Piccola B. “Sosed”.L’attesa dell’Oltreoceano_Sara Biagioli, Sansepolcro(AR)
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia 1999.
Ci sono coincidenze che hanno un senso, ma più tenti di afferrarlo e più ti sfugge. Ci sono dei nomi che si ripetono sulle bocche d’estranei, nomi che per coincidenza sono gli stessi, ma più cerchi di ricordarli e più li dimentichi. E così passiamo la nostra vita ad inseguire questi significati nascosti e percorriamo i binari del nostro tempo senza accorgerci delle luci della città che illuminano il buio di realtà che non conosci.
Spesso per afferrare l’ineffabile della nostra esistenza ci affidiamo all’immaginazione, quell’enorme magazzino vuoto pronto ad essere riempito di storie false, ma vere. La verità di raccontare delle bugie e di saperlo, senza nascondersi dietro inutili paraventi. La verità di voler celare i nostri sogni dietro una cortina immaginaria. La verità di voler amare e di non ne essere capaci che con l’illusione della mente. Un’illusione fatta d’attese, che ti spingono ad aspettare il momento giusto per illuderti che sia vero. Mille altre parole ancora ci vorrebbero per spiegare la facile realtà dell’attesa dell’oltreoceano. Parole formate da lettere, che si alleano e si ricompongono con altre, tradendo la fiducia delle prime. Parole, insiemi di suoni sordi che significano tanto e nulla allo stesso tempo. Parole che servono a raccontare le storie, quelle storie da cui fuggiamo ogni giorno, inventandone altre sempre più avvincenti.
Avvincendo l’anima con nuove speranze, che ti aiutano ad aspettare. Ma ad aspettare cosa?
I
Oggi sono sei mesi che conosco Sosed. E sono sei mesi che mi sveglio alle cinque con il rumore che fa l’addetto al cambio dei cartelloni pubblicitari elettronici di fronte alla mia finestra e con il rumore irregolare del battito sui tasti del computer del mio vicino. Quando mi sono trasferita al 325 di Grays Inn Road, avevo intuito che avrei dovuto convivere con i suoni della metropoli, ma i padroni di casa non mi avevano avvertito della presenza di un vicino. Teophanis, il proprietario greco, aveva solo accennato ad un anziano signore russo, che abitava in uno dei suoi numerosi locali in affitto. Il silenzio al piano di sopra mi fece presto dimenticare queste parole dette per caso. Per un mese, ho continuato a pensare di essere sola nell’edificio, cosa che non mi dispiaceva.
La mia nuova strada mi dava già abbastanza problemi di caos. Grays Inn Road è una di quelle tipiche strade del centro delle grandi città. Praticamente non conosce sosta, il suo asfalto è battuto 24 ore al giorno sia da mezzi con ruote sia da scarpe. Costituisce uno snodo essenziale per la viabilità della capitale con le sue sei linee della metropolitana, due stazioni ferroviarie e un incrocio a quattro strade. Forse questa è stata la ragione per cui ho deciso di venire ad abitare qui, esco da casa e sono al centro del mondo. All’alba, un onesto lavoratore del comune viene per sostituire i pannelli dei cartelloni pubblicitari, cosicché, quando un po’ più tardi la corsa al lavoro comincia, la gente è informata sulle ultime novità del mercato. Una mattina di Ottobre, infastidita dal solito rumore, mi sono alzata per scrivere al computer e portare a termine il mio progetto.
Biip e compare una scritta mai vista prima sullo schermo: il silenzio è il filo sottile che separa la vita dalla morte. La solitudine, la valle che le unisce. Qualcuno deve aver perso quelle parole nella rete telematica, perché io non le ho mai scritte. Panico. Come si restituiscono delle parole? Come rimandarle al mittente? Non sapevo quale tasto usare.
Improvvisamente mi sono accorta che il rumore che mi aveva svegliata non proveniva da fuori, ma dal piano di sopra, dove evidentemente qualcuno stava battendo al computer. E’ stato così che ho conosciuto Sosed.
Riuscii a trovare il tasto giusto e gli restituii la sua frase. Quando la vide comparire di nuovo sulla sua riga vuota, mi scrisse:“Spassibo”, e mi ricordai di aver sentito parlare di un vecchio russo. Alexander Dimitri Sergeev è uno dei tanti emigrati russi, approdato nella libera Gran Bretagna alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ fuggito per evitare che le sue parole di scrittore fossero imbrigliate nella rete comunista.
