L'angolo dello scrittore

Pina: il mondo magico della danza in 3D

Il film di Wim Wenders è altamente consigliabile sia a chi ama la coreografia moderna e, in particolare, gli spettacoli della Bausch, sia a chi vuole capire l’arte contemporanea. L’uso della tridimensionalità qui permette di entrare nel cuore ammaliante delle creazioni della coreografa di Wuppertal, quasi di sfiorare i corpi e i capelli dei suoi eccellenti danzatori. Che si alternano a ricordarla, a rievocare la sua figura austera e rigorosa, il suo alto magistero artistico che la portava nei propri allestimenti a far assumere ad ogni atto della vita quotidiana un valore assoluto.

 di Rocco Cesareo

Ho visto il film di Wim Wenders su Pina Bausch, e lo consiglio a due categorie di persone: agli amanti della danza, naturalmente, e a chi vuole capire l’arte contemporanea. Non sono un esperto di danza in particolare, ma certamente sono interessato alla seconda categoria.

La danza (v. “Problemi dell’arte” Milano, Il saggiatore di Susan Langer, 1962) piega il tempo ai ritmi della vita, imitandone i gesti in maniera stilizzata. Questo in realtà vale non solo per il balletto, bensì anche in termini più popolari, anche per la discoteca, la balera o le feste in famiglia, così come la danza classica, quella sulle punte e in tutù per intenderci, si è istituzionalizzata in un repertorio preciso, in un linguaggio di posizioni e di passi.

Abbandonando la “formalizzazione semantica della danza classica,” la così detta danza  moderna, da  Isadora Duncan per intenderci alla Bausch, recupera una gestualità che chiameremmo ordinaria, (ossia per semplificare una gestualità semplice, quasi facile…) per ricreare a sua volta un nuovo repertorio di gesti, che col tempo sono diventati  immediatamente riconducibili come “stile di Pina Bausch”. Si potrebbe quindi dire che la Bausch ha reso, grazie alle sue stilizzazioni, “mitico” ciò che apparirebbe come ordinario.

Questa estensione delle stilizzazioni danzate dal classico al moderno pur in assenza di una terminologia ben chiara, ha comunque ottenuto una cittadinanza artistica. Ciò è avvenuto in tutte le arti contemporanee, dove ogni atto della vita quotidiana ha assunto un valore assoluto.

La danza moderna di Pina Bausch ha mantenuto una serietà ed un’austerità rigorosa, capace di coinvolgere intensamente lo spettatore senza rinunciare, quando richiesta, alla “lucidità ludica”, dando maggiore spessore ad una coreografia generale, e di gruppo, evitando i passi a due.

Pina Bausch non usa nudità, l’erotismo non si esibisce con le parti sessuali, ma riemerge sotto forma di forte passionalità intellettualizzata.

Ma veniamo al film vero e proprio, la cui capacità di tradurre la dimensione delle opere di Pina Bausch è oggettivamente grandiosa.

Partono i titoli di testa. Sostiamo pochi secondi su una panchina di un giardinetto di Wuppertal e siamo sul palcoscenico! Non davanti, non dietro le quinte, nessuna divisione, nessuna quarta parete: siamo lì, al centro del palcoscenico, in mezzo ai danzatori di Pina. Vediamo i graffi nel linoleum, allungando la mano potremmo toccare la pelle, i corpi delle magnifiche creature del Tanztheatre Wuppertal ensemble, sfiorarne i capelli, accarezzarne il volto. Al centro del palcoscenico si staglia la bellissima figura di Nelken, una donna vestita solo dell’ingombro di una fisarmonica, che, dopo pochi istanti, ci catapulta tra i respiri ansimanti di Le Sacre du printemps. Trenta ballerini, quindici uomini e quindici donne, danzano sull’argilla un rito violento che grazie all’uso del 3D ci porta completamente dentro questo cerimoniale primitivo. Tra corpi sempre  più selvaggi, affannati e imbrattati, si può osservare le coreografie e indagarle: il dettaglio del movimento, del gesto, la sua estensione nello spazio grazie al 3D che ci restituisce completamente lo spazio, il mondo, la meraviglia dell’opera: non pare di assistere alla visione di un film, piuttosto di entrare direttamente nel gioco seducente della stessa Pina Bausch.

