Pregiudizio nero_Francis Matheka Muinde
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura degli alunni della 5° A Meccanica – ITIS Matera:
Bosco, Candeloro, Canterino, Carbone, Caruso, Ciacciulli, Dicanio, Ferrara,
Giacoia, Giordano, Guastamacchia, Lamagna, Passiatore, Pentasuglia, Zaccaro
PARTE PRIMA
Cathy e Lily
“Rosso… giallo… verde… sì. Cathy dammi la mano, dobbiamo attraversare
Street Honour’s Avenue prima che chiudano il Casinò. Ho già pagato per
due giochi, il tuo e il mio”. Lui allungò la mano come se stringesse una
mano immaginaria. Feci cadere un altro piatto, totalmente trasportato
dalla ‘reverie’ di mio zio Muisyo. Da quando era tornato dalla città, zio
Muisyo continuava a sognare anche di giorno. Dal soggiorno riuscii a intravedere
sua moglie Laviero girarsi verso di me al rumore delle stoviglie.
Non le ci volle neanche un minuto per voltarsi ad ascoltare in direzione
di suo marito. Insieme ci avvicinammo al letto completamente
sconvolti. Lui allungò di nuovo la mano e continuò a parlare alla sua Cathy
immaginaria.
“Pensavo che Lily fosse calda ieri notte, ma la tua mano è già un forno.
Cathy, cara, non pensi che io abbia la magia di infuocarti e denudarti? Dai,
Cathy! Cathy! Cathy! Perchè mi lasci? Perchè chiudi la porta Cathy …
Cathy …”. Si risvegliò con un sussulto, il suo volto grottesco ricoperto
di sudore.
Ritornò in sé. Noi lo guardammo in silenzio. L’unico rumore era lo scricchiolio
del letto e il cuore di Laviero il cui battito si poteva sentire dalla
porta della stanza da letto. Lui si agitò e si girò. Sputò senza muoversi e
la saliva gli scivolò lungo la mascella pronunciata, in una densa cascata
verde chiaro. Laviero gli sbottonò i primi bottoni della camicia e asciu-
gò la saliva dal suo volto. La aiutai a risistemargli la testa sul cuscino. “Che
Dio lo benedica”, mormorò Laviero mentre stringeva il rosario e le lacrime
le scendevano copiose sulle guance rotonde.
Non potevo sopportare di vederla piangere di fronte a suo marito, così andai
nel soggiorno e portai Katile, mia cugina, fuori di casa. Pensavo a come
fare per nasconderle la verità. Le dissi che la nonna la stava chiamando
per raccontarle una bella storia. Aveva solo tre anni. Non aveva mai dato
l’impressione di aver intuito qualcosa poiché aveva trascorso pochissimo
tempo con suo padre. Una cosa, comunque, si capiva con certezza
dai suoi occhi: sapeva che suo padre era gravemente ammalato e una volta
o l’altra avrebbe chiesto alla nonna chi fossero Cathy e Lily. Era una
bambina che affascinava tutti per la sua percezione enigmatica di ciò che
la circondava. Perlopiù aveva preso da sua madre. Era una cosa che non
aveva mai colpito il nonno Mulonzi.
Sulla via del ritorno pensai al tempo in cui zio Muisyo era giovane ed io
ero ancora un bambino. Alle scuole superiori era un giovane forte dalle
spalle larghe. Era l’attrazione di tutte le ragazze del villaggio ma lui non
mostrava interesse per nessuna di loro. Continuò così finché alla fine sposò
Laviero, che apparteneva ad un’altra tribù. Questa scelta non fu accettata
dai membri della sua famiglia, soprattutto da suo padre e suo nonno. Avevo
camminato tanto che non mi ero neanche accorto di aver già aperto la
porta della capanna di Laviero. Ero nel soggiorno. Sulla parete c’era una
foto che raccontava una storia. C’era lui, con un ampio sorriso, guancia
a guancia con sua moglie Laviero. Anche lei sorrideva; un sorriso talmente
assorto nelle gioie del matrimonio da non riuscire a vedere il presente.
Ma quei sorrisi erano legati al momento ed io non avevo crucci. Oltre a
questo stato di felicità, avevano altri due scopi: creare storie e, ovviamente,
sigillare memorie. Questo era il passato. Ma era un passato che Cathy e
Lily avevano vissuto, o almeno il tempo passato che cancellava quello della
foto.
Sbirciai attraverso la porta della stanza da letto e vidi che zio Muisyo respirava
ancora con difficoltà. Il suo petto si sollevava e si abbassava in
respiri corti. Ciò che vidi quando entrai mi sconvolse. Stringeva la mano
di sua moglie tirandola per farla avvicinare a sé. Sembrava che avesse recuperato
un po’ le forze sebbene tutto il suo corpo tremasse tanto che chiunque
da fuori poteva sentire scricchiolare il letto. Lo guardai dritto negli
occhi. Il suo volto ebbe un guizzo di vita, ammesso che potesse servire.
Cercò di sorridere, ma quel sorriso scivolò via dai suoi occhi infossati per
congelarsi da qualche parte sulla sommità degli zigomi. Non ero neanche
entrato nella stanza, che zio Muisyo insistette per prendere anche la
mia mano. Ero sconvolto ed esitai. Una lacrima bagnava la guancia sinistra
di Laviero. Io la guardai con compassione e lo sguardo che vidi nei
suoi occhi mi spinse a dargli la mano. Lui avvicinò le nostre mani congiungendole
sul suo petto. Sapevo che stava per dire le sue ultime parole
ma respinsi quel pensiero in un angolo remoto della mia mente. Laviero
stava in piedi come una statua, con le gambe vicino al bordo freddo
del letto. Sapevo che aveva in mente i miei stessi pensieri, ma anche
lei cercava con ogni sforzo di nasconderli. Muisyo aprì gli occhi, li chiuse
e li riaprì, lasciando socchiuso l’occhio destro. Si girò verso di noi e si
schiarì la voce.