Una volta arrivato a Londra le aveva liberate, ma ciò non era servito a renderlo famoso. La profondità della sua anima russa non aveva trovato corrispondenza nel freddo pubblico inglese. Ormai da più di quarant’anni vive al terzo piano di Grays Inn Road, in mezzo a tanti altri emigrati il cui coraggio è stato più o meno ripagato. Io lo chiamo semplicemente “Sosed”, che in russo significa vicino di casa. Questa sera, di rientro dall’Università, andrò da Sosed per aiutarlo a battere il suo romanzo.
Mi ha chiesto di aiutarlo il giorno dell’incidente, delle parole perse. All’inizio ero molto perplessa e non volevo accettare. Non volevo lasciarmi coinvolgere dai ricordi di un anziano signore di ottant’anni. Lo spunto per convincermi venne proprio dal cartellone pubblicitario che ci tormenta.
Un’enorme scritta blu diceva: sei stanco dei rumori? Metti in casa i silenziosi propulsori! Se lo avessi aiutato, avrebbe smesso di martellare i tasti del computer alle cinque del mattino. Accettai. La promessa non è stata mantenuta a causa della sua terribile insonnia. Pazienza.
Anzi adesso lascio sempre il computer acceso, così se perde delle parole, ci sono io a raccoglierle. Questa sera gli porterò anche un piatto di minestra. Sosed vive della carità del padrone di casa che non lo butta fuori e di quella di Ahmad, il negoziante egiziano che gli porta ogni giorno le provviste e se ne va dicendo: buqra, in sha’llah (domani, se Dio vuole), indicando il borsello vuoto del russo. Il mio vicino è sempre vissuto di espedienti. Ieri mi ha raccontato di essere stato addirittura barbone. Ho sorriso al pensiero del mio amico al posto del senza tetto che vedo ogni mattina dormire sulle scale del municipio del quartiere.
Si sveglia sempre quando gli impiegati, tutti rigorosamente in uniforme blu, lo calpestano alle nove in punto per andare in ufficio. Non ho mai visto un impiegato dirgli buongiorno. Un risveglio peggiore del mio. Sosed non si è mai rassegnato a fare un mestiere solo per guadagnare soldi. Lui è uno scrittore e riesce a fare solo quello. E’ stato lui che mi ha parlato per primo dell’attesa dell’oltreoceano. Non ho ancora ben capito cosa sia questa sua filosofia di vita, ma, Sosed ha detto che non devo preoccuparmi perché prima o poi la sperimenterò di persona. Mentre ero da lui, questa sera, è venuto fuori con questa affermazione: lo scrittore è un egoista. Questa mi mancava proprio nel panorama delle teorie strampalate. Lo scrittore è egoista, perché non scrive per gli altri, ma scrive per se stesso. Fin qui non ci sarebbe niente di male. L’interessante è che secondo il mio vicino, lui, in quanto scrittore, avrebbe agito tutta la vita in maniera da avere qualcosa da scrivere e le sue decisioni sono state il frutto della sua penna, piuttosto che essere la penna frutto delle sue decisioni. Così è nato il suo ultimo romanzo.
II
“Ridammeli! Ho detto di ridarmeli!”
“Davvero interessante, uhm, uhm…”
“Sei sordo per caso? Ridammi i miei fogli!”, continuo ad urlare e a slanciare le mani verso i fogli usciti dalla stampante, sotto gli occhi divertiti della moglie del gestore pakistano della copisteria.
“Questi appartengono all’umanità.”
“ Noooo, quelli appartengono al mio amico e tu non hai il diritto di leggerli…”
“Permetti che mi presenti. Mi chiamo Arnauld Bernardin e sono un agente letterario. Trovo molto interessanti queste teorie, potrei pubblicarle…”
“No, grazie” faccio io, riprendendo finalmente le pagine del romanzo di Sosed.
“Non credo che il mio amico sia interessato, e poi… e poi… queste teorie non sono destinate all’umanità.”
“E a chi sarebbero destinate, allora?”
“Non lo so, non lo so, non lo so e non lo voglio sapere. So solo che hanno un altro scopo.”
“Potrei parlare con l’autore, almeno, e provare a convincerlo…” Incalza lui, accompagnandomi verso casa.
“Senti, è meglio di no, vedi la situazione è complicata, l’autore è anziano e non è abituato al successo e…”
“Ok, ti lascio il mio bigliettino da visita, allora. Chiamami se cambia idea.”
