Piove nonna. E intanto io invento storie, Carmine Antonio Vox_Bari
Menzione Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione adulti
Il riposo? È superato, obsoleto, démodé. Mentre rispondo ironicamente ad una domanda che
nessuno ha mai posto, almeno a me, fuori piove. A catinelle. A zifunno. A catafottere.
Per questo, forse, il grillo parlante mi esorta ad approfittarne, e riposare. Ma il suggerimento mi
pare ormai un’idea romantica, lontana, vaga e sfumata nei ricordi. Forse quand’ero piccolo? Ma
neanche! Anche allora mi svegliavo all’alba. Però aleggia sempre nella memoria la leggenda, il mito:
il Sommo Sonno Ristoratore. Che, come ogni mito o leggenda che si rispetti, non riesco a non
immaginare visivamente. E me lo figuro nella rappresentazione iconografica di un Morfeo dalle
fattezze boteriane e con il cappello da chef (Ghiottolino, omino di pasta frolla glutinoso, sei tu?) che
sforna spuntini di mezzanotte per affamati sonnambuli e fragranti leccornie per voraci nottambuli.
Ma il mio sonno, abitualmente una manciata di ore – davvero: possono contarsi sulle dita di una mano
–, ora è anche disturbato da incubi ricorrenti: il capo che mi rimprovera per qualche manchevolezza
burocratica, colloqui che non riesco a finire perché gli interlocutori svaniscono nel nulla, io che
sbaglio luogo, orario, giorno di una riunione… e pure l’abbigliamento!
E intanto fuori piove. A frappacavallo. A timbracamosci. A scotolaprovole.
-Il diavolo non dorme mai! – dice mia nonna, e mi sorprende non tanto per l’elevata
considerazione nei confronti del sottoscritto [tuttavia non ho capito se mi sta dando del principe delle
tenebre o se vuole spronarmi a dormire meno per eccellere almeno in un campo] quanto perché
proverbi e modi di dire sono le uniche frasi che riesce a pronunciare in perfetto italiano, senza alcuna
inflessione dialettale. E lei parla in uno strano modo: un miscuglio, un groviglio, un coacervo di
influssi differenti.
-Che, te sei ‘nfragnato? Te sei ‘ngrippato?
-No, nonna. Ragionavo di linguistica applicata.
Lei ruota gli occhi verso l’alto, quasi una richiesta di aiuto nel campo della pazienza
dall’altissimo dei cieli – cosa che assume ai miei occhi le sembianze di un improvviso ribaltamento
dei referenti –, e torna alla fissità ieratica dei suoi solitari di carte.
Io continuo ad usare le carte per costruire dei castelli che chiamo teorie. Che crollano benissimo.
Ed in quest’opera di perpetua fallibilità umana, ah!, come m’è dolce naufragare.
D’altronde fuori sempre che piove in abbondanza. A scroccacaciucco. A cavafratino. A
frombolapréviti.
Certo potrei anche vedere il bicchiere mezzo pieno: la pronta disponibilità alla ricostruzione.
Perché «non è forte chi non cade ma chi, cadendo, ha la forza di rialzarsi», dicono i saggi. Ed io
rispondo loro «ok, ma la finiamo con gli sgambetti?». Ma poi perché levarsi la soddisfazione, il
piacere, il puro godimento di sentirsi perennemente in difetto? Perché non liberarsi della morsa
soffocante dell’angoscia della perfezione? Perché rinunciare al confortante abbraccio
dell’incompiutezza, dell’irrisolutezza, del perfettibile? E così faccio un forellino alla base del
bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, e sgocciolo, sbrodolo, giuggiolescamente.
Ma fuori non gocciola, non pioviggina, non zillica, ma piove piovaschi. A sbudellapentola. A
scotolabiglie. A masticaspigoli.
Nel frattempo, all’interno dell’io, sono arrivato a pensare che se facessi uno show sull’argomento
che conosco meglio, cioè me stesso, i temi di discussione sarebbero sempre gli stessi: il sonno, la
pigrizia, come giustificarsi per i ritardi. Un circolo vizioso. Il circolo vizioso. Una teoria di ossessioni
che ruota vorticosamente amente attorno all’unico e solo buco nero dell’interrogativo esistenziale
«come si può evitare qualsiasi responsabilità?».
Ed ecco che dal fondo dell’inconscio sento levarsi le parole concordi, l’armonia di unanime
rimprovero, il coro di voci blande di disperazione. Mia madre, gli amici, i colleghi, le ex, che
all’unisono e con l’arrendevole scoglionamento di chi ha perso ogni speranza mi domandano: «ma
quando cresci?»
Mia nonna no. Mia nonna ci crede ancora, indefessa, inossidabile. Un pervicacissimo martello
che periodicamente, e con una ricorrenza tendente allo zero – dato che si diverte a simulare
l’alzheimer –, incalza e bombarda con costante vigore:
-E tu quanno ti sishtemi?
Una domanda sola. Eppure una tempesta. E infatti fuori piove. A friggifalangette. A
provocastromboli. A frangicrumiro.
-Sistemato in che senso, nonna, lavorativo o sentimentale?
-Secondo te, che je inderessa a nonna?
-Che io sia felic
-CHE TI SPOSI!