“E’ umiliante e doloroso sapere di morire odiato da altri e anche morire
sapendo cosa ti sta uccidendo. Ma la coscienza di morire con principi sani
e inflessibili, senza piegarsi sotto il vento della tradizione e dei tabù, è
fonte di una sorta di doloroso piacere”.
Deglutì a fatica e continuò:
“Non ho mai condiviso le tradizioni di mio padre e di mio nonno prima
che questi morisse. Sapevo che il mondo stava cambiando e che, se noi
volevamo avere successo, dovevamo cambiare con lui. Per esempio questo
è il motivo per cui io non ho sposato neanche tua madre quando tuo
padre è morto”.
Disse ciò girandosi verso di me e poi aggiunse: “Secondo la tradizione
avrei dovuto dormire con lei, ma rifiutai. Loro dissero che il mio atteggiamento
era inutile e, che mi piacesse o no, dovevo farlo nell’interesse
della famiglia. Sapevo che non potevano uccidermi per questo e conoscevo
la mia situazione”.
Lui sembrava calmo forse perché questo era un addio. Laviero stava
ascoltando attentamente, ammutolita. Le lacrime sul suo viso si erano
asciugate.
“E tu, Laviero, mia moglie, voglio che tu segua le mie orme. Quando ti
ho sposata, loro non erano felici, semplicemente perché dicevano che se-
condo la tradizione non era possibile il matrimonio con membri di un’altra
tribù. Ma io ti amavo tanto. Ne ho abbastanza, ora. Voglio che dimostri
loro che appartenere ad un’altra tribù non ti riduce ad un tappetino
che possa essere calpestato”.
Laviero tremava visibilmente e io le stringevo le spalle per evitare che
svenisse. Un torrente di lacrime bagnava ora la sua camicia. Allo stesso
tempo combattevo per trattenere le mie lacrime.
“Per piacere non permettere loro di farti dormire con mio fratello Muli
perché questo è ciò che comporta la tradizione. Non sposarti con lui.
Non voglio che nessuno ti sposi. Ognuno può fare quello che vuole,
ma tu non lo permettere assolutamente. Muthini qui presente può aiutarti
ad allevare Katile. Lui è stato davvero buono con noi e io sapevo
da quando era bambino che era l’unico che poteva comprendere la
mia situazione”.
Ora le lacrime brillavano nei miei occhi e io vedevo attraverso i miei
occhi annebbiati Laviero che piangeva. Il respiro di zio Muisyo si affievoliva
rapidamente mentre sembrava che cercasse di finire ciò che
stava dicendo.
“Non sono mai stato dalla parte del torto con voi due, non per davvero,
eppure immagino che potreste dire che sono quel tipo di persona che si
suppone voi temiate. Ecco perché temo anche per la nostra famiglia. Quando
loro comprenderanno da cosa sto cercando di salvarli, potranno dare
un sospiro di sollievo. Io non voglio che Cathy e Lily uccidano altri
membri della nostra famiglia. Ora credo che tu, Muthini, possa uscire.
C’è qualcosa che voglio dire a mia moglie”.
Allentò la presa sulla mia mano ed io andai fuori asciugandomi le lacrime.
Non andai proprio fuori, rimasi nel soggiorno perché temevo di
perdere qualcosa di importante. Sbirciai attraverso la porta. Lui si rischiarò
di nuovo la voce. Ora stava guardando Laviero con uno sguardo diverso.
L’agitazione era finita ed era stata rimpiazzata dalla tristezza. Il letto
scricchiolava forte.
“Laviero, moglie mia, io me ne sto andando, ma non me ne andrò mai
per sempre. Guarderò sempre te e nostra figlia dal mondo spirituale. Per
favore, prenditi cura di nostra figlia. Educala come abbiamo sempre desiderato.
Dille che, anche se non mi ha avuto con sé per molto tempo,
come altri bambini hanno i loro padri, io la guarderò sempre”. Laviero
ascoltava tra i singhiozzi.
“Mi sono reso conto di aver sognato Cathy e Lily. Non ti dirò chi sono
perché se ne sono già andate. Non so dove siano andate. Forse hanno lanciato
i loro coltelli verso di te, ma tu abbi coraggio. Un giorno le conoscerai
e spero che capirai. So che loro sono lì fuori. Vorranno usare un
pregiudizio nero per spazzare via la famiglia ma tu non permetterlo perché
sei l’unica persona che possono usare. Saluta la nostra bambina. Addio”.
Disse l’ultima frase quasi senza fiato. Vidi la sua mano cadere improvvisamente
e i suoi occhi diventare freddi. Capii che era morto.
Prima che io aprissi la porta della stanza da letto, ci fu un urlo agghiacciante
che quasi scosse le pareti della capanna. Avevo ragione, Laviero
mi disse che era morto e si precipitò fuori dalla stanza verso il soggiorno
dove si sedette dondolandosi mentre piangeva. Il suo urlo aveva
attirato l’attenzione dei vicini, membri della famiglia, che erano
venuti ad affollarsi sia fuori che dentro la capanna. Laviero fu portata
in un’altra capanna e ai bambini venne impedito di avvicinarsi. La nonna
piangeva senza controllo. Il cielo sa perché stesse piangendo, in
quanto io pensavo che lei odiasse il figlio allo stesso modo in cui lo odiava
il nonno. Ma era un figlio che lei aveva perso. Due ore più tardi arrivò
il nonno e, come se la morte fosse un gioco di bambini, non dimostrò
il minimo turbamento. Entrò nella capanna e uscì velocemente come
se dentro ci fosse semplicemente una bambola con le gambe di
stoffa bruciate. Odiavo quell’uomo e non ero stupito del suo comportamento.
I primi tre giorni di lutto erano passati. Mancava solo un giorno al funerale.