“Uhm, uhm” rispondo io.
Cambiare idea, cambiare idea, come se a ottant’anni fosse facile cambiare idea. Non vedo l’ora di raccontare l’episodio a Sosed. Dopo anni di disperata ricerca del successo, eccolo che arriva così sotto forma di un pazzo che legge i pensieri altrui rubandoli dalla stampante pubblica. Furto d’idee e violazione del diritto di fare ciò che si vuole, ecco di cosa dovrebbe essere incriminato quel tizio lì. Oggi la giornata era già cominciata con un arresto, a sirene spiegate, proprio sotto il nostro portone. Urla alle quattro, sirene alle quattro e trenta, rumore pubblicitario alle cinque e sveglia alle sette, non male come inizio. Prima di andare a casa, passo da Ahmad, per vedere se ci ha lasciato qualcosa da mangiare per cena, non ho voglia di cucinare.
“Masa’ al-hair ya Ahmad (Buonasera Ahmad)” dico entrando nel minuscolo negozietto.
“Ahlan ya nur al-laila (salve o luce della sera)” fa lui di rimando.
“Ci hai lasciato qualcosa da mangiare?”
“Certo” dice prendendo un pacchetto “sai cosa è successo oggi pomeriggio?”
Cosa ancora può essere successo oggi pomeriggio?
“E’ venuto qualcuno a trovare Sosed… qualcuno dall’accento straniero…”
Come se a Londra ci fosse qualcuno che parla con l’accento inglese, penso sorridendo.
“No, cosa pensi, non un emigrato, proprio uno straniero… francese, credo…. si chiamava… si chiamava… ah la vecchiaia!”
“Monsieur Arnauld Bernardin!” esclamo io di riflesso.
“E tu come lo sai?”
“Ho appena avuto il piacere d’incontrarlo… ma aspetta come faceva a sapere dove abitavamo e… del romanzo… ma allora ci aveva spiato… oppure, ma sì adesso è tutto chiaro… ancora delle parole perse! Se non ci sta attento Sosed, finisce col diventare famoso anche senza volerlo!!”
Ancora ridendo salgo le scale di casa, poso in fretta la borsa in casa e poi vado su dal mio vicino. Questa sera devo battere una parte cruciale del romanzo. E’ tutto il giorno che ci penso. In verità penso anche ad un’altra cosa. La mia è proprio un’ossessione. Nel mio cuore so perché questa giornata è stata così piena d’eventi. E’ l’agitazione normale di ogni 16 Marzo da cinque anni a questa parte. La vivace routine del quartiere non è stata che un pretesto per nascondere la mia angoscia. Oggi compie 37 anni e anche quest’anno non sono con lui.
“Zdrazduyte Sosed (salve Sosed), come va oggi?” dico accendendo il computer.
“Peggio di ieri e meglio di domani, come ogni previsione. Hai portato qualcosa da mettere sotto i denti?”
“Ah sì, scusa. Ecco il pacchetto di Ahmad. Mi ha detto che hai ricevuto visite questo pomeriggio, non è vero?”
“Un idiota è venuto con un dischetto in mano, dicendo di avere 234 parole mie e che ne aveva bisogno di altre 1000 per pubblicare un racconto. Ti sembra un discorso con un senso?”
“Devi stare più attento, se continui a usare il computer senza pensare, finirà che tutti i navigatori di internet ti verranno a cercare!”
“Che vengano pure! Non troveranno che parole, ma se non gliele spiego, per loro non hanno senso.”
“Qual è l’episodio avvincente di questa sera? Sono proprio curiosa!”
“E’ l’Amore.”
Ha ragione, cosa c’è di più avvincente dell’Amore?
“Hai colpito il bersaglio, Sosed. Oggi è il suo compleanno e io non so neanche dove sia…”
“Questa sensazione che provi tu ora, fa parte dell’attesa dell’oltreoceano. E’ come un verme che divora il tuo stomaco piano, piano, provocandoti una tremenda fame, che non puoi saziare, però, perché non hai più con cosa digerire. Natalia era il cibo con cui mi volevo saziare. Ti ricordi quando ti ho parlato dell’egoismo dello scrittore?
Ebbene, sono stato così egoista da sacrificarla in nome di questo romanzo.
