Play_Alessandro Fusacchia, Rieti
_Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005_
Per la maggior parte della gente non esiste posto più familiare della camera da letto. E’ il posto dove tutti si vestono al mattino e si spogliano alla sera; il posto dove ci abbandoniamo ai sogni e in cui chiudiamo gli occhi per più di un respiro; il posto dove ritorniamo al mondo come se fosse ogni giorno una nascita nuova. Senza madre, senza placenta, come se ci avesse generato il fiume della luce mattutina, misto alla polvere, o alla voce della radiosveglia.
Ma per alcuni di noi ci sono posti più familiari, che la camera da letto. Posti in cui possiamo stare nudi, in cui possiamo chiudere gli occhi senza addormentarci, posti in cui morire soli senza lasciare il mondo, in cui galleggiare sulla placenta, oppure aspettare la prima luce e rimuovere la polvere; posti in cui è nostra l’unica voce che si sente.
Solo pochi hanno la fortuna di abitare questi posti, e li tengono stretti. Li custodiscono segreti poiché temono gli assembramenti.
Marcel è uno di questi fortunati. Abita in una piccola stanza da oltre vent’anni, è di poche pretese e ha tutto quanto gli abbisogni. Lascia la porta sempre aperta, la piccola stanza dà su una stanza, più grande, e quest’ultima su una stanza immensa, dove le pareti si alzano per metri e Marcel diventa un essere minuscolo.
Da sempre Marcel attraversava le tre stanze come se fossero casa sua, andando dalla piccola all’immensa, e poi nella direzione opposta. Quando c’era altra gente, si mimetizzava.
Quando invece poteva chiudere la porta principale, allora ritrovava il proprio passo, e parlava solo, o col crocifisso attaccato alla parete.
Riconosceva ogni striatura di marmo. Parlottava il francese con un accento grave, ma sapeva a memoria tutte le epigrafi in latino, quelle ricavate nella pietra, quelle tradotte, quelle pressoché illeggibili. Non sapeva che dicessero, ma quando parlava con il muro, di tanto in tanto il crocefisso rispondeva.
Girava con un grosso straccio ed una scopa, il luogo era chiuso e umido, se avesse lasciato correre per qualche settimana sarebbe diventato la tana di un famelico ragno.
Il giovedì era il giorno preferito di Marcel. Si chiudeva dentro, le visite venivano sospese fino al venerdì mattina.
Allora apriva le danze. Passava tra i banchi, percorreva avanti e indietro tutta la navata centrale, rovesciava secchi d’acqua insaponata, aggirava le colonne, montava sulle scale per vedere i pastelli da vicino, strofinava, spazzava. La chiesa era il suo gioiello.
Dopo un lungo pomeriggio tutto luccicava, ogni cosa rimandava luce come la sua fronte imperlata di sudore.
Per mezza giornata a settimana, Marcel diventava il padrone della chiesa, mentre Cristo se lo guardava inchiodato ad un angolo, roso dall’invidia, se avesse potuto sarebbe sceso ad aiutarlo, gli avrebbe preso la scopa dalle mani, avrebbe pulito al posto suo.
Alla fine di tutto, poi, arrivava l’organo. Marcel saliva per una scaletta interna, passando dalla sagrestia che collegava la sua stanzetta con l’androne della chiesa, inseriva il disco, premeva il tasto PLAY, alzava il volume, si sentiva allora timorato dalla voce del Signore, e faceva il verso alle note con la bocca aperta in direzione della volta. Quindi, si metteva alla tastiera dell’organo e suonava, suonava, suonava, senza mai toccare un tasto, ma muovendo tutto il corpo come se la musica gli attraversasse i nervi, come se l’avesse composta lui, come un maestro d’orchestra la sera dell’allenamento.
E mentre suonava, non smetteva di pulire, passava con lo straccio sopra il do, poi il re, poi il mi, poi il sol, poi indietro sopra al la, poi il legno, poi il leggio, i pedali, lucidava l’organo come fosse un mocassino; se fosse morto, l’organo sarebbe andato con lui in paradiso.
Un giovedì estivo, Marcel fece come sempre, gettò secchi d’acqua saponata, aggirò le colonne con lo spazzolone, salì e scese scale alzate al lato delle tele, ripassò a memoria una lapide in latino, poi si affacciò sull’uscio della chiesa, sgrullò la pezza e i canovacci sulla piazza trafficata, rientrò, girò il chiavistello della porta esterna, socchiuse la seconda, si rifece il segno della croce, salutò il Cristo affisso alla parete, attraversò la sagrestia, salì fino all’organo, lo accese, premette il tasto PLAY, cominciò a lucidare il do, poi il re, a un certo punto il sol, suonò, suonò e suonava senza mai toccare un tasto.
