Petali di carta e conchiglie, Annalisa De Lucia
_Pensieri ed emozioni su carta, scritti nel marzo 2020.
Fin da bambina ho visto morire le persone che più amavo e dentro di me si è incuneato quel sentimento precario che la morte può arrivare in qualsiasi momento, a qualunque età e per qualsiasi motivo. Ognuno di noi ha la sua data, il suo passaggio verso un altrove che spero sempre sia migliore di questo. Storie che mi racconto da non più bambina per sopportare meglio il distacco, per accettare con più forza, per sperare di piangere sempre meno, ma mi accorgo che l’anima si sfracella contro un corpo senza vita che fino a poco tempo prima ho ascoltato, aspettato, incontrato, amato o anche solo pensato con affetto. Da questi tentativi di forza si è radicata in me la radice dell’abbraccio, della stretta profonda che può essere l’ultima e fa male solo a pensarla e che confonde la gioia dell’incontro alla malinconia del pensiero più recondito della perdita. Un pensare non sempre comodo, difficile da accettare quando si è giovani, quando il mondo crede che il pensiero dell’onnipotenza e dell’immortalità appartenga alle menti giovani. Eppure succede anche il contrario.
Ora il mio pensiero si accomoda con il pensare collettivo, per forza, per necessità. Io, bambina strana perché parlava agli animali e alle piante, alle cortecce e alle lumache, ora mi sento più affine all’umanità che sceglie di pensare più profondamente. Fin da piccola speravo in un letargo per gli uomini da novembre a marzo, come sapevo per gli animali. “Ritorneremo a vivere più felici a marzo”, dicevo a chi sapevo non mi pensava folle. “Un po’ più riposati, più docili alla vita”, pensavo.
Poi succede che la vita ci fermi per necessità e c’è chi continua a pensare con la mente profonda, chi inizia a farlo, chi respinge ogni prigionia che invita alla lentezza e alla riflessione, chi quel pensare non può neanche permetterselo perché non ha nemmeno un tetto sotto il quale stare o chi era invisibile un tempo e adesso non è neanche nominato perché se non aveva diritto di esistere quando era “un problema” per qualcuno perché esistere ora che il problema è un altro?
Io un tetto ce l’ho e ho anche una cittadinanza sicura, un codice fiscale e posso spostarmi per fare la spesa. Ho una finestra da cui affacciarmi e ascoltare le rondini indifferenti al nostro male e felici di essere ritornate, posso pensare, scrivere, non lamentarmi perché sono in salute, ma non posso zittire quello che sento lasciandolo tra le mie pagine sotto questo tetto sicuro e la tavola apparecchiata ogni giorno. Cosi succede che ci scriviamo tra anime sensibili, come scrivevo un tempo al mio diario che un’anima però non l’aveva. Mi sembra, per la lontananza, di scrivere da un fronte. Ma questo non è un fronte perché le bombe non distruggono la mia casa e non devo scappare in un rifugio e posso mangiare più della buccia di una patata a cena. Ma scrivo per fare qualcosa che possa dare un contributo anche simbolico in questo essere con me stessa e con gli altri, volontaria e impotente più che mai, perché non sono in trincea, ma a casa mia comodamente. Applaudo alle finestre, alzo il volume della radio perché non sono una musicista e non so suonare per allietare, sto in silenzio per salutare chi va senza un abbraccio, chi smette il respiro senza lo sguardo di un caro, il suo ultimo abbraccio. Scrivo per essere miseramente utile al mondo, per sostenere con questo battere di tasti chi sta davvero combattendo in prima linea. E questo mio tempo riposato nell’angoscia comoda è scandito dal suono delle ambulanze, anche ora mentre scrivo, e quel suono mi dà i brividi e risuona oltraggioso alla vita in questo borgo di poche anime. Insieme a tanti altri oggi, ovunque. Persone che lasciano persone, che lasciano un anello, un orologio, la collanina regalata da un nipotino, il portafoglio con le foto dei figli, un biglietto di autobus non ancora scaduto, una penna, un fazzoletto di stoffa come un tempo. È un brivido immediato, un pensiero livido, un augurio di vita disperato.
Racconto con dolcezza questa storia alla mia bambina di dieci anni adottata da qualche mese e che vive con noi una nuova sua natività e la tragedia umana a cui anche lei partecipa con i nostri riti di applausi, pensieri di gratitudine e domeniche di minuti di silenzio. I bambini comprendono il male, la morte, il grazie quotidiano alla vita se sappiamo insegnarlo. La nostra bambina sta imparando ad essere figlia come noi ad essere i suoi genitori. Sta imparando ad essere figlia, ma anche ad essere grata alla natura, alle stelle della notte, al richiamo degli uccelli inconsapevoli e gioiosi, alla salute che ci accompagna, alla possibilità di esserci e più comodamente di altri in questo momento. Amo guardare le finestre illuminate di vita, immagino storie. Ora ce ne sono di più, illuminate di vita, di paura, di speranza, di contatti senza altri corpi, di amori separati, di affetti che non tornano, di seppellimenti senza saluti, senza addii, senza baci che rincuorano, senza la carezza che accompagna, di bambini che cantano, di applausi e di silenzi pregati e di notti insonni. Abbiamo letto poesie alla finestra, dono gratuito e inconsueto per i morti, abbiamo accompagnato chi va, chi è andato senza quei baci, senza gli abbracci e i sorrisi misti a lacrime come dono ad ogni morto. Abbiamo guardato il fiume, letto poesie perché quell’andare con una poesia diventi più lieto, magari ascoltato, forse una ninnananna dolce per non sentire il vuoto e l’amarezza della solitudine. Perché si sentano meno soli, più pensati. Abbiamo gettato petali di fiori di carta, dall’alto, immaginando il passaggio, come nelle favole, di principi e principesse, abbiamo sparso conchiglie come si fa nel paese di mio marito quando un burkinabe lascia questa terra per tornare a casa. Spengo la luce anche stanotte. E il fiume che lambisce il mio borgo, non ha cambiato canto.