Lei era un soggetto irripetibile, una protagonista e il nostro amore lo scenario perfetto. Da quando l’ho persa, l’aspetto. Mi alzo alla mattina aspettando, mi addormento la sera aspettando, scrivo aspettando, parlo aspettando e l’attesa mi divora come il verme fa con lo stomaco. Avevo 32 anni quando la incontrai. Lei 21. Aveva lunghi capelli biondi, riccioli e due occhi verdi come gli aghi di betulla. Vedi tanti occhi nella vita, ma guardi solo quelli destinati a te. Li guardi una volta e non li dimentichi più. Me li porto dentro, chiari, splendenti, arrabbiati, commossi, delusi, afflitti… miei e di nessun altro. Ogni minuto passato con lei era prezioso.
Mancava poco alla deportazione, il tempo ci sfuggiva di mano, si scioglieva come neve al sole. Ah, la neve, la neve, quella distesa bianca e gelida che raccoglie i tuoi passi, affondandoli morbidamente. Quel rumore silenzioso che ci accompagnava nelle nostre lunghe passeggiate a Zarizna. Allora l’attesa aveva un altro sapore. L’Amore è uno solo, tutto il resto sono fotocopie, una più sbiadita dell’altra. Le notizie alla radio peggioravano di giorno in giorno, la gente aveva paura e non sapeva dove andare. Non volevo rassegnarmi a perderla, ma sapevo che tra lei e la libertà, avrei scelto l’ultima. Non so se la deportazione è venuta da me, o io inconsciamente le sono andato incontro in cerca di una possibilità.
Un giorno mi hanno fatto salire su un treno e Natalia è rimasta a guardarmi da dietro la coltre bianca. Dalla Germania, finita la Guerra, riuscii a fuggire e ad approdare qui. Se fossi rimasto con lei, nessuno avrebbe conosciuto la nostra storia, non avrei potuto raccontarla. Non ho saputo più nulla di lei, ma non importa perché io l’ho conosciuta, capisci? La porto con me, bella come allora, felice e innamorata, speciale. Ponimaesh? Ponimaesh?”
No, non capisco. Non capisco, eppure vivo la stessa situazione di attesa. Da anni aspetto qualcuno che non tornerà più. Non importa, io non posso far altro che aspettarlo, perché ormai l’ho conosciuto e so che da qualche parte esiste.
Finito il racconto, il mio verme si è già messo al lavoro.
III
“Svegliati, Nicole… Svegliati… Nicole mi senti, sveglia… Allah Akbar (Dio è grande), per favore, svegliati…”
“Chi è che mi chiama, sono appena andata a letto…”
“No è già mattina e Sosed, oh meskin, meskin…” (poveretto).
“Che cosa è successo a Sosed?” balzo dal letto in un attimo e guardo Ahmad con aria terrorizzata.
“Le sirene, l’autoambulanza, non hai sentito niente? L’hanno portato via, hanno detto che è grave, per fortuna ho bussato prima di andare a dormire, volevo il mio piatto…”
“Che cosa è successo?” lo afferro per il braccio e gli faccio del male, perché ho bisogno di sapere.
“Un infarto… l’ho trovato disteso, alla sua età, non dovrebbe vivere solo…”
“Presto andiamo da lui, sveglia Hamjad e digli di prestarci il furgone dei giornali. In quale ospedale lo hanno portato?”
“Conosco io la strada, yalla, yalla (andiamo, andiamo)!”
Comincia un altro tipo di attesa. Di fronte ad una sala operatoria. Il cervello si mette in moto vorticosamente. Vorrei essere un computer in questo momento. Registrare, ma non pensare. Pensare è un’attività pericolosa.
Meglio dormire sulla spalla di Ahmad e aspettare.
“Se la caverà, è di fibra robusta e non ha per niente voglia di andarsene!”
Certo che non ne ha voglia, e chi ne ha? Non è mai il momento giusto.
Quella è l’unica attesa, di cui non vuoi vedere la fine, ed è l’appuntamento a cui non mancherai. Parole di Sosed.
“Fra un’ora circa sarà possibile vederlo, per il momento è meglio di no, prosegue il dottore.
Che cosa gli dico appena lo vedrò: “Bentornato con i piedi per terra” oppure “volevi andartene, lasciando il romanzo a metà?”. No. Mi volto e vedo un’infermiera che porta via un computer su un carrello. Idea! Lo saluterò con: “biip, log in!”. Come posso fare per convincere l’infermiera a prestarmi il macchinario? Siamo in Inghilterra, mica in Italia! Procedures are Procedures (le regole sono le regole) qui e non si scherza!
