Punizione di Rima Abdel Fattah, Tripoli
_Racconto vincitore del Premio Energheia Libano 2015.
Traduzione di Carla Giacalone
Non poteva dire con esattezza per quanto tempo fosse rimasto chiuso in quella stanza minuscola con, come unico compagno, un vecchio ventilatore che ronzava dalla noia sul soffitto. Come prima cosa, aveva esplorato il posto, forse per addomesticare quella paura di cui avevano voluto impregnarlo e che effettivamente si era affacciata in lui appena si era chiusa la porta.
“Orrendo questo grigio!” era stato il suo primo pensiero guardando le pareti della stanza.
Odiava quel colore. Se gli veniva regalata una nuova scatola di pennarelli o una bellissima collezione di pastelli toglieva subito il grigio e le sue sfumature, dalla più chiara alla più scura. Se gli veniva chiesto di disegnare un topolino o dei nuvoloni carichi di pioggia, argomentava gesticolando, inventava mille storie e finiva col scegliere i colori della sua fantasia per riempire i disegni. Ma nessun grigio!!! Mai!
Memorizzò attentamente, come se facesse un inventario, ogni oggetto, ogni particolare che lo circondava e si promise di non dimenticarne nessuno. Non era una cosa da tutti i giorni, vedere un bravo alunno come lui, al quale non c’era mai niente da rimproverare, andare in “punizione”. Aveva cercato nella sua memoria per trovare la parola. Se la immaginò, scritta a grandi lettere corsive sul taccuino che avrebbe dovuto presentare la sera stessa ai suoi genitori. Il suo cuore si mise a battere forte. S’irrigidì, chiuse gli occhi e strinse i pugni fino a farsi male.
Se sei felice e tu lo sai, batti le mani.
Ed i bambini batterono le mani. Tutti, all’unisono e fece lo stesso anche lui. La stanza in cui era rinchiuso era adiacente alla classe dei bambini più piccoli della scuola.
Se sei felice e tu lo sai, schiocca le dita.
Si rilassò immaginando le piccole dita che si strofinavano le une alle altre, scivolavano ed emettevano solo un fruscio sottile. Alla loro età, gli dava fastidio non saper schioccare le dita, come diceva la canzone.
Se sei felice e tu lo sai, schiocca la lingua.
Era già altrove. Aveva quattro anni. La sua lingua ballava sul suo palato. Il suono che produceva era abbastanza forte da giungere alle sue orecchie. Musica ritmata, dalle dolci note, che faceva dondolare, anche anni dopo, la sua testa e il suo corpo, da sinistra a destra e avanti e indietro.
Se sei felice e tu lo sai, batti i piedi.
E le scarpine calpestavano il pavimento ricoperto da un tappeto variopinto.
“Strano. Strano”, pensò la Signora Dimani che lo stava osservando da un finestrino – quasi invisibile – dall’interno perché l’aveva abilmente nascosto dietro un grande armadio metallico. Cinquantenne, i capelli raccolti in uno chignon. Sempre lo stesso completo blu scuro. “Da non crederci! Forse non lo lava mai”, scherzavano i più grandi della scuola alle sue spalle. Lui, mai. Non osava nemmeno guardarla negli occhi. Quando le rivolgeva la parola, era sempre con la testa bassa, con lo sguardo verso il basso. Non si dimenticava mai le formule di cortesia che le piacevano tanto “Vorrei…” “Per favore…” e l’immancabile “La ringrazio” che i bambini dovevano pronunciare per qualsiasi occasione, anche dopo una dura punizione. Ovviamente era per il loro “bene” che li portava nella sua tana, e li lasciava quanto bastava, il tempo “di riflettere sull’accaduto”. Era orgogliosa di sè stessa e si congratulava dei sui trucchi che le garantivano una superiorità senza pari su tutti questi esserini che le venivano mandati; ribelli che nessuno sopportava più in classe.