Questo era il giorno della tradizionale cerimonia funebre. Tutte
le ragazze dovevano dichiarare se erano nel periodo mestruale perché
si sarebbe tenuta una cerimonia di purificazione che coinvolgeva uomini
e sesso. Opporsi era un tabù perché si credeva che, se qualcuna si
fosse rifiutata, sarebbe poi stata maledetta dagli antenati. Tutte le ragazze
non dovevano essere presenti al funerale ed avrebbero dovuto rimanere
chiuse in una capanna che, durante i funerali, veniva chiamata semplicemente
“capanna delle donne”. Dopo il funerale tutte loro dovevano
rimanere in casa per qualche tempo. Al culmine di tutto c’era la par-
te finale durante la quale si supponeva che la vedova dormisse con il
fratello più prossimo del marito defunto. Ciò sarebbe dovuto avvenire da
qualche parte nella foresta.
Zio Muli sembrava felice di avere finalmente l’occasione di dormire con
questa donna. Sembrava che l’avesse desiderato ardentemente ma era imbarazzato.
Laviero rifiutò di fare tutto questo. Lei disse perfino che era
pronta a far male a chiunque la costringesse a fare qualcosa e così alla fine
tutti, sia i familiari che i vicini, seppero che lei era maledetta.
“Io non voglio disobbedire a mio marito. Anche se è morto è ancora
mio marito. Non sposerò nessuno”, lei asseriva raggiante con forza
e coraggio.
“Io non compro niente da una maledetta moglie di un maledetto figlio del
mondo. Aspetta e vedrai, tu non resterai qui dopo il funerale”. Il nonno
fracassò sul terreno il bastone che usava per camminare e se ne andò via
furioso.
Mancavano solo alcune ore al funerale.
PARTE SECONDA
Rose color rosso sangue
Bene, sembrava che non fosse un funerale. Piccoli gruppi di persone, per
lo più anziani, stavano in piedi al riparo sotto l’esile ombra delle capanne
e degli alberi. Poche donne di mezza età punteggiavano il compound4
oziando. Altre dentro casa ridevano e chiacchieravano. Non c’erano bambini.
Secondo la tradizione, ai bambini non era consentito assistere ai funerali.
Si credeva che il morto li avrebbe perseguitati nel sonno. C’era quel
silenzio opprimente che caratterizza ogni funerale durante la vigilia, fatta
eccezione per la confusione proveniente dalla capanna delle donne e
di alcune urla che, ad intervalli, interrompevano la quiete.
Torniamo alla gente sotto l’ombra. L’organizzatore era un uomo alto e magro
sulla quarantina. Ora chiamava la gente per farla avvicinare alla tomba.
Notai che, per motivi noti al nonno Mulonzi, questa tomba non era tra
le altre tombe bensì fuori dal cimitero familiare. C’era una bara collocata
su due sgabelli traballanti. Era una bara semplice fatta col legno dei pini
locali dal falegname locale, Kinyoli. Era adornata con un pezzo bian-
co di rete che sembrava più una zanzariera che una rete adatta a quello
scopo. Kinyoli aveva solo diciassette anni e la gente si congratulava con
lui per il suo talento giovanile, tutti tranne me, forse. L’inesperienza e
la prolungata infanzia da costruttore di giocattoli era evidente su tutta
la bara. Si vedevano i chiodi piegati sul legno e dei piccoli segni circolari
erano visibili attraverso la rete. Con la coda dell’occhio, vidi Kinyoli
fingere di essere addolorato e sforzarsi prodigiosamente di reprimere
un sorriso.
Persino un bambino analfabeta che abitasse nel cuore del villaggio di Kimoo
e non avesse mai sentito parlare di un quadrato o di un rombo avrebbe
notato che questa tomba era senza forma. Bene, avevo tratto le mie conclusioni.
Probabilmente non era una fossa per seppellire Muisyo il figlio
di Mulonzi ma per sbarazzarsi del suo maledetto figliol prodigo che gli
aveva disobbedito insieme alla moglie cenciosa e agli innumerevoli nipoti.
In questa situazione una cosa era certa; la dicotomia tra il seppellire
e lo sbarazzarsi. L’atto che si stava compiendo era quest’ultimo ma,
ancora una volta, il motivo era noto soltanto ai tristi occhi di quell’uomo,
Mulonzi. Mi piaceva chiamarlo con il suo nome nei miei pensieri. Non
ci furono spargimenti di lacrime, per due ragioni forse. Primo, non c’era
niente di commovente e, secondo, non c’erano lacrime in fondo a quegli
occhi pretenziosi. C’erano alcune lacrime, comunque: quelle invisibili della
donna che piangeva nella capanna delle donne e quelle che lentamente
inzuppavano le mie ciglia. Almeno due persone, una minoranza, che
avevano il coraggio di guardare un uomo maledetto mentre moriva nel
proprio letto.
Tuttavia, c’erano alcune cose che caratterizzano qualunque funerale in questo
pianeta, sia di un figlio maledetto che di uno benedetto. C’erano canti
funebri. Questi non venivano cantati con dolore ma con una punta di
vigore e allegria. Le voci salivano e scendevano di tono nel tentativo di
placare gli animi. Ci fu una breve omelia del predicatore che mi sembrò
ancora peggio. Il signor Mavunye (uno con una pancia enorme) era un
pastore della chiesa locale che celebrava quasi tutti i funerali a Kimoo.
Come al solito indossava una camicia nera con un colletto arrotondato,
che aveva una parte di colore bianco, esposta sul davanti vicino al primo
bottone della camicia. Era nella massima tenuta religiosa. Qualcosa era
insolito in lui. Non aveva la Bibbia. Per quanto somigliasse ad un predicatore,
non parlava mai come se lo fosse. Non aveva senso portare una
Bibbia, in un maledetto funerale di un uomo maledetto perchè il libro
sacro non si sarebbe mai aperto. Nel mezzo dell’omelia io guardai in
direzione di Kinyoli e vidi che mentre sonnecchiava andava a toccare
l’uomo che stava in piedi di fronte a lui. Feci un respiro di sollievo quando
il pastore stava per concludere, ma la sua ultima affermazione mi scosse
e suscitò l’agitazione della folla. Le grida di Laviero soffocarono ogni
rumore della folla. Non era una affermazione biblica. No, il libro era
troppo sacro per contenerla, altrimenti non sarebbe stato chiamato libro
sacro.