Posso chiedere ad Ahmad di andare a distrarla, ma non penso che funzionerebbe. Allora potrei fingermi il tecnico dei computer… ma non ne ho la faccia. Trovato! Le faccio un discorso assurdo, lei non capirà, ma pur di essere polite (gentile), starà zitta e acconsentirà.
“Senta, lei, scusi. Sa che non può circolare con questo aggeggio per i corridoi dell’ospedale. Questa è una violazione grave del codice del traffico della sanità inglese. Codice emergenze, art. indispensabile, priorità assoluta.”
“Ah really?” Non poteva che rispondere così. Se vengono colti di sorpresa a non sapere una regola, la carriera è finita. Meglio passare per stupidi qui, che per ignoranti.
“Potrei denunciarla, sa? Il mio amico potrebbe uscire da un momento all’altro dalla sala operatoria e trovare la strada intralciata; è meglio che lasci qui quel coso e vada a riempire l’application form per farsi dare il permesso di circolare, chiaro?” Tanto, ammesso che trovi il foglio di richiesta, tra compilarlo, presentarlo, fare la fila, trovare l’ufficio, sono già le cinque di pomeriggio e le chiederanno gentilmente di ripresentarsi domani! Io, nel frattempo, porto il computer verso la camera di Sosed.
L’infermiera se ne va borbottando un “sorry about that” (spiacente).
Non appena il corridoio si è liberato, faccio segno di via libera ad Ahmad, che è rimasto in disparte, perché lui, in quanto arabo, queste manovre proprio non le capisce.
“E’ pesante!” esclama lui.
“Sfido io, con tutte le parole che ci sono dentro. Ogni parola peserà almeno due etti… forse è troppo, facciamo uno. In ogni caso, le parole pesano.”
Quando entriamo nella camera, troviamo un groviglio di fili e tubi. In mezzo distinguiamo una forma umana. Stacchiamo tutto e attacchiamo il computer.
“Biip, log in.”
“Ah, siete voi dice Sosed con il respiro affannoso.
“Si, siamo noi, non ti affaticare. Ti abbiamo portato le tue parole. Non ne manca neanche una. Sono state un po’ in pensiero e non volevano rimanere da sole a casa ad aspettare” dico, cercando di smorzare l’atmosfera pesante.
“Avrei voluto avere un figlio.”
Silenzio. Ci sono affermazioni alle quali non si può controbattere.
“Per fartene cosa? Io ne ho avuti cinque, e sono rimasto solo lo stesso!”
Per fortuna che c’è Ahmad, la voce dell’esperienza.
“Lo avrei voluto per portare avanti il mio egoismo di scrittore. Ho mancato l’appuntamento per poco, questa volta!”
“Evidentemente, devi aspettare ancora un po’. Noi aspetteremo con te, non ti preoccupare.”
“Nicole, vorrei andare alla National Gallery, appena esco di qui. Credi che sia possibile? Sono anni e anni che non ci torno, perché faccio fatica a muovermi.”
“Certo, organizziamo la visita, appena torni a casa. Tu pensa a rimetterti, al resto pensiamo noi.”
“Grazie. Nella vita, più sei egoista, e più trovi persone che ti vogliono bene, buffo no?”
Buffo sì. Io devo far parte dell’altra categoria.
IV
Da quando Sosed è stato male non lo lasciamo più solo. Facciamo a turno io e Ahmad a dormire con lui. Io praticamente mi sono trasferita da lui e lo veglio costantemente. Drin, drin, drin. Rispondo al citofono, chi può essere?
“Senta qualcuno sta lanciando bicchieri e vestiti dalla finestra sulla tenda del mio ristorante!”
“Che cosa? Bicchieri e vestiti, io non sto lanciando proprio un bel niente.”
“Senta sono stufo di trovare la mia tenda sporca, va bene?”
“Ma io sono al terzo piano con le finestre chiuse e non sto buttando giù niente…”
“Ma lei in che appartamento vive?”
“Nel flat C, perché?”
“Ah, allora forse mi sono sbagliato” clic, riattaccato.