Si toccò il naso per sistemarsi gli occhiali che non aveva. Si riprese vedendoli attraverso il vetro, sulla sua scrivania, dove si ammucchiavano un decina di cartelle, i quaderni di qualche alunno e due o tre bicchieri di plastica. Il ragazzino di nove anni che vedeva di spalle si torceva sulla sua sedia, agitando mani e piedi. “Strano!” ripeté di nuovo. “Sembra felice, caspita! In venticinque anni ne ho viste di tutti i colori. Quelli sfrontati che ti guardano dritto negli occhi e che una volta chiusa la porta si muovono come leoni in gabbia. I codardi che tremano dalla testa ai piedi e una volta ritrovatisi da soli piagnucolano, soffiandosi il naso nelle maniche delle loro camicie. I timidi, gli insensibili, i sognatori, i rabbiosi… ma quelli felici come una Pasqua, mai visti!!” Le occorsero un paio di minuti per collegare i gesti nervosi dell’alunno, che aveva messo in castigo chiudendolo nel suo ufficio, al testo della canzone cantata a squarciagola dai bambini dell’aula vicina. E quasi se la prese con loro per aver disturbato la sua strategia. “È vero, questo bambino non somiglia a nessun di quelli il cui sedere colpevole si è già seduto sulla mia sedia”, continuò a pensare. “Sempre in orario. Il completo immacolato e ben stirato. Le scarpe tirate a lucido. Le unghie tagliate regolari. I risultati scolastici… un vero orgoglio!!” La Dimani non poteva essere più imbarazzata. Aveva già fatto uno sforzo prima, per non mostrare la sua irritazione, quando la maestra d’arabo, dopo averla convocata in fretta nel suo ufficio, le aveva messo sotto il naso, spingendolo per le spalle con noncuranza, il piccolo Farid Malwoun. Era stata tentata di dirle, tra i denti: “È per il Malwoun che mi hai fatto fare le scale, fino al terzo piano? È per lui che ho lasciato raffreddare sulla mia scrivania il primo caffè del giorno!!!” Ma non aveva detto nulla. Si era accontentata di aggrottare le sopracciglia. “Non ha fatto il compito a casa!”, aveva dichiarato la maestra con un tono da giudice. “Non me ne importa niente!” stava per rispondere. “Non ha fatto il compito a casa?! Ripeté invece, abbastanza forte in modo da farsi sentire da tutti, staccando ogni sillaba, per darsi il tempo di pensare, di decidere su quello che bisognava dire e/o fare in seguito. Però, non era per niente inspirata. Trascinò il colpevole fuori dall’aula, poi davanti a lei, sulle scale, in direzione del suo ufficio. Una volta arrivata davanti alla “prigione” si era già dimenticata il motivo per il quale il bambino stava lì e pensava soltanto al modo di fargli pagare il dispiacere che le aveva causato costringendola a spostarsi. La sua immaginazione, solitamente piena di risorse, non le dettò nulla. Allora, senza dire niente, senza neanche il classico “Rifletterai qui su come sistemare tutto l’accaduto”, lo aveva introdotto nel suo ufficio, dove lo lasciò.
I bambini si erano zittiti. Tese l’orecchio, ordinò al suo cuore di calmarsi per non perdere l’inizio della prossima canzone, ma… niente. Il posto fu immerso di nuovo in un silenzio inquietante. Guardò la porta. Basterebbe alzarsi, fare qualche passo, aprirla e uscire. E se si fosse ritrovato di fronte all’orchessa? Arrossì come se lei potesse leggergli il pensiero.
Squillò un telefono da qualche parte, su un banco che occupava un angolo dell’ufficio. Nel medesimo istante l’orchessa e la sua vittima sobbalzarono. La prima, decise alla fine di entrare nella stanza. Senza nemmeno dare un’occhiata al bimbo, con un gesto della mano spazzò via un mucchio di carte che soffocava la suoneria del vecchio telefono… grigio! Sganciò e proruppe subito con un perentorio “Pronto?” che inchiodò il piccolo alla sua sedia. Seguirono dei “Sì!”, poi dei “…mmm” staccati da intervalli di silenzio durante i quali annuì ostentatamente. Quando ebbe riagganciato, girò la testa a sinistra, poi a destra, come se cercasse qualcosa. Quindi si diresse verso l’armadio metallico la cui porta le resistette un attimo prima di aprirsi con uno scricchiolio acuto. Ne traesse un mucchio di fogli e una penna. Posò il tutto con fragore davanti al bimbo che stava osservando la scena.
