona a cui devo la mia vita, e a cui dedico ciò che ne resta”.
Chiara balzò in piedi, e lei e suo padre la seguirono.
“Come si chiama?”, chiese, quando furono accanto al vecchio.
“Tesoro, tu devi essere Chiara. Io sono Arturo”.
Aveva uno di quei sorrisi caldi, gentili, che hanno certe persone anziane. Sorrisi che contengono una consapevolezza e una tristezza infinite, ma anche la serenità di convivere con esse.
“Lei ha dei nipoti?”
“Se sono in casa di riposo, è perché nessuno può occuparsi di me”.
Le posò una mano artritica sulla guancia e il suo sorriso si fece più cupo. “Anche io ho perso due sorelle quando avevo più o meno la tua età. Mi dispiace molto che tu debba affrontare tutto questo”. Si fece indietro per guardarla meglio. “Le assomigli molto, sai?”
Da una terza tasca, tirò fuori un altro foglio ripiegato. Era un disegno, un ritratto a carboncino di Alice.
“Le foto che hanno messo alla televisione non erano malaccio come modello”, disse.
“E’ bellissimo”, fece Chiara, prendendolo delicatamente con le punte delle dita.
“Non l’ha firmato”, notò Silvia, guardando da sopra la spalla della figlia.
Di nuovo, Arturo sorrise. “Mi basta che non malediciate il mio nome quando penserete ad Alice”.
Chiara lo abbracciò. Lei e il padre gli strinsero la mano.
Rimasero tutti e tre sull’altare, mentre lui tornò lentamente al suo posto. Chiara parlò per prima, poi si fece avanti suo padre. E, infine, fu il turno di Silvia.
Fortunatamente non c’erano ringraziamenti da fare, perché li aveva già fatti Paolo. Non le restava che dire addio.