Sono sbalordita. Ritorno al mio lavoro. La tavola è completamente occupata da cartine. Sto cercando di trovare un percorso ideale per arrivare alla National Gallery con la sedia a rotelle. Vorrei cogliere l’occasione per portare Sosed un po’ in giro. Proprio oggi ho battuto una parte del romanzo dove il mio amico descrive le sue lunghe passeggiate sul lungo Tamigi, quando ancora era giovane e poteva camminare. A dire la verità, l’ho trovata un po’ noiosa questa digressione sui suoi pensieri mentre guarda il fiume che scorre. Dai ricordi Sosed è passato alla fantastoria, perdendosi in un fiume di se, a partire dal “se non fossi stato deportato in Germania, avrei lasciato Natalia?” Frasi come le città con i fiumi, affogano le loro ansie nello loro acque, per poi andare a confondersi nei mari della desolazione, mi danno l’impressione di essere un po’ troppo catastrofiche per raccontare una vita.
Guardo Sosed che dorme con il respiro lento, e penso che in fondo ognuno è libero di raccontare la propria vita come vuole, anche usando toni melodrammatici.
Sono lì che penso ancora ai “fiumi lavatrici”, quando mi giro e vedo due ombre sul tetto della casa di fronte. Due ombre che fumano accanto al cartellone pubblicitario, che, ironia della sorte, reclamizza le Marlboro e la vita selvaggia del Far West. C’è anche chi pensa che la propria vita valga bene una sigaretta fumata su un tetto di King’s Cross alle nove di sera vicino al cartellone che lo pubblicizza. E’ come rubare un po’ di quella libertà sfrenata aspirando il fumo del tabacco.
“Nicole, c’è la luna piena questa notte?”
La voce di Sosed mi arriva da molto lontano, forse dall’immagine del cartellone.
“No, non penso, perché?”
“Guarda meglio, ci dovrebbe essere… lassù, cerca il disco luminoso.”
Faccio veramente fatica a distinguere la luce pallida della luna, così dispersa in mezzo allo smog e alle nuvole.
“Sì, forse c’è. E’ là, proprio là.”
“Quando mi porti fuori di qui? La prossima luna piena non ci sarò più. Tu guarderai verso l’alto e mi troverai accanto ad essa.”
Ecco che cosa intendevo all’inizio, quando non volevo accettare di battere al computer il romanzo di Sosed. Io mi affeziono alle persone che frequento. Mi raccontano le loro storie e io le memorizzo sul mio hard disk. La mia memoria ha tanti di quei megabites che non si esaurisce mai. Una volta che il computer di Sosed si sarà spento, il suo romanzo si trasferirà sul mio drive c e me lo porterò dietro come un portatile.
“Presto, Sosed, presto. Sto programmando tutto. Ecco vedi che ho preso tutte le cartine…”
“Non abbiamo bisogno di cartine, Nicole. Ci sono io che guiderò la spedizione. Fidati.”
Io mi fido.
V
“Ash-shams, ash-shams (il sole, il sole)!” grida Ahmad, sconvolto dalla luce, dopo un inverno di buio.
Ci siamo proprio tutti. E’ impressionante come i lieti eventi attraggano le persone. Hamjad per l’occasione ha lasciato il negozio alla moglie.
Il senza tetto per una mattina ha deciso di non farsi calpestare dagli impiegati, ed è lì davanti alla nostra porta con la sua coperta attorno alle spalle. Teophanis ha chiamato il tecnico per smontare il portoncino. E i passanti non si siedono sui nostri scalini esterni aspettando l’autobus.
Riesco finalmente a portare via Ahmad dalla finestra e dalla visione estatica del sole che lo ha calamitato.
“Pensi di riuscire a portarlo giù da solo?”
“Eh, ma fi mushkila (non c’è problema)! Tu pensa a portare la carrozzina, se ci riesci, ah, ah!”
“Certo, che credi?” L’arrivo della Primavera ci ha dato un po’ a tutti alla testa.
E’ scendendo le scale che lo noto, e per poco non mi cade la sedia di Sosed. Se ne sta là in piedi ad aspettare come se niente fosse. E’ tornato alla carica il nostro agente letterario, oppure passava di qua per caso…
“Bonjour Monsieur Bernardin. Che strano, avrei giurato di essermi spiegata bene la prima volta che ci siamo conosciuti, ma forse non hai capito che non siamo interessati a…”
“Arrete toi, mademoiselle. Non sono qui per proporre nessun business. Sono in missione di pace e per partecipare alla vostra spedizione, sempre se è possibile.”
Per me qui c’è sotto qualcosa, ma la sua espressione tradisce solo spontaneità, e, anche se a fatica, qualche volta bisogna arrendersi e avere fiducia nel prossimo.
“Ma come hai fatto a sapere che oggi saremmo andati alla National Gallery?”