L‘uso del 3D, ad opera di Wim Wenders, ci permette quindi di immergerci nell’idea di spazialità e di movimento dei corpi nello spazio stesso. Le parole sono fuori campo, affidate alle voci dei suoi danzatori che parlano di lei, di sé stessi con lei e nei suoi spettacoli. Attraversiamo le strade di Wuppertal, saliamo su metrò e vagoni, mentre i ballerini fanno trasparire desolazione, gioia, felicità e bellezza del ricordo.

Wim Wenders regala anche bellissime immagini di repertorio. In particolare una dove è in scena la stessa Pina Bausch  emblematica, carismatica, bellissima. Si staglia sul fondo in sottoveste chiara, gli occhi chiusi in un’appassionata ansia d’amore (e infatti Café Muller racconta la mortalità dell’amore). Qui danziamo con tre generazioni, perché Wim Wenders incrocia tre versioni dello spettacolo: quella con i danzatori del Wuppertal, quella con gli over 65  e quella con i teenager.

L’affondo finale è con Vollmond, fra coni di luce, pioggia e pozze di acqua. Un concentrato dei temi classici della Bausch, ma riproposti con incommensurabile freschezza e sensibilità.

A congedare il pubblico dalla sala è Pina Bausch stessa. L’ultima inquadratura è per lei. Una brevissima frase coreografica, in un bianco e nero che esalta la magia delle sue mani, delle sue braccia e del suo modo di inclinare la testa, e un saluto con la mano, come quelli dal finestrino di un treno o uscendo dalla sala prove, a dire “ciao, ci vediamo domani”.

 

Per anni il regista ha coltivato una profonda amicizia con colei che viene definita una delle maggiori coreografe moderne. La prematura scomparsa dell’artista ha ovviamente stravolto l’idea originaria di Wenders, ma alla fine il risultato è di una purezza totale, e la consapevolezza della morte della grande artista, finisce per renderla allo spettatore ancora più presente.

Non a caso, l’abbondante ora e mezza per cui si protrae la pellicola, è sostanzialmente un insieme di testimonianze raccolte da Wenders. Testimonianze da parte di coloro che hanno praticamente vissuto a stretto contatto con la Bausch, vivendo intensamente un rapporto spesso sfuggente e mai troppo loquace con la loro maestra.

A più riprese il regista tedesco ha spiegato quanto per lui fosse essenziale disporre di una tecnologia adatta allo scopo, proprio per cercare di  immergersi ed immergerci in questa figura ambigua, mai abbastanza chiara, come quella della Bausch. Da qui il ricorso al 3D, a nostro parere una delle componenti più riuscite nell’ambito di questo progetto.

Ci pare di poter dire che Wenders avesse ragione quando cercava di far capire come e perché necessitasse di un escamotage del genere. La sua storia, che è quella della sua vecchia amica, è una storia fuori dal comune, e che andava quindi raccontata mediante mezzi tecnici inusuali. Ed il 3D, per quanto se ne sia abusato nell’ultimo periodo, rappresenta ad oggi un territorio ancora inesplorato, sui cui esiti e sul cui reale utilizzo la questione è ampiamente aperta.

In tal senso l’apporto di Wenders risulta encomiabile, denso com’è di significati che esulano il semplice colpo d’occhio. Il suo è un 3D che va gustato, assimilato e poi metabolizzato. Non mette affatto la parola fine alla disputa, anzi, pone ulteriori quesiti a cui forse prima non ci aveva nemmeno pensato.