“Sei stato creato dalla polvere benedetta ma ritornerai polvere maledetta.
Spero che tu stia bene mentre riposi all’inferno”.
“O Dio!” restai a bocca aperta e mi asciugai le lacrime con il dorso della
mano destra. Ci furono grida ancora più forti dalla capanna delle donne.
Per la prima volta vidi lacrime vere scorrere sulle guance di persone veramente
addolorate, persino di Kinyoli che fu svegliato dalla confusione.
Le donne erano più isteriche degli uomini. Io provai un doloroso sollievo
perchè quello che vedevo era una scena funebre e non un melodramma.
Alzai la mano per asciugare le lacrime per essere sicuro che tutto ciò
stesse realmente accadendo. I singhiozzi aumentavano e le lacrime bagnavano
tutti i volti ad eccezione di quello di Mulonzi, naturalmente, che
era asciutto come la pianta dei suoi piedi screpolati. Sentii una fitta di odio
attraversare il mio corpo. Mi venne voglia di colpirlo ma ebbi la sensazione
che in questo modo avrei solo peggiorato le cose. Laviero ora ululava.
Anche la nonna piangeva incontrollatamente. Il signor “pancia contenta”
amoreggiava ancora con il suo stomaco di fronte alla folla come
se avesse semplicemente ordinato dell’ugali5 dalla cucina della chiesa.
Come se non fosse successo niente, il pastore Mavunye strinse la mano
del nonno e ritornò al suo posto. Il nonno diede istruzioni all’organizzatore
perché continuasse. La situazione si calmò un po’ e anche le grida di
Laviero si placarono. L’organizzatore annunciò che era il momento di far
ritornare la polvere alla polvere. Mentre i giovani ricoprivano la fossa di
terra con le pale, le giovani donne avvicinavano le corone: ce n’erano di
ogni tipo, di colori e forme diverse, forse erano l’unica cosa bella con cui
dare l’ultimo saluto a zio Muisyo. Non vennero pronunciati discorsi di
elogio ed io ne fui contento perché raccontano un sacco di bugie.
Era il momento di deporre le corone ai piedi del piccolo cumulo di terra.
Continuai a confortarmi dicendo a me stesso che non erano corone ma
rose. Rose per nascondere l’odio e la vera santità che era esistita tra il morto
e i vivi, tale che una persona come la nonna potesse sussurrare ‘Riposa
in pace, figlio’ nel deporle. Quando i parenti finirono con le loro corone,
fu il momento di deporre quella della chiesa. Il pastore Mavunye
quasi inciampò mentre correva a deporre la corona a forma di croce da
parte della chiesa.
Ah, dimenticavo! Ne era rimasta una rotonda: l’organizzatore annunciò
che era quella per il nonno. Il cielo sa perché il suo volto fosse segnato
dalla tristezza più che dal dolore mentre tutti i presenti erano prostrati
dalla sofferenza. Ma io immaginavo che dietro quegli occhi si nascondesse
qualcosa: dietro quegli occhi c’era del veleno che aveva la
forza di dissolvere tutte le lacrime e ogni altro liquido contenuto nel volto.
Prima di tornare al suo posto disse che aveva qualcosa da dire. Sapevo
che era giunto il momento di dare sfogo a tutto quel veleno perché
mancava soltanto la preghiera finale. La gente stava già andando
via, ad eccezione di Kinyoli che stava immobile dietro il predicatore,
aspettando la propria paga. Il nonno incominciò: “Ringrazio tutti per la
vostra presenza. Come ha detto il predicatore la polvere maledetta è tornata
polvere”. Fece una pausa. Sembrava che il veleno gli avesse seccato
tutta la saliva perché le sue parole erano aride. Continuò: “Sebbene
fosse mio figlio, io non l’ho mai rispettato a partire dal momento in
cui lui ha disobbedito a mio padre e credo che mio padre lo abbia maledetto
prima di morire. Non è stato più mio figlio da quando ha sposato
quella strega che è in casa. Un uomo controllato da una donna non
è un uomo ecco perché io credo che anche lei sia maledetta…”, ora stava
piangendo. Ma prima che potesse continuare venne bloccato da un
grido acuto proveniente dalla capanna delle donne.
No, proveniva dalla folla. Dopo neanche un minuto apparve Laviero che
si faceva strada tra la folla nascondendo qualcosa sotto la camicia. Nessuno
cercò di prenderla, tutti avevano paura di toccare una strega. Soprattutto
una strega maledetta. Quando raggiunse la tomba, Laviero
guardò Mulonzi a lungo e si girò in direzione delle corone. Mormorò
qualche cosa in un leggero sussurro, poi guardò di nuovo Mulonzi ancora
più a lungo. C’era un silenzio assoluto mentre gli abitanti del villaggio
osservavano quel dramma addirittura con ansia. Mavunye cercò
di dire qualcosa, ma un’occhiata di Laviero gli ricordò che avrebbe dovuto
tornare al suo posto per continuare ad occuparsi della sua pancia.
Lei ritornò da Mulonzi, che sembrava aver ripreso coraggio. Io godevo
di ogni singolo momento e riuscivo a leggere lo sguardo di Mulonzi.
Lui non poteva avere paura di una semplice donna, soprattutto dopo aver
sputato il suo veleno, ma ancora non si capiva cosa lei portasse sotto la
camicia.
Poi accadde qualcosa di terribile. L’ansia di voler sapere cosa lei nascondesse
si trasformò in dolore e panico. Con un ultimo urlo che fece
quasi svenire i presenti, lei tolse la mano fuori dalla camicia. Poi la diresse
verso il torace di Mulonzi che cadde con un tonfo. E ahimè! Era
un pugnale. Era troppo tardi per fermarla. Tutto era avvenuto in un secondo.
