Premio Energheia 2016 | American choise | Martedì 13 settembre, ore 20:00
Cos’è cambiato dopo il primo decennio dagli attentati dell’11 settembre?
Politica mondiale
Si può affermare che i cambiamenti sono stati radicali e, più precisamente, per quel che riguarda il contrasto, voluto ed amplificato dai mass media occidentali, tra un occidente guidato dagli Usa ed i gruppi fondamentalisti islamici: da una parte si vede una Washington immersa nei debiti e nei ripetuti fallimenti bellici, tali da farle perdere credibilità nell’immaginario comune globale. Un cittadino del mondo medio si chiederebbe: “chi crede più alle dichiarazioni delle amministrazioni statunitensi?”
Persino Barack Obama, uscito vittorioso dalla battaglia elettorale del 2008 grazie a motti ingannevoli (Yes we can – Change & Hope), continua a celare la verità sull’11 settembre, a tenere ancora in funzione il famigerato Guantanamo, privo dell’intenzione di avviare alcun processo contro i presunti colpevoli. E perché impelagarsi in “cambiamenti” e “speranze” che potrebbero solo preoccupare il Pentagono, quando la comoda formula goebbeliana per cui “ripetere una bugia cento, mille e milioni di volte e diventerà una realtà” fa da sola tutto?
Le conseguenze dell’11 settembre, inutili, selvagge e mal giustificate invasioni in Afganistan ed in Iraq, hanno svuotato, in termini economici e morali, la cassaforte della civiltà americana, così tanto da non permettere agli Usa, come si è visto recentemente, una parte da protagonista nell’Alba dell’Odissea libica.
E i nemici degli Usa, presunti colpevoli degli attentati?
Occorre precisare innanzitutto che l’invasione dell’Iraq non ha condotto ovviamente alla democrazia, ma ad un regime sciita pilotato da interessi settari che riceve gli “ordini” da Tehran e da Washington … bella triade!
I talebani in Afganistan sono sempre più forti: controllano i due terzi dei territori afgani. L’amministrazione USA si trova sempre più costretta a dover dialogare con loro, consentendo addirittura il ritorno al trono di Kabul nel caso in cui venga garantita all’esercito una sicura Exit Strategy.
Anche al Qaeda è più forte, ma soprattutto più diffusa e conta un maggior numero di aderenti. Se le basi del Qaeda, prima del 2001, si trovavano solo da qualche parte nell’Afganistan orientale, ora, a distanza di 10 anni, i seguaci di Ben Laden sono presenti nella Penisola Arabica, nello Yemen, in Somalia per non parlare della loro forte presenza nel Nord Africa e nell’Africa sub sahariana. Si teme che questi ultimi abbiano già messo le mani sulle armi di distruzione dell’ex rais libico, Gheddafi, pronti ad impadronirsi dei pozzi petroliferi libici e ad attuare una lunga guerra contro la Nato.
La quotidianità
È fuori da ogni dubbio che gli attentati dell’11 settembre abbiano influenzato fortemente la vita di mezzo mondo. Negli aeroporti internazionali, i passeggeri mediorientali vengono tutt’ora sottoposti a maggiori controlli rispetto agli occidentali. I nomi Osama, Muhammad, Ahmad, Abdullah, Ayman ed altri ancora, molto diffusi nel mondo musulmano, sono diventati d’un tratto pericolosi. Un Muhammad, all’indomani del crollo delle torri, non trovava facilmente un appartamento da prendere in affitto, un contratto di lavoro, una borsa di studio, accesso a diverse istituzioni nella sfera occidentale del globo.
Ciò ha colpito anche persone non necessariamente musulmane, che, per loro sfortuna, hanno tratti “sospetti”. Induisti, neri africani, arabi cristiani, sikh hanno pagato e pagano “il prezzo” del Nine Eleven, trovando sempre più insostenibile vivere nelle metropoli europee e nordamericane.
Persino il cittadino occidentale si è trovato a dover accettare in modo poco democratico, ma improvviso ed allarmante, norme anti-terroristiche che hanno avuto la funzione certamente di ridurre la libertà individuale. D’altronde, come opporsi a queste norme, quando le immagini di Ben Laden pullulavano sui giornali, alla TV, sulla rete, presentando la perenne minaccia di far saltare in aria la stazione, l’aereo, la metro? Come discostarsi dall’idea, diffusa dai tg, dai film, dai documentari, che faceva cambiare strada ogni volta che s’incontrava sul marciapiede un venditore di fiori pachistano?
Il multiculturalismo
Non sorprende che l’atmosfera del post-11 settembre abbia favorito il multiculturalismo all’interculturalità.
Mentre l’interculturalità promuove la convivenza pacifica tra due sistemi di cultura, il multiculturalismo suggerisce una serie di sistemi di comportamento, atteggiamenti e costumi diversi, che mirano ad evidenziare le differenze e a bollare le altre culture, ad esempio quella islamica, come esotiche e, di conseguenza, lontane. Perciò, meglio mantenerle il più lontano possibile e ghettizzarle.
Non a caso, la globalizzazione culturale attuale, sconvolta fortemente dagli attentati di New York, non è riuscita, nonostante la rivoluzione tecnologica, a raggiungere l’internazionalità dei significati culturali, che invece, ad esempio, le rivolte studentesche del ’68 hanno conquistato.
Con l’11 settembre si è tornati, in altre parole, all’epoca degli studi etnografici imperialisti di 150 anni fa. Ciò era indispensabile per giustificare le nuovemissions civilisatrice. “Noi siamo democratici e liberi e loro sono terroristi – noi siamo per la cultura della vita e loro sono per la cultura della morte” e così via.
L’atmosfera del multiculturalismo è stata l’humus ideale perché emergesse una cultura di estrema destra, tesa a sostenere le ideologie neocon statunitensi riguardo le società, il dialogo interreligioso e la politica estera. Nomi come Cristopher Hitchens, Ibn Warraq, Ayaan Hirsi Ali, Oriana Fallaci, Carlo Pannella, Gilles Kepel, sono comparsi come portavoce dell’occidente che ricorda giorno e notte il pericolo dell’islamismo.
Come se non bastasse, si è tornati a prendere in analisi i saggi dei pilastri della dottrina neo-con, scritti nel periodo che intercorre tra la caduta del blocco sovietico e l’11 settembre, come quelli del veterano orientalista Bernard Lewis, “La fine della storia” di Francis Fukuyama e Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale di Samuel Huntington. I testi, oltre ad essere considerati da tanti simpatizzanti della destra euro-atlantica come“profetici”, rappresentano la “faccia culturale” della missione bellica occidentale nel mondo musulmano. Sono, pertanto, privi di qualsiasi valore intellettuale e intrisi di una forza propagandistica, da sempre preferita dai decision-makers.
Per amore di oggettività, occorre citare anche i rappresentati dell’altra sponda. Basti pensare alla bellissima lettera di Tiziano Terzani, pubblicata sul Corriere della Sera, in risposta all’articolo di Oriana Fallaci “La rabbia e l’orgoglio”, uscito poco dopo l’11 settembre nello stesso quotidiano.
Nell’ottobre del 2001 uscì anche l’articolo “Lo scontro delle ignoranze” di Edward Said, in risposta all’opera di Huntington. Altri scrittori ed intellettuali occidentali, arabi, pachistani (Tariq Ali, Lo scontro dei fondamentalismi, 2002), indiani (Aijaz Ahmad, “Islam and the West”) hanno affrontato il tema in maniera oggettiva tesa a costruire ponti tra le diverse culture ed a creare nuove forme transculturali nella zona di contatto tra oriente e occidente.