Durava da quasi un’ora, Marcel aveva i nervi rintronati, l’organo era di nuovo un mocassino. La musica si arrestò, era finito il disco. L’organo taceva, non si mosse.
Aveva gli occhi chiusi, non si sentiva niente, l’unica voce era la sua, non c’era polvere, era morto ed era ancora lì, nello stesso mondo, ma adesso galleggiava, era minuscolo vicino alla parete, si sentiva al centro di una noce cava fatta di pietra, mattoni e marmo, al centro di un guscio enorme, sospeso a mezz’aria. Sentì lo sgabello sotto il sedere, era solo un supporto che lo sosteneva nel vuoto della chiesa, non ci sono più banchi adesso, niente sedie, non ci sono più preghiere, non ci sono lapidi né santi impastellati, le secchie sono tutte al loro posto, il pavimento è una lastra opaca, pure Cristo s’è ritirato in sagrestia.
Se qualcuno entrasse ora lo troverebbe duro come un tronco, mentre galleggia al centro di un oceano circondato da quattro mari; al centro di un oceano chiuso su ogni lato, un oceano che in fin dei conti non è altro che un enorme acquario.
Lo troverebbe nella placenta della madre terra, che poi è l’acqua dura che non beviamo.
Marcel apre gli occhi, ricompare la tastiera, ricompare l’organo, ha ancora la mano destra e gli occhi nelle orbite, ha ancora le pezze e il canovaccio, per questo giovedì può bastare pure; è affamato, conferma a Cristo che la cena è pronta, Cristo è magro, mangia da Marcel solamente il giovedì sera, una volta ogni sette giorni.
Ma non fa in tempo a sentire se Cristo gli ha risposto, sente un piccolo rumore, poi un altro, è come quando i topi rosicano assieme. Lo sente arrivare dalla navata di centro, c’è qualcosa che non capisce, non ci sono topi, non c’è nessuno. Ha gli occhi aperti, si muove appena, non si volta ancora, è ancora vicino alla tastiera, ancora a un metro dal parapetto, a guardarlo da sotto gli si vede solo il collo con il cranio calvo.
Marcel si dice che deve essere la fame.
E invece è il chiavistello.
Si è rotto, la porta d’ingresso non si è chiusa bene, è bastato il primo curioso analfabeta, non ha letto che di giovedì la chiesa è chiusa, se non è chiusa di domenica farà pure un turno di riposo.
Marcel si alza di scatto, la sorpresa è comune. Dal centro della chiesa scroscia un vibrante applauso. Marcel si affaccia, la camicia è aperta fino all’ombelico, la peluria fuoriesce pelosa e grigia, il capo è liscio come una perla.
Marcel è sconcertato e muto. Tiene i palmi saldi contro la pietra del parapetto. Potrebbe cadere giù per lo spavento.
Si lancerebbe per schiacciarli tutti. Ma è troppo incredulo e non dice niente. Fa’ solo un gesto con la mano. Ringrazia, sono venuti a ringraziarlo per la pulizia, per aver trasformato l’organo in un mocassino, sono decine, hanno zaini e pantaloni corti; hanno telecamere, fede e guide di Parigi.
Marcel li guarda e non aggiunge niente. Stanno tutti seduti sui banchi e sulle sedie, tutti ordinati eppure così sparsi ovunque.
Non hanno spostato niente, Marcel non ha ancora rimesso a posto. Un ordine diverso esiste in basso, non guardano tutti in direzione dell’altare, le sedie sono disposte in ogni direzione, il naso di ciascuno ha puntato dove ha voluto lui, è stato fino ad un momento prima, poi tutti i nasi si sono alzati verso il cielo, il paradiso è un posto che si annusa.
L’applauso non si esaurisce, gli ospiti schiacciano la luce tra le mani, schiacciano la polvere e la luce, fanno una poltiglia nuova, basterebbe solo un po’ di fiato, chissà che creatura nascerebbe, di placenta Marcel ne ha in abbondanza.
Applaudono, sono seduti come ha voluto lui, come ha voluto il caso, ma in chiesa il caso non esiste, tutto nasce dalla provvidenza, sono come l’esercito, rotte le fila, ognuno cerca di salvarsi, in chiesa di solito è più facile che altrove.
Marcel si passa il panno sulla fronte, l’applauso continua, poi si ritira, la folla tace, costretta tra le sedie messe a caso.
Ci sono occhiali da sole e flash. Marcel preme ancora il tasto PLAY. Gira di nuovo il disco, alza un poco lo sgabello. Poi riparte e suona, suona, suona.
Fuori il sole è fermo. Ogni cosa gli pare familiare.
[THOIRY, 1 0 MAGGIO 2005]