Lei aveva pugnalato Mulonzi nel petto dritto al cuore. Il sangue
fluiva copioso dal torace del nonno mentre il suo respiro si affievoliva
rapidamente. Non c’erano lacrime, la gente era troppo sconvolta per piangere.
Si vide la nonna giacere sul terreno. L’eco del suo grido era stata
soffocata dalle grida della folla. La gente cercava di fare del proprio meglio
per fermare l’emorragia e salvargli la vita. Allo stesso tempo gli uomini
si erano fatti coraggio al momento sbagliato e stavano legando Laviero
ad un albero.
Molte altre cose stavano accadendo allo stesso tempo. Il pastore Mavunye
stava chiamando la polizia. Contemporaneamente io pensavo a
quell’atto di puro coraggio, provocato dall’odio. Ero consapevole di essere
l’unico a pensare che quest’uomo meritasse ciò. Cercai a fatica di
non dimostrarlo perché sapevo che questi pensieri potevano essere letali
nel caso in cui qualcuno sapesse leggere nella mente della gente.
Tutte le corone, prive di rose, erano inzuppate di sangue. Non si riuscivano
a distinguere i colori originari. Erano tutte di colore rosso sangue.
Quando lei mi vide, scoppiò in lacrime e io con lei. Con un movimento
della testa, che era l’unica parte mobile del suo corpo, mi fece cenno
di avvicinarmi.
“Per piacere, prenditi cura di Katile. Tu sei l’unico che mi vuole bene, per
favore. Spiegale tutto così che quando crescerà potrà capire. Non penso
che ritornerò. Nel caso in cui io trascorra del tempo in prigione prima di
essere impiccata, ti prego di non portarla lì. Questo aumenterebbe solo il
mio dolore; comunque ora mi sento sollevata. Per piacere non provare a
venire al mio processo perché in prigione io mi sentirò meglio”. Non riuscii
a controllarmi e singhiozzai sonoramente. Lei continuò con finto coraggio:
“Fai anche in modo che lei non venga a sapere niente di questa
scena. Io spero che tu capirai, perché non ho avuto scelta. Per favore dì a
Katile che la saluto”, concluse e guardò in un’altra direzione. Con grande
sforzo cercai di parlare e dissi: “Io farò come tu dici Laviero, buona
fortuna”.
Le mie gambe erano blocchi di pietra ma mi sforzai di muoverle e camminai
senza una direzione precisa; più tardi mi resi conto che stavo andando
verso la capanna di mia nonna. Non riuscivo più a sopportare la
vista di Laviero e non avrei avuto il coraggio di guardare la polizia che
la spingeva nel retro della landrover; dalla finestra della capanna di mia
nonna vidi soltanto una nuvola di polvere che scompariva in lontananza.
Il nonno venne trasportato in ospedale dalla polizia e qualche ora più tardi
arrivò la notizia che era stato dichiarato morto e che il suo corpo era
stato portato all’obitorio del distretto. La nonna, che non aveva ripreso
conoscenza, era ancora nel suo letto circondata dai suoi nipoti e dalle mogli
dei suoi figli.
Tutto il villaggio ritornò a compiere i riti funebri, ancora una volta nella
stessa famiglia.
PARTE TERZA
Rivelazioni
Dopo la sepoltura del nonno ci trasferimmo dalla capanna di Laviero a
quella di nostra nonna. Dopo un po’ di tempo ci fu una cerimonia di purificazione
e alla capanna di Laviero venne dato fuoco. Noi tre ora vivevamo
nella capanna della nonna. Il tempo scorreva rapidamente. Io avevo
diciassette anni e Katile quattro. La nonna era così buona con noi da
chiamarci persino suoi figli. La maggior parte del tempo la si poteva tro-
vare nello shamba6 che insegnava a Katile come raccogliere fagioli e piselli.
Io mi resi conto che nostra nonna non era poi così cattiva, solo che
prima lei si era comportata così a causa delle pressioni di suo marito. Era
una rivelazione talmente piacevole per noi, che avevamo addirittura cambiato
il nostro atteggiamento nei suoi confronti: adesso lei era per noi una
“mamma” amorevole. La sua salute non era buona, ma lei continuava a
dirci che non eravamo noi quelli che avrebbero dovuto prendersi cura della
sua salute.
Passarono tre anni e la salute della nonna si andava deteriorando in maniera
preoccupante. Un giorno, mentre io ero nello shamba, sentii Katile
che mi chiamava incessantemente. Arrivai di corsa per vedere cosa stesse
accadendo. Quando raggiunsi il compound, feci pochi passi verso la
porta e mi fermai ad origliare cosa stesse succedendo nella capanna.
“Muthini ooka muoie nina muathima. Naku athimika. Nawoora Mwenyu
ui… uimwi… nina… mua… ninamuekea”. Questo è ciò che sentii prima
di precipitarmi dentro, che significava “quando viene Muthini dagli
la mia benedizione. E la mia benedizione va anche a te. Quando vedrai
tua madre dille che io l’ho perdonata”.
Entrando vidi che lei teneva la mano di Katile, nello stesso modo in cui
zio Muisyo aveva tenuto la mia. Ma prima che io li raggiungessi, vidi la
sua mano cadere. Poi vidi la sua testa cadere da un lato: era morta. Katile
mi disse quello che lei le aveva detto, ma io lo avevo sentito. Noi non
gridammo perché lei ci aveva già preparati a tutto questo, ma non riuscimmo
a contenere le nostre lacrime.
Piangemmo per lei per tre giorni col resto dei parenti. Il suo funerale fu
caratterizzato da tutti i riti tradizionali. Ci fu il suonare incessante del tamburo
accompagnato dalla lenta marcia funebre. Venne macellato un toro
e, al culmine di tutto, ci furono gli strani riti della sepoltura notturna. Venne
sepolta proprio accanto a suo marito, così come lei stessa aveva richiesto.