“….”
“Alt, no, non dirmelo. Attraverso il computer? Accidenti, non è che per caso ci troviamo dietro la maratona di Londra adesso?”
“Mais non, mais non! Monsieur Sergeev mi ha mandato un e-mail per avvertirmi, tout simplement!”
Sto quasi per chiedergli chi gli ha scritto, tanto mi suona male quel nome, quando mi ricordo che Sosed ha un nome ufficiale all’anagrafe!
Rinuncio a capire il collegamento tra Bernardin e il mio amico russo, e mi giro per vedere a che punto sono i preparativi.
“Eccoci qua, siamo pronti!” dice Ahmad, sistemando Sosed sulla sedia.
Oggi siamo proprio felici e al completo, come ogni gita che si rispetti.
Comincio a spingere la carrozzella verso l’incrocio per attraversare.
Fermi davanti al rosso, ci accorgiamo che c’è una strana atmosfera di giubilo in giro. Sentiamo canti, inni, e clacson che suonano all’impazzata. Incuriositi ci dirigiamo verso Angel, prendendo per Pentoville Road. Ci lasciamo prendere dall’eccitazione del “fuori programma” in questo bel sabato mattina. Più ci avviciniamo al quartiere, più vediamo gruppi di persone fuori dei pub con le loro pinte di birra.
Sono tutti vestiti di rosso e bianco, con cappelli strani e bandiere grandi che seguono l’onda del vento.
“Lo scudetto, abbiamo vinto lo scudetto, il New Castel ce l’ha fatta” borbotta il senza tetto, che vivendo sulla strada è informatissimo. La folla incomincia a invadere le strade, a danzare e fermare le macchine.
Siamo piacevolmente colpiti da questo risveglio primaverile della vita londinese, dopo il lungo letargo invernale. Solo quando sentiamo le prime sirene della polizia, capiamo che la gioia per la vittoria si sta trasformando in pazzia collettiva, in frustrazioni represse in nome delle regole, che i vapori dell’alcol stanno facendo riemergere pian piano.
“E’ meglio fare dietro front” dice Ahmad “quando si scatenano questi sono peggio di tutti gli integralisti islamici messi insieme!”
Alziamo i tacchi e le rotelle in fretta, incrociando le autoambulanze che si dirigono a salvare il salvabile.
“Le deviazioni portano sempre ritardi e noie, in qualunque direzione siano prese”, Sosed apre la bocca per la prima volta e come al solito le sue parole lasciano il segno.
Riprendiamo la “retta via” di Grays Inn Road e ne percorriamo un bel tratto, finché non incrociamo, sulla destra, Theobald’s Road. Poi giriamo a sinistra in Southampton Row fino ad incrociare sulla destra una piccola strada che ci porterà verso Covent Garden. Questa sarà la nostra prima tappa.
“Quando ero giovane, venivo spesso qui. Era il quartiere che mi piaceva di più e dal quale traevo più ispirazione per i miei libri. Mi ricorda vagamente la Starii Arbat a Mosca con i suoi musicisti, giocolieri e disperati in cerca di successo.”
“Che cosa ti ricordi di Mosca, Sosed?” chiedo io, curiosa di sapere quanto sia cambiata.
“Non molto se devo essere sincero. Mi ricordo solo impressioni, sensazioni, odori, rumori, che non sono riuscito a ritrovare qui. Ogni tanto, alla finestra, mi sembra di avvertire la stessa aria pesante d’inquinamento, di cherosene che ti si appiccica addosso. Ma è solo un attimo di vento di nostalgia, che si confonde subito con i profumi delle benzine verdi.”
“A me manca tanto l’odore della polvere del deserto, che si cosparge su tutto ciò che incontra lungo il cammino” ribatte Ahmad con un sospiro, che tradisce sofferenza.
“Forza procediamo verso la National Gallery. Vi voglio mostrare qualcosa”, riprende Sosed, evitando così che il nostro umore peggiori. Da Covent Garden in dieci minuti arriviamo davanti alla maestosa entrata del museo. Sosed indica di andare all’entrata della Sainsbury Wing.
VI
“Tutti hanno bisogno di colore nella vita; chi non ne ha, vuol dire che è muto.”
In effetti siamo tutti ammutoliti di fronte alla potenza dell’immagine.
I nostri occhi si riempiono lentamente di colori, forti e tenui, chiari e scuri, tanti.