E mentre una parte del mio cervello si sorprende di come la frase sia uscita in italiano perfetto e
comincia i suoi deliri di linguistica comparata, l’altra, più piccola, mette a frutto i tanti anni di
sopravvivenza al disagio per mettere in moto l’oliatissimo meccanismo di autodifesa, il pilota
automatico della fuga, la mia exit strategy per eccellenza: l’ironia.
-Io aspetto il secondo giro.
-Che è shta shtoria mò?
-Nonna, i single a quarant’anni sono pochi, e tutti…
-Bacáti! Com’a’ttè. Lo sapimo.
-Ecco. Grazie, nonna cara. Però ho pensato una cosa, ho elaborato una teoria. Cioè: sono tutti
sposati o accasati con prole. Adesso, se le statistiche non mentono, cominceranno a separarsi. E lì,
vuoi perché c’è meno concorrenza, vuoi perché un pochetto pure sono
-Sei ‘n cretino.
-Sempre grazie, nonna. Intanto già si sono liberate Ilary Blasi e Shakira…
-Nun mi piasce la Blasi, è volgare.
-È per la questione dei rolex? Vabbè, forse hai ragione, nonna, è un po’ burina. E Shakira ti
piace?
-È un bo’ shcoshtumata, sempre co’lle cosce de fori. Ma si te piasce a te…
-Vediamo che possiamo fare, dai.
Così, mentre mi chiedo come farò mai ad incontrare non dico Shakira ma una donna nuova in
genere se resto sempre a casa, piove. Perché, quand’anche solo valuto la possibilità di uscire, piove.
Piove che Dio la manda. Piove a frustabandito. A scrostaboscaglia. A trombaruggito. A
sprangacapelloni. Piove come Dio comanda.
La volontà divina è evidente: è bene che io mi astenga dai fini biologici della riproduzione. E
anche Darwin se ne frega e mi spernacchia. Il mio corredo genetico non è dei migliori, mi rendo
conto, e non è esattamente portato alla moltiplicazione. D’altronde ho studiato troppo a lungo. Ed il
rapporto tra educazione e natalità, è fatto assodato, è proporzionalmente inverso. Più si è colti e
avanzati, meno figli si fanno. Non è una questione personale, ma dell’intera civiltà contemporanea.
Per questo mi ha sorpreso l’esplosione demografica attorno a me negli ultimissimi anni. Certo,
l’orologio biologico. E certo, pure: la pandemia. Ma è possibile che tutta ‘sta gente culturalmente
preparata, che stimo tanto, si sia dedicata alla riproduzione in maniera, diciamo così, “ricreativa”,
senza pensare che prima o poi saremmo pure tornati alla frenesia quotidiana? Posso pensare che siano
stati solo irresposabili?
Mi pare improbabile. E allora ho elaborato una teoria. Molto materialista. Strettamente biologica.
Basata sulla sensazione del pericolo incombente. Quindi sì, la pandemia, ma anche la guerra,
l’inflazione, e tutti gli eccetera eccetera che ci mostrano le facce più orribili del mondo. Una sorta di
sistema apotropaico della genesi.
Cerco di spiegarmi meglio.
Mi ricordo che due ragazzi croati, nati negli anni ’90, mi raccontavano il boom demografico cui
la loro nazione aveva assistito negli anni del conflitto. E mi giuravano fosse accaduto anche negli
altri paesi jugoslavi. Dicevano di essere tutti “figli della guerra”. Cioè, secondo loro, l’estrema
situazione di pericolo aveva dato sfogo agli istinti più puri dell’animale umano: gironi e gironi di orge
infernali. Trombiam, del doman non v’è certezza. E l’imperativo biologico della riproduzione prende
il sopravvento su qualsiasi accorgimento della ragione.
Altro esempio, ben più banale. Ho sentito un’intervista ad un grande chef stellato italiano. Gli
chiedevano se la crescente proposta di piatti completamente vegetali fosse ascrivibile ad una
sensibilizzazione animalista o a criteri di sostenibilità ambientale. E lui ha negato entrambe le opzioni,
spiegando che il fenomeno è dovuto ad un solo grande problema: trovare carne e pesce di alto livello.
Al che ho pensato «se non le trova lui, con quello che paga – e si fa pagare…». E poi «ma che cazzo
di mondo stiamo lasciando ai nostri figli?»: una domanda retorica condita con una generosa manciata
di plurale generalista. Ecco: secondo la mia teoria queste preoccupazioni sono la base psicologica per
la sensazione di distruzione imminente che innesca il bisogno riproduttivo. Peccato che
personalmente ho saltato quel meccanismo e aggiunto un’altra domanda retorica ben più egotica: «ma
che cazzo di mondo hanno lasciato A NOI?»
Certo, non ho dimostrato la teoria, ma spero di averla almeno illustrata. Il fulcro è: tutti attorno
a me hanno figliato perché sentono avvicinarsi l’apocalisse, l’armageddon, l’estinzione.
Così, mentre comincio ad immaginare un mondo nuovo in cui ad aver preso il posto degli esseri
umani sono stati i topi, i procioni o gli scarrafoni (e fantastico su quanto mi piacerebbe campare
abbastanza fino a vedere il Ricky Gervais della civiltà scarrafoniana), mi sorge il dubbio di aver solo
trovato un’immensa immane scusa al fatto di non avere neanche la possibilità di riprodurmi. Di non
trombare.
Niente di nuovo, certo. Ma d’altro canto, tanto per cambiare, fuori piove. A grattugiamantidi. A
stritolatóntoli. A tritaputtini.