Spiegai a Katile quello che era accaduto in qualche luogo dietro alla capanna
poiché, secondo la tradizione, a lei non era consentito prendere parte
al funerale. A tutte le donne della famiglia, in realtà. Tranne che a Laviero,
pensai tra me e me: lei aveva avuto il fegato di rompere una porta
e partecipare ad un funerale, pensai di nuovo affascinato.
La morte della nonna fu un grave colpo per noi. Nessuno dei nostri nu-
merosi zii volle stare con noi. Zio Muli disse che lui aveva già una famiglia
numerosa. Zio Mulosi disse che noi non appartenevamo più alla famiglia.
Zio Katero disse che lui non poteva farsi carico di una maledizione
con la sua famiglia. Gli altri zii aggiunsero molte altre scuse.
Come qualsiasi altro villaggio, Kimoo non era il genere di luogo in cui le
dicerie erano taciute a lungo. Il pettegolezzo infatti era la norma nel villaggio
e una buona fonte di dicerie. Molte di queste riguardanti la nostra
famiglia si diffondevano rapidamente in tutto il villaggio. Si diceva che
l’atto di Laviero era stato del tutto devastante e avrebbe perseguitato il
resto della famiglia. Si disse addirittura che Laviero, rifiutando la tradizione
e uccidendo il suocero avesse aggravato la salute già precaria di sua
suocera. Questo implicava che Laviero fosse responsabile anche della sua
morte. Un giorno Katile tornò a casa piangendo perché le era stato detto
che era maledetta e che sua madre era stata impiccata da suo cugino e disse
che non sarebbe più tornata a scuola. Lei frequentava la seconda classe
e riusciva a capire tutta la situazione.
Questo fu davvero insopportabile per noi. Prendemmo tutti i nostri bagagli
e chiudemmo la capanna di nostra nonna per non ritornarvi mai più.
Da Kimoo andammo a vivere con mia mamma nel vicino villaggio di Ulaini.
Mia madre fu molto contenta di vederci. Quella sera macellò il gallo
Kasewe e cucinò Muthokoi per darci il benvenuto. Il padre di mia madre
le aveva dato uno shamba molto grande tutto per lei. La sua casa era fatta
di tre capanne e un capannone basso e molti polli dormivano in cucina.
Da quando lei aveva lasciato mio padre non si era risposata ed era felice
che ora la sua casa avesse finalmente dei bambini. Io era il suo unico
figlio. Sebbene non lontano da Kimoo, il villaggio di Ulaini era una
contraddizione sociale. Le persone erano più aperte e cordiali. Katile mi
disse che i bambini a scuola erano molto amichevoli e tutti contentissimi
di avere una nuova amica. Io sentivo la mancanza di pochissime persone
di Kimoo. E anche Katile. I bambini della scuola elementare di Kimoo
avevano addirittura iniziato a darle dei soprannomi. I suoi cugini erano i
più offensivi di tutti. Ogni volta che faceva bene qualcosa, erano tutti gelosi
di lei.
Una delle persone di cui noi sentivamo la mancanza era nostra nonna. Ci
mancavano le storie che lei ci raccontava. Mi rendevo anche conto che
mi mancava il mio letto nella capanna di mia nonna. Ma erano solo ricordi.
Ricordi che non potevano essere recuperati. Il presente era lì dove
noi eravamo.
Laviero aveva trascorso cinque anni nella prigione King’ole Women’s Maximum
e nessuno era mai andato a trovarla. Io avevo scritto molte lettere
ma nessuna aveva ottenuto risposta. Mi tranquillizzavo pensando: “Lei
sta ancora guarendo dal passato, non è stata impiccata”. Katile continuava
a chiedermi se sarebbe mai ritornata e, cercando di scegliere bene la
risposta, io le dicevo che un giorno sarebbe tornata. Non volli mai che capisse
che io potessi pensare qualcosa di diverso. Ma lo pensavo sempre.
Era ancora viva? Perché non si era fatta sentire per ben cinque anni? Quelle
erano le domande che io cercavo di nasconderle.
Un giorno mi accorsi che era distratta mentre faceva i compiti. Le domandai
se stava bene, ma invece di rispondere lei mi fece una domanda.
“Mamma ha detto il giorno in cui tornerà?”.
Mentre riflettevo e mi sforzavo di non versare neanche una lacrima, mi
ricordai di ciò che Laviero mi aveva detto prima di essere mandata in prigione:
“Non penso che ritornerò”. Quelle parole continuavano a ritornarmi
in mente ogni qualvolta mi faceva domande su sua madre. Comunque,
dovevo risponderle. Io dovevo farla continuare a sperare per il meglio.
“No, ma un giorno tornerà a casa per stare con noi. Ora, hai finito i compiti?”,
provai a cambiare argomento. Quando alzai gli occhi mi resi conto
che le sue lacrime scorrevano liberamente bagnandole i libri. Andai a
sedermi vicino a lei e le asciugai le lacrime. Mia madre si unì a noi e le
assicurò che tutto sarebbe andato per il meglio e presto lei si sarebbe abituata.
Il giovedì era il giorno in cui mamma andava al mercato, perciò non c’era
alcun motivo perchè lei venisse a casa tanto presto, anche prima che
Katile tornasse da scuola. Senza esitazione mia madre mi diede una lettera
indirizzata a me. Il mittente aveva usato l’indirizzo di Kimoo. Senza
dubbio non aveva idea che mi fossi trasferito ad Ulaini. Mia madre credeva
che fosse di Laviero e perciò era tornata prima a casa.
“Deve essere lei, conosco molto bene le sue ‘m’ e le sue ‘s’”, disse. Le
mie dita tremavano ed il cuore mi batteva forte. Aveva ragione, era di Laviero.