“Scriverai su questi fogli i motivi per i quali la tua maestra è arrabbiata con te”.
Il bambino non capì perché toccasse a lui scrivere, visto che se avesse scritto la maestra, sarebbe riuscita meglio a spiegare le sue ragioni per cui si era arrabbiata. Tuttavia si trattenne dall’esprimere a voce alta il suo pensiero. Inoltre, se anche lo avesse fatto, non ne avrebbe avuto il tempo, perché la sorvegliante, pronunciata la frase, andò via chiudendo la porta.
MALWOUN Farid
Mercoledì 16 Marzo 1988
Preparò la pagina protocollo com’era solito fare per ogni compito scolastico. Scrisse il cognome, il nome e la data, tracciando accuratamente le lettere. Non sapeva bene cosa scrivere dopo. Non che la consegna fosse difficile da capire, al contrario, la trovava ridicola! Ed era appunto questo il problema. Odiava tutto quello che era ridicolo: i vestiti che doveva indossare per le grandi cerimonie, i giochi che era costretto ad inventare quando le amiche di sua madre venivano accompagnate dalle loro… figlie! Però era sempre riuscito a cavarsela. Niente di più facile che macchiare i vestiti rovesciandovi una ciotola di cioccolata calda o una fetta di pane con sopra la marmellata. Più di una volta, aveva fatto finta di avere la febbre ed era corso in camera dove era rimasto rinchiuso fino alla partenza delle visitatrici e della loro prole. Ma ora la situazione era diversa.
Perché la maestra è arrabbiata?
Perché non ho fatto il compito a casa.
Ecco fatto. Posò la penna, rilesse le frasi che aveva appena scritto e aggiunse una a alla fine dell’aggettivo perché aveva sbagliato la rispondenza grammaticale. Passarono dieci minuti, durante i quali rilesse un centinaio di volte queste due frasi.
Nel corridoio, qualcuno suonò nervosamente la campana. Appena in tempo per sentirla risuonare in ciascuno dei piani superiori. Subito dopo sentì le grida di gioia dei bimbi della scuola materna. Apertesi le porte, questi spuntarono dalle loro aule. La loro corsa in direzione del cortile dei piccoli, le loro risate, lo stridio delle loro scarpe, le spinte, gli inevitabili pianti e la voce delle maestre che gridavano… questi suoni lo avvolsero e riempirono la stanza dove stava cominciando a soffocare. Quando tutto questo chiasso diventò un rumore di sottofondo lontano, in qualche modo rassicurante, tentò di calmare la sua esuberante immaginazione che stava iniziando a dare i numeri… No, non si era smarrito, dimenticato da qualche parte in mezzo al dedalo sotterraneo di una piramide gigantesca. No, non era intrappolato da una maledizione. Il soffitto non si restringeva. Le pareti non scivolavano verso di lui… Balzò in piedi, fece un bel respiro e fece più volte il giro della sua sedia.
“Perché sono qui?” si chiese. Gettò un’occhiata al foglio che aveva annerito. Questo foglio era il suo passaporto per la libertà, purché contenesse la risposta alla domanda e a quella della Signora Dimani. Purtroppo, questa risposta mancava. Il ritmo del suo respiro si accelerò. Era come un condannato che doveva scrivere prima dell’arrivo del giudice supremo.
Perché la maestra è arrabbiata?
Perché non ho fatto il compito a casa.
Tracciò una linea sopra la risposta che aveva scritto in precedenza e tornò a scrivere.
È iniziato tutto ieri, alle nove durante la lezione di Arabo. Le lezioni di Arabo, ce ne sono tutti i giorni nel mio programma e tutti i giorni è la stessa cosa. La maestra arriva e si ferma sulla soglia della porta, di spalle alla classe. Parla per un momento con le altre maestre. Poi, quando inizia a regnare il silenzio sin dal corridoio, entra finalmente, con le sopracciglia aggrottate. È quasi sempre arrabbiata, la maestra di Arabo.