“Non giratevi finché non ve lo dico, capito?” Sosed ha assunto proprio il ruolo di guida e ci sta ipnotizzando con i suoi ordini. Con determinazione, riesce a spostarsi con la sedia a rotelle verso destra.
“Ora.”
All’unisono, ci voltiamo di scatto, curiosi di vedere.
“Lasciatevi violentare dal viola della Malinconia, lasciatevi assalire dall’afflizione. Siete disorientati, dispersi, soli. Il viola si è impresso nella vostra anima, la Malinconia è stata trasmessa.”
Il custode è così impressionato dalla scena che non stacca gli occhi dal quadro di Munch. Apre la bocca e poi la richiude, facendo tremare la dentiera.
“Ah, Maometto (su di lui la pace) aveva ragione: i pittori sono creature del diavolo!” Esclama Ahmad, rianimando l’atmosfera.
“Ora, ruotate le pupille verso sinistra e lasciatevi conquistare dal giallo della luce. Luminosità e angoscia. Felici, ma tristi.”
Sbatto le palpebre due volte prima di abituarmi al bagliore di Van Gogh.
“Adesso siete futili, frivoli, leggeri. Il bluette vi elettrizza, siete carichi di civetteria. Sorridete.”
Vedo che Bernardin riprende fiducia in se stesso, si aggiusta la giacca, e lo immagino seduto al caffè del quadro di Renoir.
“La purezza del bianco con la tenerezza del verde. Tornate, bambini, spontanei. Liberatevi del tormento di essere adulti.”
Il senza tetto sistema la sua coperta e si distende a terra. Guarda il soffitto come se lo fissasse dal prato di Monet.
“Infine, abbandonatevi alla passione del rosso. Trasgredite, amate, tradite. Sentitevi peccatori e macchiati di sangue.”
Sono rimasta io a guardare l’opera di Degas. Ciascuno si è scelto un colore. Solo io continuo a passare da un colore all’altro, come drogata dal loro potere. La mia iride non riesce a decidersi. Diventerò daltonica.
Eliminato il problema della scelta, così.
“Nicole perché non scegli il colore arcobaleno? E’ il colore dell’attesa. Quando aspetti l’oltreoceano un colore solo non basta a descrivere tutte le sue fasi. Solo l’arcobaleno riesce a racchiudere tutta la sua angoscia, passando da una tonalità ad un’altra. L’intensità di un’attesa che non ha fine.”
“Però nell’arcobaleno non c’è il nero, Sosed!”
“L’attesa riesce a confondere i colori e a farti vedere il nero anche nei colori dell’arcobaleno, milenka (tesoro).”
Sento che in questo momento sono molto confusa, ecco perché faccio fatica ad individuare il mio colore.
Solo quando il custode ci avverte che è l’ora di chiusura, ci decidiamo a staccare i nostri occhi dai colori dei quadri. Uscendo, ci dirigiamo verso Embankment. Piano, piano ci riprendiamo dalla visita alla National Gallery e i rumori della città ci distraggono dai pensieri.
VII.
Stasera ho guardato in alto e ho visto la Luna piena. Ho lasciato Sosed che dormiva poco fa. Io sto battendo le ultime pagine del romanzo. Mi sono commossa molto, quando il mio vicino scrive: in fondo, mia dolce Natalia, il nostro Amore era meglio viverlo che scriverlo. La sua attesa è stata lunga e solitaria. Rendersi conto di aver sbagliato, dopo aver aspettato tanto, deve essere terribile. Punto, fine. Guardo lo schermo del computer, esausta. Tutte le parole di Sosed sono state memorizzate, in ordine e con un senso. Chiudo il file, lasciando acceso il resto, e vado a dormire. Poco prima di andare a letto, telefona Ahmad, dicendo di passare da lui domani. Sono cinque giorni che non lo vado a trovare. Dopo la nostra spedizione, ognuno è tornato alle proprie occupazioni e preoccupazioni.
Il mattino dopo, dormo fino a tardi. Stranamente la città è silenziosa.
Mi alzo con fatica e faccio colazione. La radio mi ricorda che oggi è festa nazionale. Quando torno in camera, vedo il computer e mi ricordo.
Cara Nicole, la cosa più sbagliata è opporsi al proprio destino. Salendo su quel treno ho lasciato che la mia storia d’amore finisse nelle parole di un romanzo che porterò con me oltre l’oceano.
Quando aspetti la fine, finisce che arriva quando meno te lo aspetti.
Parole di Sosed.