Strappai la busta e aprii la lettera piegata. Cadde qualcosa: era un
bigliettino di carta con una piccola poesia dedicata a Katile. Lo misi da
parte e insieme a mamma leggemmo la lettera, che diceva così:
Caro Muthini, figlio mio,
Come stai? Come sta la mia piccola Katile? Si ricorda davvero di me?
Spero di sì. Cinque anni sono un tempo breve. Ora lei ha otto anni e scommetto
che è una ragazzina alta. Per piacere, ricordale sempre che ha i
miei occhi e il mio animo. E tu? Hai venti anni e sei un adulto, scommetto.
Per quanto mi riguarda, non sono cambiata molto. Sto bene qui. La vita
non è tanto bella ma è meglio della capanna delle donne. La nonna è ancora
arrabbiata con me? Porgile i miei saluti; non è stata molto buona
nei miei confronti, ma comunque è stata una persona che riuscivo a capire
quasi all’istante.
Mi hanno condannato a quindici anni per omicidio. Ringrazio Dio per
l’abolizione della pena di morte. Io non ho molto da dirti perché con dieci
anni di prigione davanti a me penso di avere molto tempo per dirti molte
cose.
Per piacere, non ti preoccupare di venire a trovarmi perché sto abbastanza
bene da sola. Qui si prendono cura di noi. Spero che mi capirai. Di’ a
Katile che io la penso ancora. Dalle la poesia e dille che un giorno sarò
lì per lei. Ciao, per ora.
La tua affezionata mamma,
- Laviero
“Per favore, fai in modo che la bambina non veda la lettera”, mi disse
mia madre, sospirando forte. Almeno Laviero era viva e noi eravamo
sollevati.
Quando Katile arrivò da scuola io le dissi la buona notizia, che sua madre
aveva scritto dicendo che un giorno sarebbe stata lì per vederla. Sorrideva
con eccitazione quando io le diedi la poesia e la leggemmo insieme.
Per Katile, mio amore.
Riesco a sentire la tua voce dal deserto.
La voce che canta di affetto
Non riesco più a guardare lontano
Per vedere i tuoi occhi bisognosi di amore.
Un giorno verrà.
Un semplice giorno con l’alba e il tramonto
E le mie orecchie saranno lì perché tu possa ascoltare
E i miei occhi saranno lì perché tu possa vedere.
Non ce la facevo ad aspettare e quella sera stessa le scrissi una lettera di
risposta.
Cara mamma Laviero,
Sono stato molto contento di avere finalmente ricevuto la tua lettera e
di sapere che sei viva. Io sto bene. Katile ha otto anni, frequenta la terza
classe e anche lei sta bene. Ho capito dall’indirizzo che hai scritto
che tu pensi ancora che viviamo a Kimoo. Ci siamo trasferiti da Kimoo
a Ulaini dove viviamo con mia madre. Lei è molto felice con noi e ti saluta.
Katile sostiene che si ricorda ancora di te e io le ho detto che ha
ragione.
Mi dispiace di informarti che un anno fa la nonna è morta. Da quando
sei andata via noi siamo stati con lei. Si è presa cura di noi molto bene.
Prima di morire, ha detto a Katile di riferirti che ti aveva perdonata.
Dopo la sua morte, nessun altro è stato disposto a vivere con noi perciò
adesso stiamo con mamma e siamo felici. Katile è l’unica sorella
che ho.
Sappi, infine, che noi preghiamo per te e ti vogliamo bene. Baci da Katile
e mamma. Per favore, continua a mandarci tue notizie. Ti saluto.
Il tuo affezionato figlio,
Muthini
Eravamo talmente preoccupati per il nostro destino che non ci rendemmo
conto che anche nel mondo esterno stava accadendo qualcosa. Cinque
anni erano passati e un nuovo governo era al potere. Ci furono molte
riforme e cambiamenti. Ci furono anche delle riforme del sistema carcerario
e noi speravamo in una riduzione della pena di Laviero. Eravamo
ancora sotto l’euforia di un nuovo governo e le aspettative erano alte. La
giustizia tanto attesa era arrivata e molti prigionieri facevano ricorso in
appello. Ero sicuro che Katile, che aveva quasi nove anni, si aspettava che
noi facessimo qualcosa.
Primo, sapevo che noi non avevamo possibilità di fare appello. Laviero
era colpevole della sua azione, anche se non aveva avuto scelta. Era giusto
che venisse dichiarata colpevole, ma non era giusto non avere la possibilità
di scegliere un’alternativa al crimine. Secondo, sapevo che non
potevamo permetterci di pagare un avvocato. Ma non mi mancarono mai
la forza e il coraggio per dire a Katile che un giorno sua madre sarebbe
tornata. Quel giorno si stava avvicinando, ma noi non ne avevamo la più
pallida idea. Così continuavamo ad aspettare e sperare, ammesso che potesse
servire a qualcosa.
Quel giorno arrivò.
Nessuno di noi tre sapeva che durante il giorno di Jamhuri alcuni prigionieri
venivano rilasciati, così, come sempre, Katile andò al mercato con
mia madre. Io rimasi a casa a tagliare la siepe. Ulaini era uno di quei villaggi
in cui le feste nazionali non venivano mai prese sul serio e quindi i
doveri quotidiani continuavano normalmente. Le vacanze erano semplicemente
il periodo in cui si supponeva che i figli aiutassero i propri genitori
nel loro lavoro. L’unico segno del fatto che fosse festa nazionale
erano i brandelli scoloriti delle bandiere che pendevano dalle verande dei
negozi. Nient’altro. Per l’ora di pranzo venivano già ritirate. Ci eravamo
appena sistemati per il pranzo, quando sentimmo bussare alla porta. Scherzando,
litigammo per decidere chi doveva aprire la porta perché sapevamo
che era uno dei nostri vicini che veniva a chiederci un pizzico di sale.
Dopo aver litigato e riso per un po’, alla fine mi alzai e andai alla porta.
Non era un vicino di casa. Era Laviero.