Poggia la sua cartella sulla sedia (non so se devo dire la sua sedia perché la vedo raramente seduta sopra). Mi si avvicina. Capisco subito che mi devo fare da parte. Mi sposto, mi stringo al mio vicino di banco, in prima fila. Anche i nostri libri si avvicinano e si sovrappongono per fare spazio al sedere della maestra. Allontano i miei libri per farle sistemare il suo sedere e sposto il mio per farle mettere i suoi piedi grossi sulla mia sedia. Inizia la lezione. La maestra, dall’alto, legge ad alta voce. Noi, davanti a lei, ripetiamo imitandola. Poi, senza alzarsi, indica una pagina ed un esercizio. Lavoriamo tutti. Il fischio che fa ogni minuto, passandosi la lingua sui denti, m’impedisce di concentrarmi. Dopo un po’, la sua mano afferra il mio righello. Lo fa scivolare lungo la sua schiena, sotto la camicia e inizia a grattarsi. Me l’ha comprato mio padre questo righello. Mi ha detto che era fatto di cedro. È l’albero che si trova sulla bandiera del mio paese. Sono molto orgoglioso del mio righello. Lo metto a posto con cura, lo presto raramente ai miei compagni. Nella mia cartella, per non romperlo, lo metto nel libro di Storia. La Maestra, lei, non lo sa che non è un comune righello. A volte penso che non sappia nemmeno che cosa sia un righello.
Appena hanno finito l’esercizio, i miei amici sfilano l’uno dopo l’altro, davanti a lei, con i loro quaderni. È con la mia penna rossa che corregge i loro errori, firma il loro lavoro. Mentre scarabocchia, mi guardano, mi fanno le smorfie. Io, non mi muovo. Resisto per non torcermi dalle risate.
Poi viene il momento in cui guarda il suo orologio e si alza. Peccato per gli ultimi arrivati. Li manda al loro posto con un gesto e batte le mani per far fare loro silenzio. Io, respiro e lei si dirige verso il suo cassetto. Prende una busta di plastica trasparente, con una mela dentro, o una banana, e un coltellino. Ogni giorno è la stessa cosa. Sbuccia la frutta e la taglia. Le bucce vanno nella busta, i pezzetti di frutta in una scatola quadrata, di colore rosa, il cui coperchio porta un nome scritto a stampatello con ogni lettera di colore diverso: KIKI, con una corona al posto del puntino su tutte e due le “i”.
Kiki è sua figlia. Lo sanno tutti. Tutti sanno anche che la sua classe è situata in fondo al corridoio dell’asilo, visto che la nostra maestra lo ripete tutti i giorni al postino del giorno. Il postino è colui che sceglie per andare a consegnare la scatola alla “sua principessa”, così la chiama.
Ieri, è toccato a me. Non ho nascosto la mia gioia. Tutto baldanzoso, ho preso la scatola e sono andato via di corsa. Sarà stato in questo momento che avrà deciso di indicare a tutti quello che bisognava fare come compiti a casa, cioè la pagina di esercizi da terminare. A tutti, tranne me. L’ho scoperto questa mattina quando tutti hanno posto sul banco il compito a casa. Tutti, tranne me.
Perché la maestra è arrabbiata?
Perché non ho fatto il compito a casa.
Nel momento in cui metteva il punto finale al suo compito, la Dimani tornò nella stanza. Era pronto e si sentiva sollevato. La sentì arrivare e senza paura, alzò la testa e si mise in piedi. Non riuscì a smettere di sussultare vedendo nelle sue mani, una scatoletta rosa, quadrata, con due coroncine sul coperchio. Inconsapevolmente lasciò cadere il foglio che stringeva fra le dita che scivolò sotto l’armadio metallico. Non girò la testa, non tentò di raccoglierlo. La sua guardia carceraria stessa non sembrava tenerci. La Dimani si avvicinò al bambino e si chinò leggermente verso di lui.
Non saprebbe dire, dopo tutti questi anni, quanto tempo sia rimasto in quella stanza. Ma si ricorda che al momento di uscirne, l’indimenticabile Signora Dimani gli aveva consegnato una scatola, prima di dirgli, indicando la porta: “ La classe in fondo al corridoio!”.