Pensai di star sognando ma la bocca mi si aprì di colpo lasciando sfuggire
un urlo e seppi che non stavo sognando. Katile aveva dimenticato che
stava mangiando e il cibo che stava portando alla bocca le era caduto sporcandole
la camicetta. Corse verso la porta, anche lei gridando. Quando
raggiunse Laviero, saltò e le si aggrappò al collo oscillando, mentre lacrime
di gioia le scorrevano sulle guance. Mia madre si alzò dalla sedia
barcollando, con le mani che tremavano, e abbracciò sua cognata con Ka-
tile tra loro. Anche lei piangeva, tutte piangevano eccetto me. Io stavo in
piedi accanto a loro scosso da vera e propria eccitazione. La cosa che continuava
ad affascinarmi era che, anche dopo tutti quegli anni, Katile riusciva
ancora a riconoscere sua madre. Aveva ragione quando diceva che
si ricordava ancora di lei. L’altra cosa di cui mi resi subito conto era che
Laviero non era cambiata per niente: conservava il suo stesso aspetto e i
suoi occhi erano ancora piccole sfere di energia. Le sue gambe erano ancora
atletiche e in effetti ci disse che aveva il ruolo di attaccante nella squadra
di calcio femminile del carcere. Ci parlò della vita in prigione e noi
ascoltammo tutti con il fiato sospeso. Ora ci eravamo riuniti di nuovo intorno
al tavolo dove il cibo si era già freddato. Ci raccontò del pane secco,
dei rimproveri delle guardie carcerarie, dell’appello mattutino e di molte
altre cose.
“Grazie per aver accettato la responsabilità di vivere con mia figlia. Non
penso che andrò a stare con lei”, ci disse mentre cenavamo. Eravamo rimasti
noi tre, perché Katile era già andata a dormire. Era soddisfatta di
tutti gli abbracci ricevuti da sua madre e se ne era andata a letto presto.
Rimanemmo scioccati quando ci disse che se ne sarebbe andata, ma prima
che io dicessi qualcosa lei continuò:
“Partirò fra due settimane. Ritornerò a casa di mio marito, voglio essere
vicino alla sua tomba. Ne ho passate tante e tutto ciò che è successo ha
rinvigorito il mio coraggio”. Fece una pausa e continuò: “Comunque, non
cambierà niente. Katile continuerà ad andare a scuola qui e io verrò a trovarvi.
Non so come ringraziarvi, ma da ora in poi sarò una di voi”. Facemmo
un brindisi con le nostre tazze di metallo. ‘Ha molto coraggio, è
diventata davvero coraggiosa’ pensai tra me. Alzai lo sguardo dal mio piatto
e osservai le due donne di fronte a me: una smorfia di soddisfazione e
ansia allo stesso tempo mi percorse il volto.
“C’è qualcosa che voglio dirvi. Ho imparato molto in questi cinque anni.
Ho scoperto molte cose della mia vita, ma in particolare, la condizione
in cui sono stata rilasciata mi ha fatto capire molte cose. È stato un boccone
amaro da mandar giù, ma ho dovuto farmi coraggio e inghiottirlo”.
Mia madre la guardava attentamente per non perdere neanche una parola.
Io mi sistemai sulla sedia ammutolito.
“In occasione dell’analisi annuale per l’Aids, abbiamo dovuto fare tut-
te un test in carcere. È successo un mese fa. Ho scoperto di essere positiva
all’Hiv e molte cose mi si sono chiarite. Mi sono fatta un’idea,
seppur approssimativa, di chi fossero Cathy e Lily. Loro devono aver
trasmesso il virus a mio marito che, a sua volta, lo ha trasmesso a me.
Mi sono anche resa conto del motivo per cui lui non ha mai voluto che
io mi risposassi. Era un uomo compassionevole che si preoccupava della
vita di quelli che sarebbero rimasti dopo la sua morte. Io ho coraggio
ed è per questo che voglio andare lì e diffondere un raggio di luce
sul pregiudizio nero che c’è tra la gente”, fece una pausa. “Non rimpiango
di aver ucciso mio suocero, perché lui avrebbe potuto causare
la morte di molte persone. Spero che voi due mi capiate quando vi parlo
di questo. Quelle tra noi che erano sieropositive sono state rilasciate:
alcune sono uscite tremanti, ma altre risplendenti di coraggio per illuminare
altre donne e incoraggiare quelle sieropositive come noi, per
dir loro come trovare un modo per farcela”.
Mia madre ora stava piangendo. Io cercai di trattenere le lacrime, ma
mi ritrovai anch’io a piangere. Non riuscivo a credere a ciò che avevo
sentito. “Non posso lasciare che Cathy e Lily uccidano altri membri
della nostra famiglia”, quelle parole ora mi erano chiare, quindi dovevo
credere alle mie orecchie. Laviero sedeva tranquilla sulla sedia,
respirando normalmente, e non c’era traccia di lacrime sulle sue guance.
Mia madre si asciugò le lacrime e capii che stava per dire qualcosa.
Si schiarì la voce:
“Per la prima volta ora capisco perché tuo marito mi implorò di andare
via subito. Pensai di non essere bella e di non poter essere scelta come
seconda moglie, perché per me lui era ancora attraente. Ora, però,
mi è tutto chiaro. Capisco quando dici che si preoccupava per gli altri”.
Per la seconda volta non riuscivo a credere ‘mi implorò di andare via…’;
era una novità per me. Sicuramente zio Muisyo era un buon uomo che
commise un errore ma non volle mai che qualcun altro ne soffrisse le
conseguenze. ‘Grazie, zio’ mormorai tra me. Era già mezzanotte e andammo
a letto con molte rivelazioni a cui pensare.
Due settimane dopo Laviero ci lasciò per dirigersi verso Kimoo. Katile
era serena. Due mesi più tardi Laviero diventò la rappresentante distrettuale
dell’associazione delle donne ammalate di Aids.